Il filosofo francese Jacques Derrida, in un libro magnifico, Politiche dell’amicizia (1994), prendendo le mosse dall’etica di Aristotele, e attraversando a modo suo la scrittura di Montaigne, Kant, Nietzsche, Blanchot, cioè, con un’opera incessante e paziente di avvicinamento al testo, pensa la relazione tra amici come un modello di comunità – non fondata sul sangue e segnata da una familiarità collocata oltre ogni famiglia – in grado di evocare una forma inaudita di democrazia; una “democrazia a venire” la chiama Derrida, perché abitualmente sepolta dai legami di sangue, dal modello della fratellanza che invece ha guidato la nostra logica della comunità.
L’amicizia non è fondata su alcuna necessità e istituzione per questo motivo è un legame segnato sin dal suo scoccare da una separazione, da una mancanza di fondamento; in questa maniera condensa potenzialmente la miccia anarchica di ogni principio veramente democratico che, paradossalmente, ogni governo democratico tende immancabilmente a rimuovere. Insomma, per Derrida non c’è altra politica possibile per la democrazia a venire che non una politica delle amicizie perché, in fondo, l’amicizia accade senza preavviso e senza, in fondo, che si possa veramente scegliere di essere amico di qualcuno. L’essere-amico dispone una particolare relazione con il mondo che va ben al di là dell’essere-amico di qualcuno in particolare.
Non intravedo un accesso altrettanto efficace se non quello dell’amicizia, secondo l’intelaiatura di Derrida, per penetrare il formidabile film di Kelly Reichardt, First Cow, che intorno al legame di due irregolari e marginali, Otis Fifowitz (detto Cookie) e King-lu, si assume il compito iperbolico di sfidare il mito della frontiera americana (amicizia tra Cookie e King-lu sugellata nell’incantevole sequenza finale del film da una sottile ma allo stesso tempo diffusa carica politica consegnata alla sopravvivenza archeologica di una comunità im-possibile); e lo fa innanzitutto duellando contro chi più di ogni altro quel mito lo ha fondato, ispirato, cristallizzato permettendo che esso diventasse l’origine della grande storia americana: i western di John Ford, di Howard Hawks, di Sergio Leone.
Kelly Reichardt, con una sofistica operazione di verità, allora scaglia il (suo) cinema contro il cinema, decongestionando, in una sola mossa, sia il mito della frontiera sia la leggenda del cinema americano consegnato a sceriffi, pistole, saloon, cavalli. E in questa maniera inevitabilmente riscrive nientemeno che la storia americana perché in fondo il film gira intorno a un interrogativo molto semplice ma in fondo mai banale: come funziona il capitalismo?
Voltare le spalle alla tradizione del western americano significa innanzitutto adottare un tipo di formato, il 4:3, la cui dimensione scatolare, quasi quadrata, contribuisce a stabilire un senso d’oppressione, di condensazione estrema dell’immagine in modo da disporre un’altra visione rispetto a quella maestosa, orizzontale dalla vastità dell’immagine del classico western. La scelta formale a questo punto indica la traccia intorno a cui si organizza la grande ambizione del film. First Cow maneggia il mito della frontiera, della corsa all’oro, del genere western, ma compiendo un passo indietro temporale: colloca la vicenda qualche decennio prima dell’inizio di quest’epopea e svela, in questa maniera, l’arcano che scalpita alle sue spalle. Siamo in Oregon all’inizio dell’Ottocento; dunque prima che la leggenda dell’infinito West, solcato da mandrie, treni a vapore, diligenze, grandi eroismi, prenda avvio; è questo leggero ma decisivo disavanzo temporale ad aprire le porte a un poderoso e perturbante processo di demitizzazione.
Reichardt disaggrega la mitologia della frontiera registrando nel dettaglio, senza tralasciare alcuna traccia, che cosa c’è dietro: l’orchestrazione di una violenza originaria che ispira la conquista dell’ignoto la cui realtà non è poi tanto lontana dallo stato di natura di matrice hobbesiana. Nel west prima del west, allora, la struttura primordiale della violenza emerge platealmente con l’arrivo di una vacca che giunge, come un vitello d’oro nel deserto, a cristallizzare relazioni sociali e rapporti di potere e a rendere manifesta la prepotenza del capitalista di turno.
First Cow, in effetti, si muove nei vicoli teorici messi a punto dal celeberrimo capitolo XXIV del primo Libro del Capitale di Marx, laddove s’illumina il fondamento del capitalismo prima che esso si dispieghi nella sua più elevata organizzazione e depauperamento dell’esistenza di ciascuno. Il film, in poche parole, si prende l’impegno di mettere in scena, ma con una dose massiccia di ironia, nientemeno che le condizioni dell’accumulazione originaria. Scriveva Marx che l’accumulazione originaria «non è il risultato, ma il punto di partenza del modo di produzione capitalistico». Non c’è plus-valore e capitalismo senza una forma di accumulazione primitiva, cioè, una carica di violenza radicale che, tra le altre tante cose, non può che produrre disgraziati e fuori-legge. Come osava fare Cronenberg in A History of Violence (2005), Reichardt mostra che dietro ogni universo forgiato dal capitalismo ribolle immancabilmente un’ingiustizia profonda che peraltro, prima o dopo, ritornerà a chiedere il conto evocando la necessità della sua ripetizione se non si è disposti a spezzare la catena della violenza.
