Degli uomini rinchiusi in una caverna oscura assistono a una “teoria” di immagini, a uno spettacolo di ombre riflesse su una parete interna, che fa da schermo visivo su cui si proietta una luce che, provenendo da un fuoco lontano, incontra nella sua traiettoria un altro muretto, un altro tipo di schermo (che rimane invisibile a loro), dietro al quale si nascondono, si schermano appunto, coloro che come burattinai manovrano i dispositivi e gli oggetti necessari per generare le figure illusorie che quegli uomini guardano scambiandole per la realtà. È il celebre mito della caverna platonica, la scena fondante della filosofia occidentale, la condanna dell’errore dei sensi e insieme la consacrazione della vera theoría del senso, dell’unico “vedere” accreditato della facoltà di percepire la realtà intellegibile, il vedere attraverso gli occhi del lógos.
La verità è un gioco di schermi che mostrano e di schermi che occultano, che insieme formano l’“archi-schermo”, per usare la definizione di Mauro Carbone (Filosofia-schermi, Raffaello Cortina, 2016). Un gioco di schermi e di rappresentazioni abitato da una contraddizione strutturale: il rappresentare filosofico presuppone una fede nella sostanza, ovvero nel mantenersi uguale del contenuto della sua rappresentazione, eppure il rappresentare stesso non è nulla di uguale a sé medesimo e di immutabile, essendo anch’esso l’effetto di una pratica situata e tutt’altro che assoluta, effettuata per mezzo di un espediente tecnico – il muretto, lo schermo dal quale fa vedere, non vista. Tutto questo doveva essere ben presente a Nietzsche quando nei Frammenti postumi del 1881 dichiarava che la “certezza fondamentale dell’essere” è il mutamento, il non essere uguale a se stesso, e che è per questo che “il rappresentare afferma esattamente il contrario dell’essere!” (11 [19]).
A proposito di questa nicciana certezza circa l’essere concepito come movimento, il cinema in quanto linguaggio espressivo avrebbe evidentemente molto da dire e molto da insegnare alla filosofia, che essenzialmente è una filosofia-scrittura, ossia una forma di pensiero che ha ricavato dalle qualità mediali intrinseche della scrittura l’attitudine ad astrarre, generalizzare e sterilizzare l’esperienza umana. Del resto si sa, scripta manent, verba volant. Pensare per concetti (dal latino concipio, “prendere insieme”) significa in un certo senso “scrivere” la vita e arrestarne il flusso, estrapolare presunte proprietà generali da fenomeni eterogenei onde poterli catturare (com-prendere appunto) all’interno di categorie cognitive valide universalmente ma di fatto sclerotizzate e vuote di contenuti estensionali e di reali risonanze psico-somatiche. Ebbene, da questo punto di vista il cinema può esercitare un effetto vivificante sulla filosofia rifondandola e trasformandola in una vera e propria filosofia-schermi. Come spiega Carbone, la filosofia intrattiene sin dall’origine una relazione ambigua con il dispositivo dello schermo:
da un lato essa ha sempre accusato questi ultimi di non farci vedere ciò che è decisivo sapere, dall’altro ha però immancabilmente finito per cercarne un qualche tipo, proprio per farci vedere, attraverso di loro, almeno l’immagine, di quanto vuol darci a conoscere (p. 9).
Carbone ci accompagna – con dovizia di riferimenti e perspicuità analitica, non disgiunte da una rara capacità di chiarezza argomentativa – nel cuore di questa ambiguità attraverso un’affascinante ricostruzione di come il pensiero filosofico del secolo scorso si è misurato con la sfida e le provocazioni intellettuali sollevate dal cinema. Così, ad esempio, apprendiamo che il cinema fu inviso a Henri Bergson, paradossalmente proprio il filosofo dello “slancio vitale” e dell’“evoluzione creatrice”, il quale lo condannava in quanto mera illusione di movimento. Suscitò, invece, grande interesse presso il primo Jean-Paul Sartre, che riconosceva a quello che all’epoca era un nuovo medium, il merito di aver inaugurato la mobilità in estetica. Per Maurice Merleau-Ponty il cinema avrebbe potuto rinnovare la filosofia in quanto capace di mettere in questione la stessa postura teorica, analitica e riflessiva del filosofo:
La percezione analitica, che ci dà il valore assoluto degli elementi isolati, corrisponde […] a un atteggiamento tardivo ed eccezionale: è quella dello scienziato che osserva o del filosofo che riflette (Senso e non senso, il Saggiatore, 1962, p. 30).
Più complessa e per certi versi problematica la posizione di Gilles Deleuze: se, da una parte, ha riconosciuto al cinema il merito di avere rotto con il platonismo, ovvero con il concetto dell’essere in quanto perdurare e di avere aperto alla possibilità di una “filosofia-cinema”, dall’altra – e proprio nei due volumi che espressamente ha dedicato al cinema (L’immagine-movimento. Cinema 1 e L’immagine-tempo. Cinema 2) – è sembrato ribadire la prerogativa della filosofia, in quanto teoria che si serve di concetti, di assumere il cinema come oggetto fra gli altri del suo pensiero. Per il teorico del postmoderno Jean-François Lyotard, infine, l’immagine cinematografica s’inscrive dentro il sistema rappresentativo moderno ma condensa una mutazione storica del desiderare nel contesto della condizione postmoderna.
Non è possibile sintetizzare in questa sede tutti i motivi di profondo interesse che si possono cogliere nel lavoro di Carbone, che si spinge fino ad indagare gli scenari della rivoluzione digitale e le implicazioni che essa ha sui processi di soggettivazione dell’uomo contemporaneo. Ci limitiamo a sottolineare la sensibilità mediologica, oltre che filosofica, con cui l’autore descrive il carattere storico del nostro modo di percepire il mondo, a partire dalla prospettiva rinascimentale fino agli schermi digitali, e rende conto dell’epocale discontinuità del cinema. Una discontinuità dello stesso genere di quella che in un saggio del 1911 il sociologo Georg Simmel individuava nella scultura di Rodin, nella quale si rendeva visibile la sovranità del motivo del movimento su quello dell’essere: nell’opera di Rodin – osservava Simmel – “non solo l’arte rispecchia un mondo più mosso, ma lo specchio stesso è divenuto più mosso” (Il volto e il ritratto, il Mulino, 1985, p. 214). Era ormai nato il cinema, lo specchio mosso della modernità, così come della filosofia.
Oltre ottanta anni fa Walter Benjamin rievocava un’antica controversia nata insieme con la fotografia, se cioè essa potesse essere considerata una forma d’arte, per concluderne che in realtà la vera questione da porsi era piuttosto se “con la scoperta della fotografia non si fosse modificato il carattere complessivo dell’arte” (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, 1991, pp. 29-30). Ebbene, al termine della lettura del volume di Carbone si ha la sensazione che, anche in questo caso, la vera domanda sulla quale oggi ha senso interrogarsi non è tanto circa il significato filosofico del cinema, bensì su come attraverso il cinema si possa ridefinire il carattere complessivo e lo statuto epistemico stesso della filosofia.
Riferimenti bibliografici
M. Carbone, Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale, Raffaello Cortina, Milano 2016.
E.A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Laterza, Bari 1973.
M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano 1995.
G. Simmel, Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, il Mulino, Bologna 1985.