Fosse o Verdon?

di SIMONA BUSNI

Fosse/Verdon, la mini-serie tv Fox Life. 

Partiamo da un’osservazione apparentemente irrilevante sulla scelta del carattere tipografico inserito nel titolo della serie – otto episodi targati FX – tra i cognomi dei due protagonisti, Bob Fosse (Sam Rockwell) e Gwen Verdon (Michelle Williams): la barra obliqua o “slash”, che suggerisce “separazione” (si utilizza, tra le altre cose, per separare i versi di una poesia), ma anche “opposizione”, congiunzione disgiuntiva, ossia l’asse della selezione, della verticalità, del paradigma, questo o quello. Perché, quindi, Fosse o Verdon e non Fosse e Verdon? Il loro è un connubio eclatante fin dai tempi di Damn Yankees (Abbott, Donen, 1958), in cui Bob è il coreografo e Gwen la star di Broadway prestata al cinema – i due lavorano insieme anche nella precedente versione teatrale. Da allora i ruoli, per certi versi, si invertono ed è, infatti, il nome di Fosse ad ottenere maggiore risonanza, soprattutto grazie ai successi ottenuti da regista – la consacrazione arriva nel 1972 con Cabaret, film per cui l’anno successivo vince un Oscar, che si va a sommare ai tre Emmy conquistati per lo spettacolo televisivo Liza with a Z  e al Tony Award per il musical Pippin.

La serie si propone di raccontare i termini di questa tragica inversione e lo fa costruendo una narrazione complessa, la cui struttura ricorda vagamente gli impianti dei film più celebri di Vincent Minnelli, in cui ogni attrazione musicale si apre all’interno di un’altra attrazione (si pensi al celebre finale di Un americano a Parigi, 1951). In Fosse/Verdon tali aperture riguardano la dimensione temporale del racconto e vengono scandite da una serie di cartelli con i quali, di volta in volta, si annuncia il periodo in oggetto a partire da un fatidico misterioso evento zero, che apre il primo episodio e che torna, svelandosi, soltanto nell’ultima sequenza del finale di stagione: Washington D.C., un invecchiato Bob Fosse si guarda riflesso allo specchio fumando (immagine che richiama quella del suo alterego Joe Gideon-Roy Scheider perennemente impegnato a specchiarsi, a fumare e a impasticcarsi in All That Jazz – Lo spettacolo comincia, 1979) e, all’improvviso, si odono dei colpi alla porta. Il suono si confonde con quello dei passi di tip-tap che infestano la memoria del giovane ballerino Fosse: chi sta bussando alla porta? Quale tempo si aprirà oltre la soglia?

Il primo salto porta il telespettatore indietro alla Hollywood di 19 anni prima, sul set di Sweet Charity – Una ragazza che voleva essere amata (1969) durante l’allestimento del numero Big Spender: è in quei delicatissimi anni che qualcosa comincia a scricchiolare nel sodalizio, sentimentale e artistico, dei protagonisti (sposati e genitori di una figlia, Nicole). Il film è un fiasco, tanto che Fosse medita addirittura il suicidio, come ogni narcisista che spera di uscire di scena con una trovata memorabile. Le recensioni sono spietate: Sweet Charity, interpretato da Shirley MacLaine, è una pellicola infestata dalla presenza di una stella invisibile, Gwen Verdon – la Charity originale, star indiscussa della versione teatrale del musical, scritto da Neil Simon e ispirato a Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini. Gwen ha ceduto il passo alla diva più giovane e famosa e, così facendo, si è consegnata alla tipica condizione muliebre di compagna silente. Il cinema l’ha sostituita e il marito la sostituisce continuamente (soprattutto, tra le lenzuola), vagheggiando la ribalta perduta della Primadonna – lui che ammirava la grazia raffinata, senza peso, di Fred Astaire e che aveva dovuto abbandonare i suoi sogni di gloria a causa di una prematura calvizie (motivo per cui non farà altro che piazzare cappelli sulle teste dei suoi danzatori), ritagliandosi il ruolo di “coreografo brillante”, vale a dire uno che è passato dall’altra parte e che non può più calcare le scene.

Lo scontro è, dunque, tra due differenti ordini di invisibilità che si condensano in un’unica massa simbiotica dalla quale è Fosse a trarre, almeno in apparenza, il beneficio artistico maggiore, mentre la figura di Verdon continua a premere sul bordo del virtuale, come una regista occulta, influenzando ogni scelta del marito e dando un fondamentale contributo alla realizzazione delle sue opere più importanti (in merito ai movimenti da proporre nelle diverse coreografie, ai costumi da fare indossare alle ballerine e, addirittura, al montaggio delle inquadrature). Quando la figlia Nicole, commentando il fatto che il padre abbia citato Gwen nel discorso di ringraziamento per l’Oscar  come “la mia amica Gwen”, chiede alla madre per quale motivo non abbia ringraziato anche lei, la donna risponde serafica: «Perché tu non lo hai aiutato a dirigere il film, tesoro!».

Torniamo alla domanda da cui siamo partiti: Fosse o Verdon? Tutti e due, nessuno dei due. La serie, tratta dal libro Fosse di Sam Wasson (in cui, almeno a livello di titolo, una scelta evidentemente è stata fatta), non si sbilancia e offre le stesse potenzialità drammatiche ai due personaggi, distribuendo in proporzione dosi di luci e di ombre: «State per assistere a una storia di avidità, strumentalizzazione, adulterio e tradimento. Una storia che racconta di tutte le cose che ci stanno a cuore», annuncia Gwen sul palcoscenico del suo personale cabaret onirico, in frak e cilindro, stringendo tra le mani una rosa rossa. L’allineamento tra il linguaggio della serialità e quello dello Show Musical – di cui Bob Fosse è stato, senz’altro, un innovatore – riesce perfettamente, pur senza eccedere nel citazionismo e, soprattutto, senza impantanarsi negli anfratti aneddotici del mero “dietro le quinte”: Fosse/Verdon individua altri spazi, altri margini, altre quinte, ibridando riferimenti alle forme cinematografiche originali (scene, coreografie, canzoni) con il  racconto biografico.

Nel chiassoso cortocircuito vita-fiction, la serie supera di gran lunga All That Jazz (in cui Fosse strizza l’occhio al Fellini di , 1963) proponendo un’ulteriore mise en abîme: non più semplicemente “film nel film” o “spettacolo nel film”, ma “film nel film nella serie”, un’operazione forse destabilizzante per il telespettatore più basico eppure ricca di un suo peculiare spessore ontologico. Quanti fantasmi si possono contare, infatti, nella scena dell’ottavo episodio in cui Sam Rockwell interpreta Bob Fosse che chiede il permesso di interpretare se stesso, per gioco, durante le riprese del finale di All That Jazz, cioè quando Gideon-Scheider-Fosse (ci sarebbe da considerare anche Lin-Manuel Miranda, l’attore della serie) dà il suo addio alla vita e alle scene sulle note di Bye bye life?! Superata la vertigine, non resta che abbandonarsi – esausti, ma infinitamente grati – all’assunto spettacolare su cui si fonda la filosofia umana di Bob Fosse (e della sua paradigmatica partner Gwen Verdon): Life is a cabaret, old chum. Come to the cabaret!

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