Fortuna – opera prima di Nicolangelo Gelormini – è una di quelle favole che, al di sotto del loro velo di meraviglia, lasciano trasparire presto il lato più oscuro dell’animo umano. Il regista, storico assistente di Paolo Sorrentino, si lancia nel racconto di una storia consumata prevalentemente all’interno della dimensione psicologica della protagonista, seguendo un percorso inverso che invece di condurre ad una rinascita personale mette in luce la drammaticità dei conflitti irrisolti nelle piccole comunità di periferia.

Fortuna è una ragazzina come tutte le altre, se non fosse che nasconde qualcosa dentro di sé: un segreto così inconfessabile da farle sviluppare un parziale mutismo selettivo. Le uniche persone a cui rivolge parola sono gli amichetti del palazzo condominiale dove vive, con i quali fantastica di essere una principessa intergalattica in fuga da una cosca malvagia di alieni giganti. Le figure adulte che le orbitano intorno minimizzano il suo disagio, razionalizzato mediante un raffinato esercizio dell’immaginazione, e interpretano i suoi atteggiamenti con distacco e frustrazione. L’unica ad accorgersi che qualcosa non va è la psicoterapeuta a cui è affidata, la quale scopre una lunga storia di abusi sessuali alla fonte del suo malessere. Un disagio che, a quanto pare, non ha colpito soltanto lei ma si è infiltrato ormai in diverse case del suo quartiere.

È proprio la figura della psicologa – interpretata da Valeria Golino – a rappresentare il punto di accesso privilegiato al tema principale del film: non tanto la violenza in sé verso i minori, quanto la descrizione puntuale della concezione pedagogica distorta che si viene a sviluppare nelle realtà sociali meno agiate. Con un espediente visivo Gelormini trasporta il fenomeno psicanalitico del transfert sullo schermo, intercambiando e confondendo i personaggi della madre di Fortuna – Pina Turco – e quello della psicologa. L’effetto che se ne ricava è una breccia all’interno dei desideri reconditi della protagonista, sedimentati intorno ad una visione della genitorialità molto lontana dal destino di cui è succube.

Invece di crescere con una figura attenta e comprensiva – come è effettivamente il personaggio della Golino – la vera madre è tutto l’opposto: una donna immatura e disillusa che, incapace di accompagnarla nella scoperta del mondo, la comprime sotto il peso di una autonomia e di una responsabilità troppo grandi per la sopportazione esistenziale di una bambina della sua età. Ed è a quel punto che diventa agevole per i predatori intercettare coloro che si avventurano solitari lungo sentieri eccessivamente impervi. “Coniglio. Questo è il coniglio. Maiale. Questo è il maiale. Cane. Questo è il cane.” recita a ripetizione il programma televisivo su cui è perennemente sintonizzata la televisione del loro appartamento, quasi a sottolineare la povertà di un insegnamento familiare mancato e poi rimesso all’uso semplificato di strumenti impersonali ed acritici.

Ma la dimensione pedagogica della trasmissione dei saperi è più complicata rispetto alla riduzione operata dal personaggio interpretato dalla Turco. Oltre a dover fare esperienza della quotidianità nella prospettiva forzata di un adulto, ben presto Fortuna si rende conto, abbandonata a sé stessa com’è, che la realtà là fuori non è popolata solamente da cani, conigli e maiali. “Il lupo. Questo è il lupo”; e a volte lo si può incontrare nel proprio percorso senza avere gli strumenti per contrastarlo. L’infanzia rubata di cui parla il film non ha niente a che fare con la dimensione fisica poiché già comincia a monte, evidenziando certe mancanze affettive che operano sotterraneamente nelle comunità come quella ritratta.

