Se si dovesse provare a dare una definizione di Fernand Deligny (1913-1966), il quale non amava affatto, per la verità, essere definito e definirsi, la più efficace sarebbe quella di inventore. Per quale motivo? Nel corso della sua esperienza pedagogica Deligny è stato in grado di inventare, ovvero di trovare, di volta in volta, una modalità innovativa per entrare in contatto con i ragazzi di cui si occupava, fossero essi affetti da forme più o meno gravi di disabilità o piccoli delinquenti di una società che li costringeva ai margini. Nel nostro Paese il lavoro di ricerca compiuto da Deligny resta ancora, in larga parte, poco conosciuto. Il suo nome è legato alla pedagogia sperimentale, a quella cooperativa di Célestine Freinet e di Anton Semenovyč Makarenko, ad esempio. La sua attività è sicuramente inscrivibile nella cosiddetta pedagogia attiva che trova in John Dewey uno dei maggiori e influenti esponenti. Deleuze e Guattari conoscono il lavoro di Deligny e lo citano nei loro testi. Il noto concetto di “rizoma”, elaborato dai due filosofi, risente dei lavori di mappatura che il pedagogista ha compiuto sui movimenti dei ragazzini autistici. La scena in cui Antoine Doinel corre verso il mare, nel finale de I 400 colpi (1959), è scaturita da un lungo confronto che Truffaut ha avuto con Deligny, al quale chiede aiuto anche per la caratterizzazione di Victor, il “ragazzo selvaggio”.
Deligny si è avvicinato alla pratica educativa da ragazzo, subito dopo gli studi. Appassionato di filosofia e di cinema, il giovane Deligny diventa maestro in una scuola elementare. Negli anni successivi (1939-1943) entra in contatto, lavorando nell’ospedale psichiatrico di Armentières, con l’infanzia “difficile”. È in questa dimensione fortemente istituzionalizzata che Deligny matura un’insofferenza per la “norma” che lo accompagna per tutta la sua esistenza. Come avrà modo di affermare a più riprese, non intende “educare” o “curare” questi ragazzi; ai suoi occhi, nel contesto in cui si trova a operare, queste parole assumono il significato di “addomesticamento”, di “dominio”. In questi primi anni di esperienza ospedaliera Deligny inventa delle modalità educative extra-istituzionali per i giovani degenti, organizzando uscite, giochi, atelier teatrali e di pittura, coinvolgendo in queste attività i guardiani, gli artigiani del paese, operai disoccupati. Da questa esperienza nasce Pavillon 3, pubblicato nel 1944. Deligny è uno scrittore estremante prolifico, redige saggi, si avventura nel testo poetico, scrive romanzi, documenta senza sosta la sua esperienza con l’adolescenza confinata ai bordi della società, à part.
Alla fine degli anni ’40 conosce lo psicologo Henri Wallon. È un momento fondamentale per la formazione di Deligny. Wallon riconosce, infatti, una centralità all’ambiente nello sviluppo dell’individuo e l’intima connessione tra corpo, movimento, sensi ed emozioni. Grazie a questo incontro, Deligny fortifica la sua visione educativa: è necessario considerare il bambino come un complesso di potenzialità, cui bisogna offrire le occasioni per rivelarsi. Wallon ama, in questo senso, far riferimento all’espressione “l’occasione fa l’uomo ladro”. È proprio questo aspetto a rivelare la straordinarietà di Deligny, l’importanza della sua attività educativa allora, ma anche per noi oggi. La sua capacità inventiva è tutta qui, nell’abilità di ricreare gli ambienti più consoni per permettere ai ragazzi di esprimere competenze, modi di esistere fino a quel momento celati. Non si agisce direttamente sul ragazzo, ma si tenta di «moltiplicare intorno a lui le occasioni» (Deligny 1949, p. 508).
Nel 1948 Deligny dà avvio all’esperimento, che avrà vita fino agli anni ’60, de La Grande Cordata. Si tratta di una rete di luoghi atta ad accogliere l’infanzia marginalizzata. Qui confluiscono, nel corso del tempo, centinaia di ragazzi affidati da ospedali, da famiglie incapaci di prendersene cura o dai servizi sociali. Al centro di questa esperienza vi sono anche il cinema e la macchina da presa, intesi come preziosissime occasioni per gli adolescenti de La Grande Cordata. In un testo del 1955 Deligny definisce la cinepresa un vero e proprio «strumento pedagogico». L’idea è quella di girare un documentario, realizzato direttamente dai ragazzi, una grande opera collettiva. Affidare la macchina da presa a un gruppo di adolescenti caratteriali, psicotici e “sbandati” appare, a quel tempo, decisamente bizzarro. Per Deligny non è così, non vi è nulla di stravagante in questo; il mondo sta cambiando, invaso da un proliferare di immagini, veicolate dalle moderne tecniche di diffusione. Questo Deligny lo coglie con straordinaria lucidità.
