Qualunque ricostruzione, per quanto sommaria, di una storia della filosofia è in grado di mostrarci i momenti di disagio e di impaccio che questa disciplina, più di ogni altra, ha dovuto affrontare nel tentativo di darsi una qualche forma di legittimità. Il panorama attuale dimostra, di fatto, che la filosofia sembra essere costretta, per poter conservare la propria esistenza, a giustificare costantemente il suo ruolo o a delineare con sempre maggior precisione il posto che le spetta nell’economia delle cose del mondo. Le ragioni di una crisi della filosofia vengono spesso associate, in realtà, al tratto più nobile che distingue questa disciplina da ogni altra: la sua inutilità o, per dirlo in termini più adeguati, il completo disinteresse della figura del filosofo a una forma di vita produttiva. Ad attestarlo è non solo il peso risicato che la filosofia detiene nella formazione e nell’istruzione dei giovani, ma è persino il bizzarro risvolto che questa assume all’interno di luoghi specializzati, quali le facoltà di filosofia, che, invece di dedicarsi a fornire gli strumenti necessari per consentire la creazione di forme di vita dedicate allo studio, talvolta si snaturano per strutturarsi come centri di avviamento al futuro mondo lavorativo dell’azienda.
Che la filosofia non riesca a trovare il suo luogo naturale è un dato di fatto che trova, in realtà, le proprie ragioni in un elemento molto più remoto. Con la sua ultima pubblicazione, Filosofia prima filosofia ultima. Il sapere dell’Occidente fra metafisica e scienze (Einaudi, 2023), Giorgio Agamben intende precisamente mostrarci che la ragione dello statuto ambiguo della filosofia risiede nelle difficoltà che quest’ultima ha incontrato nel proporre di sé una definizione univoca. L’opera non è nulla di meno che un’archeologia sulla metafisica, senza con ciò proporsi come un tentativo di legittimare la deriva contemporanea della filosofia. L’ipotesi che la guida è, infatti, che «dalla possibilità o dall’impossibilità di una filosofia prima – o di una metafisica – dipendano le sorti di ogni pratica filosofica» (Agamben 2023, p. 3).
La mossa strategica di Agamben è duplice: da un lato, mostrare che la specificità della filosofia rispetto alle altre forme di conoscenza sembra dipendere dalla definizione della metafisica come filosofia prima e dalla sua distinzione rispetto alle altre forme di conoscenza; dall’altro, ricostruire le condizioni che hanno reso possibile una graduale trasformazione dello statuto della metafisica e il suo conseguente declino. Entrambe le mosse condurranno il nostro autore a sostenere una tesi ben precisa: la metafisica, sia nella sua origine che nella sua evoluzione, ha sempre avuto un solo destino: ridursi a filosofia seconda, nonostante lo sforzo costante di mantenere il proprio primato.
L’archeologia di Agamben inizia con Aristotele e termina con Heidegger. Sin dall’inizio, ci viene mostrato come la definizione di una filosofia prima non venga mai proposta come tale da Aristotele ma risulti sempre dipendente dalla definizione di altre due discipline, la fisica e la matematica: «La filosofia non è prima (prote), ma semplicemente anteriore (protera): essa si definisce non in assoluto, ma nel comparativo» (ivi, p. 6). La stessa movenza appartiene alla definizione dell’oggetto proprio della filosofia, che può essere specificato solo in relazione a quello delle altre due scienze: «La formula “ente in quanto ente” serve qui essenzialmente a limitare l’oggetto della fisica e della matematica» (ivi, p. 9).
L’indeterminazione di questa definizione non solo è stata l’origine di quella scissione così problematica dell’oggetto della filosofia prima, ma è stata innanzitutto la causa della sottomissione della filosofia alle scienze che essa stessa pretende di dominare: «La filosofia, volendo assicurare il suo primato sulle scienze e, insieme, assegnandole come destino all’Occidente, ha finito invece senza avvedersene con l’asservirsi a esse, e dopo essersi a lungo configurata come ancilla theologiae è ora, secondo ogni evidenza, semplicemente una impotente ancilla scientiarum» (ivi, p. 29). Anche quando assumerà nel XII secolo il termine latino di metafisica, la filosofia prima, definita ancora in modo comparativo dalla sua posterità, continuerà a essere caratterizzata «da un’intima scissione e, insieme, dall’incondizionata pretesa di sovranità sulle altre scienze» (ivi, p. 34).
