Sono le 2 e 40, nella notte tra sabato e domenica, e – a sei ore dall’inizio della finale della 73esima edizione del Festival di Sanremo – è finalmente proclamato il (prevedibile) vincitore, Marco Mengoni, che per una terza volta si esibisce con la sua canzone “Due vite”. Il brano comincia, “Siamo i soli svegli in tutto l’universo”, e le parole fanno da strano contrappunto per tutti quegli spettatori che hanno resistito fin lì, davanti al televisore, via via più assonnati, ma pure consapevoli di tutte le altre persone che in tutta Italia stanno guardando la stessa cosa, partecipando allo stesso rito, commentando con gli amici rimasti, scrollando le timeline dei social, canticchiando quei pezzi che i cinque giorni di sovraesposizione hanno reso conosciuti, familiari, appiccicosi. La canzone prosegue, “Tanto lo so che tu non dormi, dormi, dormi mai”, e il testo pare sottolineare una delle caratteristiche fondanti di questa edizione, e in generale della gestione Amadeus giunta al quarto di cinque mandati, e più in generale ancora di un evento ampio, sovrabbondante, eccessivo, un po’ massacrante, che blocca un’intera nazione e i suoi discorsi pubblici e privati, e li sommerge in un grande karaoke collettivo, in un frullatore traboccante di stimoli musicali e televisivi.
Pochi minuti prima, a leggere la fatidica busta con l’annuncio del risultato erano il direttore artistico Amadeus, deejay in radio e ora rassicurante volto di Raiuno, il co-conduttore, la colonna della musica e cultura pop nazionale Gianni Morandi, e la co-conduttrice, l’influencer e imprenditrice Chiara Ferragni; e a giocarsi la vittoria, con un primo e secondo posto subito festeggiato in un abbraccio, sono stati appunto Mengoni, già vincitore di un talent come X Factor e dieci anni fa di un altro Sanremo, già protagonista di un tour negli stadi, e Lazza, rapper già in testa a tutte le classifiche discografiche dello scorso anno. L’immagine è notevole: le cinque persone sul palco rappresentano bene sia la rinnovata, ricostruita sintonia tra le componenti musicali e spettacolari del Festival, in altri periodi dispersa, sia la sua volontà di connettere tante generazioni diverse e tanti mondi sociali e mediali che restano spesso distinti, sia ancora tutta la forza e la difficoltà di una manifestazione che – se funziona, e ha funzionato – è soprattutto un piccolo schermo che si allarga e si espande a dismisura, una televisione sotto steroidi.
Certo, conta la musica, punto di forza della direzione artistica di Amadeus (anche se quest’anno forse con meno sorprese, senza quel singolo brano che convince tutti fino in fondo), e conta la varietà delle canzoni in gara, pronte in buona parte a diffondersi ovunque, a restare nella memoria, a popolare per mesi radio e locali e classifiche fino a raggiungere l’estate. E certo, come in ogni edizione da sempre e per sempre, conta il rispecchiamento parziale, il dialogo sbilenco che tutte le cose che succedono su quel palco hanno con il clima sociale, culturale e politico di un’intera nazione, le pressioni e gli sbrocchi, le commemorazioni e gli imprevisti, l’attualità e lo spirito del tempo che si insinuano più o meno diretti. Ma Sanremo, e questa edizione appena terminata in particolare, è stata anche e soprattutto una perfetta rappresentazione del sistema dei media di oggi, una splendida palestra di televisione contemporanea. Di una tv che resta solidamente al centro degli immaginari e dei consumi nazionali, e che però intanto è anche diventata il perno attorno a cui ruota tutto il resto, giornali e radio, concerti e un digitale che è partito rivoluzionario ma si è già integrato perfettamente.