Questi ragazzi che spesso, come racconta il pedagogista, fanno fatica a esprimersi a parole, che poco o per niente utilizzano la scrittura, possono imparare la grammatica di questo nuovo linguaggio composto di immagini. E non è un caso che i ragazzi de La Grande Cordata imparino con una certa facilità a rapportarsi alla cinepresa. Il cinema, l’immagine, la fotografia, il disegno sono linguaggi, anch’essi specificamente umani, come Deligny ricorda instancabilmente nei suoi scritti. Sono modi alternativi, rispetto alla parola, di dare forma alla nostra esperienza. Quale avrebbe dovuto essere il soggetto di questo film che, purtroppo, per cause economiche, non è mai stato realizzato e di cui sono conservati solo alcuni fotogrammi? La vita di questi ragazzi, lo scorrere della loro quotidianità, la trasformazione delle loro esistenze, lo sbocciare di qualche progetto per un futuro finalmente ritenuto possibile, desiderabile. Il cinema è in grado di fornire loro una ragion d’essere, dopo essersi sentiti per lungo tempo superflui.
Sempre degli anni ’50 è un’altra invenzione di Deligny, MOTIMA, un gioco per imparare a leggere e scrivere, composto da una sessantina di carte attraverso le quali associare soggetto, verbo e complemento. MOTIMA sfrutta l’accostamento di parola e immagine per sollecitare il bambino ad apprendere e può essere considerato alla stregua degli strumenti di comunicazione alternativa e aumentativa usati oggi con una certa frequenza per stimolare bambini con difficoltà nella letto-scrittura.
Dopo l’esperienza La Grande Cordata, Deligny vive un incontro che inaugura una nuova fase. Gli viene affidato Janmari, un ragazzo autistico di 12 anni, nel quale la parola è assente, la gestualità è spesso stereotipata. Questo contatto stretto con l’autismo, l’assenza della comunicazione verbale, portano Deligny ad allontanarsi ancora di più dalla terapia istituzionalizzata e a continuare l’esplorazione di forme non-verbali. Janmari è per Deligny un maître à penser che lo spinge a ripensare l’umano al di là del linguaggio. Dal 1967 Deligny si stabilisce a Monoblet, tra le alture delle Cevennes, catena montuosa della Francia meridionale, dove costruisce intorno a Janmari e ad altri bambini autistici una piccola comunità che conta la presenza di qualche operatore (educatori e non) che Deligny preferisce chiamare presences proches, presenze vicine. In questi sconfinati spazi montuosi, in un dialogo costante con la natura, prende forma un modo di vivere insieme che si costruisce totalmente in funzione dei bambini.
Deligny coordina un «gruppo di ricerca sull’ambiente prossimo». È necessario lavorare sull’ambiente per aprire una via comunicativa con l’autismo. Questo tentativo viene raccontato in un film-documentario, Ce gamin, là, girato insieme al giovane regista Renaud Victor, che esce nel 1976. Dispositivi fondamentali di questa comunità sono le cartografie che Deligny e gli altri operatori creano quotidianamente, registrando i movimenti che i ragazzini compiono durante la giornata, il loro modo di esplorare lo spazio. Vengono segnalati anche quei momenti in cui qualcosa attira, improvvisamente, la loro attenzione. L’ambiente viene reso operativo, qua e là sono disseminati oggetti, strumenti grazie ai quali possano svilupparsi i gesti ripetitivi degli autistici, compiuti pour rien, ma comunque in grado di stimolare una relazione senso-motoria con il mondo. Viene messo in pratica un linguaggio primario, composto di gesti e movimenti, di routine operative che dà voce a quel desiderio di consuetudinario che connota l’autismo. In questa dimensione Janmari comincia, con il tempo, a compiere delle azioni: trasporta l’acqua dal fiume alle case, collabora nella produzione del pane. Come sottolinea Deligny, questo ragazzo, che era stato definito «intrattabile, insopportabile e incurabile» dal sistema psichiatrico istituzionale, comincia a prendere delle «iniziative, affascinato e attirato dalle cose da fare» (Deligny 2017, p. 100).
Ho provato soltanto a considerare alcune delle molteplici implicazioni che il lavoro compiuto da Deligny offre a noi contemporanei. I suoi scritti, i suoi film, le sue riflessioni meritano di essere riscoperti e ulteriormente approfonditi. Quello che è certo è che il suo approccio rappresenta una sfida per la contemporaneità, per ripensare quali potrebbero essere le occasioni in grado di far emergere le potenzialità, a volte inespresse, dei ragazzi oggi, all’interno dei nostri ambienti mediali. La pratica educativa, la scuola, devono considerare quali sono i linguaggi, diffusi dalle nuove tecnologie digitali, con cui gli adolescenti si interfacciano quotidianamente. La pandemia attuale non ha fatto altro che rendere questa necessità ancora più urgente e la discussione su questo tema deve continuare a trovare spazio, anche quando la DAD non sarà più necessaria.
Riferimenti bibliografici
F. Deligny, 1 maison pour 80 ou 80 maisons pour 1?, in Enfance, vol. 2, n. 5, 1949.
Id., Œuvres, L’Arachnéen, Paris 2007.
Id., Il gesto e l’ambiente, a cura di E. Binda, Pellegrini, Cosenza 2017.