All’andamento spietato delle cose, all’inevitabilità della ferocia, si oppone l’amicizia: King-lu è un uomo in fuga; a rischio della propria vita, Cookie, senza chiedere niente, lo aiuta. Iniziano una (nuova) vita insieme; sopravvivono prendendosi cura l’uno dell’altro. Lottano con la natura, dentro le sue leggi, le strappano quello che possono svelando una curiosa cavalleria verso il mondo, assaporando un’altra idea di mascolinità e dissonante delicatezza mentre tutto intorno è sporcizia, fango, brutalità. First Cow, in effetti, esplora la ferita originaria della storia americana virando l’attenzione su un’altra maniera di abitare la natura.
First Cow non nasconde ovviamente che il rapporto con la natura e gli animali, il conflitto con la sua forza e le sue regole, è ciò che consegna alla nostra specie il suo carattere. Bisogna pur sopravvivere; ma proprio questa necessità non può che fondarsi su una forma di alleanza e rispetto profondo del mondo che ci circonda altrimenti proprio ciò che noi siamo rischia di smarrirsi. I due amici uccidono animali, con trappole quasi innocenti, per mangiare e sopravvivere. Ma con gli animali condividono lo spazio, persino lo sguardo; abitano una soglia comune, una galassia che non li separa: sono amici. Il conflitto ha le sue regole e la sua logica; è fondato su forme di rispetto reciproco persino. Tutto questo è ciò che il capitalismo distrugge e annienta. First Cow, ed è la saggezza del film, ci fa vedere quest’opera di devastazione umana e ambientale, a uno stato puro; all’origine del processo, quando i cercatori d’oro sono pressoché animali che alloggiano nel fango, frequentano saloon lerci e si coprono in catapecchie di legno. Il denaro ancora si confonde con forme di baratto.
Di fronte all’accumulazione originaria, allora, non resta altro da fare, per alimentare i propri sogni, che impegnarsi in piccoli furti. I due amici sognano di aprire un hotel a San Francisco, oppure un bar chissà dove. E allora iniziano la loro impresa affidandosi all’abilità culinarie di Cookie nel friggere delle pastelle a base di latte – latte munto con una dolcezza poetica – che riscuotono un grande successo nel derelitto universo di presenze che li circonda. Attenzione: First Cow non cede mai alla tentazione ingenua alla Into The Wild (2007); il film della Reichardt, grazie al cielo, è un oggetto complesso, sfumato, a tratti inclassificabile. La sua intelligenza sta nel rovesciamento del racconto delle origini ma senza assumere una posizione dialettica radicale, piuttosto vi scava dentro con perizia e lascia che siano comunque due uomini, gentili e radicali, candidi nella loro innocenza, a mostrare l’intollerabile. Due uomini che non rinunciano all’idea che sia necessario inventarsi vie di fuga, con coraggio e inventiva, ma lo fanno senza depredare il mondo.
First Cow comincia senza celare le proprie intenzioni: si apre con l’immagine di un grande nave commerciale che solca lo stesso fiume su cui duecento anni prima la vacca era giunta su una zattera in Oregon. Come per la vergognosa abitudine di permettere alle navi di sfiorare piazza San Marco, si avverte facilmente un elemento fuori scala, disarmonico e spettrale. È nell’economia visiva di questa separazione radicale, persino incommensurabile, tra l’uomo e il paesaggio che First Cow prende effettivamente le mosse dal ritrovamento fortuito di due cadaveri. Giacciono vicini; riposano in pace. Evidentemente ciò che è stato sotterrato, una certa idea di comunità per la precisione, ritorna, come un’immagine inattesa, a “farsi vivo”. Reichardt giustamente non s’imbarazza di progettare un’istanza archeologica elementare in grado di lasciare affiorare il rimosso della storia della democrazia contemporanea proprio oggi che la devastazione del pianeta è arrivata a un punto probabilmente di non ritorno se non ci saranno politiche senza negoziazione. L’amicizia di Derrida è il fondo rimosso della comunità del sogno americano che può però tornare alla luce.
First Cow. Regia: Kelly Reichardt; sceneggiatura: Kelly Reichardt, Jonathan Raymond; fotografia: Christopher Blauvelt; montaggio: Kelly Reichardt; musiche: William Tyler; interpreti: John Magaro, Orion Lee, Toby Jones, Ewen Bremner, René Auberjonois, Scott Sheperd, Gary Farmer, Lily Gladstone, Alia Shawkat, John Keating, Dylan Smith, Manuel Rodriguez, Clayton Nemrow; produzione: Film Science; origine: Stati Uniti d’America; durata: 121′.