Nei cinque giorni del Festival, come sempre ma con più intensità, il “classico” piccolo schermo sfrutta ogni altra forma della comunicazione digitale e da queste è almeno altrettanto sfruttato. Le piattaforme on demand, in teoria avamposti di libertà dai vincoli del palinsesto, presidiano con forza l’evento per eccellenza della programmazione lineare, con spot in cui ne riconoscono la primazia per una settimana almeno (Netflix), con richiami serializzati alla memoria di una tv fatta di annunci e annunciatrici (Paramount+), con il rimbalzo continuo di alcuni volti dal palco dello show alla pubblicità che lo interrompe (Amazon), o con ovvi giochi di squadra (Rai Play).
Allo stesso modo, un mondo dei social che sempre più spesso trova la sua forza nella dimensione del video, che sia frammento o diretta, e che in modo sfacciato insegue le estetiche e gli immaginari già a lungo testati della televisione, è vampirizzato e insieme vampirizza Sanremo: ecco allora il frequente rimando a Instagram, incarnato nel suo simbolo Ferragni e reso materiale narrativo dalle scalette delle serate quasi in forma di istruzioni per l’uso (con tanto di sospetti su un accordo commerciale celato con Meta); ma ecco anche il fiorire di dirette su Twitch (di Amazon), con le puntate speciali di podcast che in realtà sono talk show, e la miriade di spezzoni, interviste, contenuti originali, dietro le quinte, remix, classifiche e commenti di ogni tipo che hanno invaso TikTok prima, durante e dopo la manifestazione. Basti pensare, ancora, al rapporto con i numeri, con le metriche: gli streaming su Spotify, le posizioni in classifica, i valori che certificano qualche record sempre nuovo, la dissezione attenta dei dati di ascolto, lo share televisivo e gli accessi digitali, e le tante piccole furbizie contabili, con dettagli forse degni di miglior causa ma comunque sfrontati nella quantificazione della creatività e della produzione culturale tipica dello scenario contemporaneo, e cruciali nel dare forma alla narrazione di un enorme successo.
Il quarto Festival di Amadeus ha messo a punto, perfezionandolo e trasformandolo in regola, o persino in maniera, una sorta di manuale del generalismo, e di generalismo da manuale. Da una parte, offrendo qualcosa a ciascuno, senza lasciare indietro nulla: a chi è appassionato e a chi odia Sanremo, che troverà ampie ragioni per rimarcare il suo inutile distinguo; a chi lo guarda seriamente, a chi lo fa per deriderlo, e a tutte le sfumature nel mezzo, dei partecipanti a un gioco che non piace mai fino in fondo a nessuno, che non convince mai davvero completamente, e che proprio per questo può arrivare a tanti, a tutti. E dall’altra, non dimenticando mai che non basta la somma delle molte nicchie per fare il mainstream, ma che c’è qualcosa di più, un surplus di valore da sfruttare culturalmente e commercialmente, presente nella trasversalità e nella sincronizzazione di una platea digitale altrimenti spesso frammentata e sola.
Una strada è quella dell’accumulo, della serializzazione tra le serate e le edizioni, dell’horror vacui di ogni scaletta, dell’affannosa rincorsa a riempire ogni spazio disponibile. Sanremo in generale, e quello di Amadeus in particolare, è un programma che non solo gioca di sponda con l’intero sistema dei media ma prova a mangiarsi tutto il palinsesto, a occuparlo in lungo e in largo. In verticale, con lo sguardo a Sanremo, la presenza a Sanremo, il discorso dedicato a Sanremo dell’intera programmazione Rai o quasi per un’intera settimana, dalla mattina alla tarda notte di Viva Rai2 con Fiorello in versione dopofestival, dai talk mattutini e pomeridiani alle edizioni dei telegiornali, senza soluzione di continuità (e anche la tentata anti-programmazione di Mediaset è stata insieme un boomerang e l’incoronazione del nemico). E in orizzontale, con un progetto di “Sanremo tutto l’anno” (sottolineato dal potente manager Lucio Presta), consentito dall’affidamento di più edizioni a un solo conduttore e team produttivo, che riempie l’attesa, mese dopo mese, con uno stillicidio di informazioni e anteprime, e poi ancora rafforza la fase successiva allo show con ospitate, richiami e memorie istantanee.
