Di cosa parla Don’t Worry (2018), l’ultimo film di Gus Van Sant? Questa può apparire quasi come una domanda ingenua, perfino triviale; eppure, l’andamento narrativo molto semplice e apparentemente privo di ambiguità – è un segno di sprezzatura? – del film restituisce pregnanza a un’interrogazione preliminare così banale. Il protagonista assoluto del film è John Callahan (Joaquin Phoenix): una figura realmente esistita e di cui il film si fa carico di raccontare la storia, come accade sempre più spesso oggi, nel panorama di un cinema che mescola volentieri realtà e finzione, “cinema” e “documentario”, tentando anzi, piuttosto, di far saltare categorie così rigide, probabilmente desuete e forse mai veramente capaci di cogliere la creatività propria al narrare con le “immagini in movimento”.

Dal punto di vista degli indicatori formali di questa narrazione a cavallo tra realtà e finzione, Van Sant si attesta sullo stile definito dal cinema americano contemporaneo, senza discostarsene troppo: alla fine del film, prima dei titoli di coda, ci viene mostrata una fotografia del vero John Callahan. Inoltre – ed è questo uno tra gli elementi di maggiore forza e interesse nel film – viene scelto un tratto caratteristico della vita, e dell’opera, del protagonista per delinearne la figura. Nel caso di Callahan, il quale esercitò per molti anni e su diversi giornali la professione di vignettista, il film fa ampio uso dei disegni autentici per accompagnare la narrazione.

Tra l’altro, il regista riprende, con particolare efficacia, una trovata già usata da Peter Greenaway nel film Eisenstein in Guanajato (2015): quella, cioè, di animare i disegni originali del protagonista – nel caso del film di Greenaway si trattava del celebre taccuino messicano del regista sovietico – per dare voce o espressione ai pensieri o ai sentimenti del protagonista. Si tratta, dunque, di qualcosa di più di un semplice commento, o un’illustrazione, del racconto filmico: i disegni animati interagiscono con il senso della narrazione, almeno tanto quanto questa, con un effetto di retroazione, aspira a chiarire il significato di quei disegni. È un aspetto importante del film di Van Sant, su cui dovrò ritornare.

Tornando per ora alla questione della cornice “realistica” del film, va subito segnalato, come si è già detto, che Van Sant si limita a dare i riferimenti essenziali per riconoscere nel film una “storia vera” e per collocarla nel giusto contesto storico: gli Stati Uniti, verso la fine degli anni settanta, all’inizio della grande ondata neoliberista, di cui intravediamo i primi segnali. Questa scelta di estrema sobrietà marca una differenza rispetto a molte sperimentazioni che sono state tentate negli ultimi anni da altri registi americani: un nome tra tutti, probabilmente il più notevole in questo campo, è quello di Clint Eastwood; penso in particolare all’ultimo Ore 15:17 – Attacco al treno (2018) e alla scelta di far recitare i veri protagonisti della storia raccontata. Van Sant non fa nulla di tutto ciò. Fatta salva l’indicazione che si tratta di una “storia vera”, la verosimiglianza narrativa è tutta affidata ai classici parametri dell’efficacia narrativa e della prestazione attoriale; quella di Joaquim Phoenix – il quale impersona John Callahan come un tetraplegico alcolista beffardo e depresso, un vero e proprio pericolo pubblico quando sfreccia sulla sedia a rotelle – sopravanza ovviamente di gran lunga ogni possibile immaginazione e, proprio per questo, ricarica di senso la realtà.

La storia è semplice: John Callahan è un ragazzo sbandato della West Coast, anzi dell’entroterra un po’ bifolco della West Coast. Si muove tra una festa e l’altra, tra una donna e l’altra; non ha una vera e propria occupazione. E soffre di alcolismo. All’inizio il film intervalla l’andamento narrativo con dei brevi flashforward dal finale: Callahan su una sedia a rotelle parla alla platea di un teatro della sua esperienza. Così sappiamo subito come andranno le cose: Callahan è alcolista, finirà per avere un incidente e rimarrà invalido. E infatti le cose vanno così: una sera va via da una festa insieme a un suo amico, Dexter (Jack Black), anche lui alcolista. L’amico l’ha convinto che all’altro capo della città c’è una festa con ragazze molto più carine e disponibili. In effetti, i due si trovano a fare una specie di flânerie notturna attraverso quello spazio sospeso tra città e deserto, tra civiltà e Far West, tra consumismo e ranch, che è il paesaggio americano: parchi giochi a tema, pompe di benzina, locali notturni con spogliarelliste e così via discorrendo. E finiscono per avere un incidente sull’autostrada, di ritorno a casa: l’automobile è di Callahan, ma guida il suo amico. L’amico non si farà quasi nulla, mentre John rimarrà invalido a vita.

Inizia così il suo percorso di riabilitazione. Potrebbe apparire il classico film edificante americano, aggiornato e corretto comm’il faut al mutare dei costumi e delle abitudini, con una maggiore concessione al protagonista di portarsi dietro, nel suo percorso di conversione, qualcosa del personaggio maledetto che era: sono i western americani, d’altronde, ad averci insegnato che in fondo i buoni sono quelli con la mano più svelta, la mira più precisa e il colpo mortale che ai cattivi, nella resa dei conti finali, manca sempre. Ma le cose non stanno così. John non è un cattivo che diventa buono, portando con sé ciò che della malvagità serve ancora all’etica dell’eroe, dal pius Aeneas fino a John Wayne. John Callahan è un uomo che, come dice, sa solo tre cose su sua madre: era insegnante, rossa di capelli e irlandese. Anzi quattro: che lo ha abbandonato in fasce e lui è cresciuto con una famiglia adottiva. Il percorso di “conversione” di John incontra dunque con quattro fantasmi: la madre, l’alcolismo, la disabilità. E un quarto: la scoperta, o forse la riscoperta, del disegno.