Non stupisce che Gelormini, in numerose interviste, abbia espresso una naturale comunanza artistica nei confronti di David Lynch. Non solo per la matrice drammaturgica, basata sui piccoli grandi segreti dei nuclei familiari ai margini delle società urbane, ma soprattutto per il forte tratto stilistico improntato alla ricerca dell’estetismo. Tuttavia l’originalità, sia registica che fotografica, di Fortuna è da ricercare nella sua capacità di rimanere aderente al tessuto sociale che vuole raccontare senza mai tradirlo e senza mai scadere nella pomposità e nell’artificio. È qui che sembra riecheggiare una tendenza del cinema italiano contemporaneo, inaugurata da Garrone e portata in auge, negli ultimi anni, dai fratelli D’Innocenzo: la preservazione dell’intimità nazionale, espressa nelle sue problematiche, nelle sue sfumature e nei suoi tratti caratteristici, senza la rinuncia ad una forma visuale di grande attrazione. L’influenza sorrentiniana si fa sicuramente sentire in questa opera prima, ma Gelormini sposa la narrazione convenzionale per mettere in scena personaggi che hanno il sapore dell’autenticità e luoghi che, nonostante appaiano in una veste fantastica, mantengono alla base una certa consistenza realistica.

L’estetica dell’immagine è messa in consonanza con la dimensione psichica di Fortuna, adottando un linguaggio che attinge da varie fonti. La maniacalità nella cura dei dettagli delle inquadrature e la loro composizione così attenta non può non richiamare i quadri in movimento costruiti da Wes Anderson nei suoi film, ma la disposizione scenografica del profilmico va ad economizzare l’horror vacui andersoniano per approdare ad una soluzione fotografica minimale, enfatizzando i vuoti e le mancanze dello spazio scenico. Il risultato è una trasmissione visiva del malessere interno della protagonista senza sacrificare, allo stesso tempo, la suggestione delle prospettive geometriche e dei punti di fuga, per una resa finale delle immagini che, giocando con i contrasti, sembra collocarsi, curiosamente, più sul versante mistico della tradizione cinematografica scandinava – omaggiata, al giorno d’oggi, soprattutto in Polonia da Pawlikowski – che su quello del cinema di stampo “teatrale”. La scelta del rapporto d’aspetto in 4:3, la prevalenza delle inquadrature fisse e l’utilizzo di lunghezze focali larghe anche nei piani stretti, contribuiscono insieme a veicolare i contenuti sociali della storia secondo un peculiare senso di abbandono e perdizione. Fortuna è certamente una favola, ma una favola partorita da una mente privata di qualsiasi attaccamento genitoriale.

Il rischio primario di un film di questo tipo è che l’interesse per l’immagine soprassieda l’interesse per la progressione drammaturgica; ed effettivamente la storia manca di una vera e propria risoluzione sul climax, mantenendosi aderente al minimalismo perseguito e affidando l’esposizione delle informazioni finali ad una serie di cartelli di chiusura. Se questa sia l’ennesima scelta registica indirizzata alla sperimentazione o una mancanza strutturale dell’opera, non ci è dato saperlo; fortunatamente, questa ed altre fratture nello scheletro narrativo del film sono coperte dall’ampio spettro interpretativo col quale lo spettatore può intrattenersi a speculare.

Fortuna non rimane sulla superficie di una trama esplicita ma scende nel sottosuolo del simbolismo per allestire un insieme di figure immaginifiche capaci di aprire la strada ad una varietà di significati possibili. Generalmente, per codificare un simbolo è necessario possedere già un dispositivo culturale pregresso, così da coglierne puntualmente i rimandi; l’opera prima di Gelormini ha il pregio di semplificare questo dispositivo e renderlo accessibile a tutti, poiché intriso e colorato dal folklore di una cultura ben inquadrabile all’interno del tessuto sociale nazionale. Più che un’opera simbolica, tipica delle scuole cinematografiche della non-narrazione, Fortuna è una finestra che affaccia sulla caratterizzazione di un popolo, nonostante si mantenga comunque fedele ad una retorica della meraviglia vista sotto la lente di un dramma.

Fortuna. Regia: Nicolangelo Gelormini; sceneggiatura: Nicolangelo Gelormini, Massimiliano Virgilio; fotografia: Agostino Vertucci; montaggio: Nicolangelo Gelormini; musiche: Golden Rain; interpreti: Valeria Golino, Pina Turco, Cristina Magnotti, Anna Patierno, Denise Aisler, Libero De Rienzo, Leonardo Russo, Luciano Saltarelli, Marcello Romolo, Giovanni Ludeno, Camillo Acanfora; produzione: Davide Azzolini; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Italia; anno: 2020; durata: 108′.

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