È interessante notare che, prima di giungere a Kant e Heidegger, Agamben dedichi dense pagine alla trasformazione che la metafisica subisce non tanto nel corso generale della filosofia medievale, quanto, nello specifico, a partire dal XIV secolo, ovvero nel periodo in cui furono introdotti i trascendentali, quei termini generalissimi e così comuni a tutte le cose da diventare indistinguibili dall’essere stesso. Si tratta di una transizione decisiva, perché, se è vero che Kant potrà definire la metafisica come la scienza delle condizioni di possibilità della conoscenza, è precisamente in questo momento discriminante della storia della filosofia che possiamo scovare le ragioni di una tale trasformazione. L’invenzione dei trascendentali segna, infatti, «uno spostamento dell’oggetto della filosofia prima dall’esistente alla rappresentazione, dalla sfera dell’essere a quella della conoscenza» (ivi, p. 38).
Sarà, in particolare, l’introduzione della nozione di res, di cui Agamben ha già proposto un’archeologia nel precedente L’irrealizzabile (Einaudi, 2022), a operare questo passaggio. La «cosa», essendo anteriore alla distinzione tra essenza ed esistenza, non nomina altro che «la pura intenzionalità del linguaggio, cioè il fatto che ogni enunciato si riferisce a qualcosa, indipendentemente dalla sua esistenza fattuale» (ivi, p. 43). Questa tesi, che orienta il problema sul versante del linguaggio, viene sostenuta già a proposito dell’oggetto della filosofia prima aristotelica, che, ipotizza Agamben, non si rivela essere altro che un puro dicibile in quanto tale.
La trasformazione della metafisica in una scienza dei trascendentali tende a confermare la stessa dinamica che muoveva, già in origine, la nascita della filosofia prima. Il suo effetto non può che essere la secondarizzazione di una filosofia che, stavolta, ha per oggetto non più l’essere ma l’essere oggetto di una rappresentazione; una secondarizzazione che è, anche in questo caso, una mancata fissazione di confini tra la filosofia e le altre scienze, come dimostra ulteriormente il capitolo sui nomi infiniti. Agamben compie così un’archeologia nell’archeologia, dimostrando non solo che la crisi della metafisica ha i suoi presupposti già nelle definizioni medievali, ma che lo stesso trascendentale attiene, prima ancora che alla sfera metafisica, a quella logica. Si tratta di «una soglia in cui la concettualità metafisica e quella matematica sembrano toccarsi» (ivi, p. 63), come testimonia il termine res, usato nello stesso tempo dai matematici per designare le quantità incognite, quelle che giungeranno a noi come più immediate x.
In seguito alla trasformazione operata da Kant, il tentativo heideggeriano di risolvere e superare la scissione dell’oggetto del pensiero è risultato, scrive Agamben, «quanto meno dubbio» (ivi, p. 97). Tutto questo percorso ci mostra in modo chiaro che il problema non è settoriale né superficiale, perché non riguarda la semplice definizione di una disciplina qualunque né costituisce una sterile meditazione ormai obsoleta. Venire a capo dell’ambiguità che caratterizza la filosofia, tentare di garantire l’unità del sapere occidentale: è questo il compito urgente che richiede una soluzione. Non solo a livello teorico, perché in questione, qui, è la possibilità stessa di ogni pratica filosofica.
È nella sua inaggirabile erranza che la metafisica costituisce il fondamento dei saperi dell’Occidente, e a garantire l’obiettività dello scienziato è soltanto l’illusione del metafisico. Finché questo nesso segreto che unisce metafisica e scienza non sarà chiarito, la relazione fra la filosofia e le scienze continuerà a essere problematica. E di questa aporetica situazione la filosofia non potrà venire a capo che a condizione di rinunciare al suo primato per farsi ultima (ivi, p. 101).
Giorgio Agamben, Filosofia prima filosofia ultima. Il sapere dell’Occidente fra metafisica e scienze, Einaudi, Torino 2023.