Van Sant non si preoccupa di mettere dentro insieme, senza per questo scalfire in alcun modo l’estrema sobrietà del film, le cose più disparate. C’è l’elemento paranormale: John una notte ha una visione della madre che gli comunica il suo amore; a volte, da quando è in ospedale dopo l’incidente, vede fuori della finestra, nel parco, dei giovani atleti che lo invitano a seguirli. Sono messaggeri della morte, come gli suggerirà il “guru” del suo gruppo degli alcolisti anonimi, Donnie (Jonah Hill). Poi ci sono loro, gli alcolisti anonimi, guidati da questo strano e improbabile giovane santone gay, ex alcolista come loro, figlio viziato e ricco della West Coast. Donnie ama i suoi adepti e li vuole guarire, ma è altrettanto consapevole del fondo egoista e narcisista che lo muove a impegnarsi così. Ed è lungi dall’essere una figura perfetta e santa, nonostante impasti i suoi insegnamenti di continui riferimenti a una spiritualità new age insopportabile: morirà di Aids.

Poi c’è John, che continua a essere insopportabile, un provocatore. Continua a voler bere, anche se riesce a controllarsi con il tempo; a desiderare le donne e a cercare una vita sessuale, nonostante abbia il corpo insensibile dal bacino in giù. Quando gira per la sua città in sedia a rotelle è un pericolo pubblico. E, diciamolo, solo Joaquin Phoenix avrebbe potuto creare un personaggio dotato di tale forza, presa dagli angoli tutto sommato più squallidi della vita; ma non è l’unico attore del film a meritare un applauso per il suo ruolo.

Detto questo, si può ancora dire che c’è conversione in questo miscuglio indistinguibile di vita e consumismo, di valori e dissacrazione? Non c’è né la conversione “protestante” che è alla base dei valori originari della cultura americana, che fa di ogni uomo un “eletto” sulla base non dei suoi meriti, delle sue “opere”, ma della fede incrollabile che lo accompagna; né c’è la conversione cattolica degli avi irlandesi di John, che farebbe di lui malato e impotente una nuova immagine del santo che offre la miseria della sua vita a Dio, con letizia quasi francescana.

John rappresenta fino in fondo lo spirito americano moderno, quello che non conosce più il potere di simili strutture e vive – proprio come tenta di insegnargli Donnie – nell’attraversamento di cure della vita, filosofie della vita, movimenti spirituali, religioni, nuovi prodotti commerciali, nuove scoperte mediche e scientifiche, nuove ristrutturazioni dello stato sociale e così via dicendo. È, in senso radicale, il mondo del “politeismo dei valori” profetizzato, anzi pronosticato, da Max Weber. Ma è in questo mondo che Callahan deve imparare a essere uomo, a riprendere in mano la sua forma di vita per darle un senso. Ecco che entrano in campo i disegni.

Se mi chiedessero brutalmente di riassumere in una frase qual è la storia raccontata in Don’t Worry, non sono sicuro che risponderei: il ritorno alla vita di un disabile, la guarigione di un alcolista o l’elaborazione del lutto di un orfano che chiude i conti con il passato. Tutto questo, anche. Ma forse soprattutto: la nascita di un artista. La forma di vita che porta il nome di John Callahan – da una sedia a rotelle, e con problemi di alcolismo – quando gira le strade chiedendo ai passanti di dirgli se la sua vignetta fa ridere. Che subisce le lettere di elogio o di rimprovero dei suoi lettori. Che pensa disegnando, che dà forma non solo a un’interpretazione, ma a una configurazione del mondo che prima non esisteva. In questo ricorda molto l’Ejzenštejn (2014) di Greenaway: la vita ha un senso per lui, gli diviene possibile pensarla, solo se la disegna.

E così, alla fine, capiamo che il disegno lungamento scartato, che rappresenta l’evoluzione della specie, dall’animale acquatico della Preistoria fino all’umano sul podio del vincitore – di cosa? della lotta per l’esistenza? – è stato rimuginato per un’intera vita perché quel disegno è la vita. Callahan vive in quanto disegna e disegna perché è vivo: ciò significa che naturalmente in mezzo ci sia tutto il resto. In lui, disegnare non è solo un fatto di piacere, far ridere, fare una bella figura, essere “geniale”. Se la sua arte è esemplare, lo è perché – ed in questo è profondamente americano, nel senso del pragmatismo di John Dewey – ricarica continuamente di nuovi modelli e nuove schemi la vita, non perché si crea un ambiente protetto, lontano dal mondo.

Riferimenti bibliografici
D. Cecchi, Immagini mancanti, Pellegrini, Cosenza 2016.
J. Dewey, Esperienza, natura e arte, Mimesis, Milano 2014.
D. Dottorini, La passione del reale, Mimesis, Milano 2018.
M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1991.
Id., Il politeismo dei valori, Morcelliana, Brescia 2010.

Share