Il Festival non finisce più, non finisce mai, nella sua “settimana santa” soprattutto, ma anche lungo tutto il calendario televisivo. Non solo: il Sanremo di Amadeus è un programma che contiene un palinsesto intero nelle sue cinque serate, che alle canzoni in gara aggiunge il varietà musicale e quello comico, l’anteprima della fiction, frammenti politici o informativi o cerimoniali, accumulando tasselli, pezzi di un puzzle che non sempre si incastrano ma che comunque ci possono e ci devono stare. Basta stringersi un po’ e c’è spazio pure per le richieste di un ministro. Bastano piccoli aggiustamenti e ogni imprevisto – rose sparse, foto strappate, baci inattesi – si assorbe in fretta, presto dimenticato. Basta tenere il ritmo e saranno abbastanza felici tutti. È stato il trionfo di una delle regole cardine della tv generalista, quella del least objectionable programming, dell’offerta che crea il minor numero di obiezioni possibili, che riduce al minimo ogni increspatura, che soddisfa un po’ tutti senza accontentare fino in fondo nessuno, e in questa medietà trova un denominatore comune.
Solo così si spiegano, e si tengono, l’invito ad arruolarsi in aeronautica con la scusa del centenario e il bacio semi-pianificato di Rosa Chemical a Fedez, poi rispecchiato da quello di Morandi con la moglie Anna (quella delle foto sul suo frequentatissimo profilo Facebook), la pagina sull’Iran e la legalizzazione delle droghe leggere auspicata dagli Articolo 31, i monologhi a se stessi e i comici che fan ridere poco, la Costituzione e le canzoni che con il video e due rose assumono un significato completamente nuovo. Solo così si spiega il brano vincitore, insieme quintessenza della tradizione melodica del Festival ma pure “ci siamo fottuti ancora una notte fuori un locale”. Nel bene e nel male, è in questo che Amadeus, deejay nelle ossa, trova davvero la sua dimensione, la radice della sua efficacia: nei passaggi di tono continui, e sempre impeccabili, e nel ritmo da imporre a ogni costo (anche a scapito dei gustosi racconti di Gino Paoli e Ornella Vanoni), nella corsa contro il tempo di chi è consapevole di aver apparecchiato una tavola troppo imbandita; nelle scelte musicali che coprono tutto l’arco radiofonico-parlamentare, e nella serata di cover progettata apposta per includere il poco che mancava; nell’abilità di neutralizzare ogni cosa mediante il lavoro sulle scalette, la molteplicità di opposti e il loro accostamento, per esempio facendo seguire il dovuto ricordo delle foibe al duetto-incidente tra Arisa e Gianluca Grignani. E, di fatto, nella sostanziale indifferenza di chi conduce al singolo contenuto, dato che a Sanremo – e in tutta la televisione, piattaforme incluse – quello che conta è spesso solamente la confezione.
Dopo tre edizioni che sono state tutte, a loro modo, una prima volta (perché la prima davvero, con Bugo e Morgan; perché nel pieno di un lockdown; perché inserita in una lenta ripresa), il quarto Festival di Amadeus è quello che davvero finisce per ripetere la formula senza troppe variazioni, senza sorprese particolari, con pochi innesti significativi. Ogni tanto noioso, spesso sbruffone, talvolta sbracato, è stato un Sanremo imperfetto, solido ma prevedibile, pronto ad andare sul sicuro e quindi un po’ pigro. Ma è probabilmente inutile e ozioso cercare la perfezione nello show principale della tv italiana (a volte è successo, certo, ma serve che si allineino gli astri). Quest’anno c’è stata tanta medietà, qualche picco tra le canzoni, gli ospiti e i momenti, e un certo numero di sprofondi. Con la stessa incompiutezza di quel flusso della programmazione televisiva che Sanremo occupa e attraversa, e con la stessa imprecisione delle nostre vite quotidiane che – almeno per una settimana – si lasciano attraversare da quel flusso.