La nuova edizione della Fenomenologia dell’esperienza estetica ci riconsegna il lavoro più importante del filosofo francese Mikel Dufrenne, finalmente nella sua integrità. Quest’opera in due volumi risale al 1953 ed è frutto dello studio dottorale sviluppato insieme a La personnalité de base, orientata verso temi più sociologici. In Italia era stato tradotto all’inizio degli anni settanta solamente il primo tomo dedicato all’oggetto estetico, mentre il secondo, che tratta i diversi momenti della percezione dell’opera d’arte, era rimasto finora in lingua originale.
Al di là dell’importanza di restituire al testo la sua forma originaria, questa traduzione diventa fondamentale per ricostruire il quadro completo della teoria estetica di Dufrenne che si può cogliere solamente nel rapporto dialogico tra le due parti: i capitoli che chiariscono la natura dell’oggetto estetico, benché godano di ampie sezioni che possono essere studiate in modo autonomo, devono essere necessariamente ricomprese alla luce del secondo volume. Da una parte l’analisi dell’esperienza percettiva non può infatti prescindere dalla circoscrizione dell’oggetto d’indagine (aspetto che Dufrenne ha difeso strenuamente nella sua dissertazione di tesi, il cui résumé è riportato nella “Revue de métaphysique et de morale” dello stesso anno). Dall’altra l’opera d’arte acquista il proprio statuto solamente attraverso lo sguardo del fruitore, chiamato a compiere una vera e propria vivificazione della “cosa”. L’esperienza estetica restituisce all’opera la sua essenza, tramutandola in oggetto estetico. In questa prospettiva, il pubblico diventa parte integrante del processo artistico, tanto che l’autore arriva a definire lo spettatore testimone ed esecutore.
La rielaborazione del concetto di oggetto estetico deriva dai riferimenti alla prima estetica fenomenologica, principalmente dagli studi sviluppati da Waldemar Conrad e Roman Ingarden. A differenza di questi ultimi, che si rifacevano in modo più rigoroso al pensiero husserliano, Dufrenne affonda le proprie radici teoriche nella filosofia francese contemporanea, all’interno della quale vi è certamente la forte influenza della fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty, Jean-Paul Sartre e Paul Ricœur, ma anche di figure provenienti dalla tradizione estetica coeva, come Raymond Bayer, Étienne Souriau e Gaston Bachelard. Senza dubbio il debito con Merleau-Ponty è il più cospicuo. Entrambi i volumi non possono prescindere dal ruolo di primo piano che assume la corporeità. Il Leib, il corpo vivo descritto nella Fenomenologia della percezione (1945), è il vero protagonista dell’esperienza: bisogna infatti collocare l’indagine intorno all’opera d’arte su un piano eminentemente sensibile in cui il corpo è in grado di restituire la complessità dell’oggetto estetico. L’arte richiede dunque in prima istanza un dialogo corporeo, che permette di intuire un’analogia tra chi guarda e ciò che è osservato. Il filosofo definisce infatti l’artefatto come un quasi-soggetto, una nozione che riesce a configurare l’intricata essenza racchiusa all’interno di questa specifica oggettualità: di fronte a un’opera ci si trova alle prese con l’accesso ad un’altra soggettività – quella dell’artista – che manifesta la propria peculiare visione percettiva del mondo. La dimensione espressiva dell’opera era già stata tematizzata da Merleau-Ponty in alcuni dei suoi saggi, di cui Dufrenne raccoglie l’eredità e di cui si serve per sviluppare il discorso intorno all’esperienza estetica in modo autonomo.
La parte più rilevante è infatti contenuta nella seconda sezione del libro: i tre momenti della percezione descritti dall’autore inaugurano una visione che concilia un’estetica come condizione di possibilità della conoscenza (sul modello kantiano) con gli aspetti più sensuali e affettivi dell’esperienza. La prima fase, la presenza, rappresenta lo strato necessario, ma anche il più oscuro: questo concetto indica la dimensione preriflessiva in cui non è ancora possibile individuare una coscienza operativa, necessaria a dare forma al materiale sensibile. È solo attraversando la seconda fase che si giunge a mettere a fuoco l’oggetto estetico. Qui la facoltà in gioco è l’immaginazione, intesa secondo la lezione di Kant (mediata però dalla lettura dell’Heidegger di Kant e il problema della metafisica, 1929), come ciò che dà luogo a una rappresentazione del mondo. Viene invece esclusa l’immaginazione empirica nel suo potere associativo e produttivo, poiché porterebbe il fruitore lontano dall’oggetto a cui si trova di fronte.
Il ruolo dell’immaginazione meriterebbe però un discorso a parte. La riflessione sulle sue capacità e sui suoi pericoli rimane una costante del pensiero del filosofo, che inizia qui, nella Fenomenologia, ma lo impegnerà per tutta la sua carriera. Il confronto (e il dissidio) su questo tema è primariamente con Sartre. Nei suoi testi, Dufrenne si preoccupa costantemente di scongiurare un’immaginazione di stampo cartesiano come inganno dei sensi – “la matta di casa”, come amava definirla il suo maestro Alain (Sistema delle arti, 1947). Se Sartre distingueva nettamente il dominio della percezione da quello dell’immaginazione, qualificandoli rispettivamente come ciò che appartiene al reale e all’irreale (L’imagination,1936; L’imaginaire,1940), Dufrenne, al contrario, concepisce l’immaginazione come la stretta alleata del lavoro percettivo. Ciò che viene immaginato mantiene un legame tanto forte con il mondo sensibile da conservare su di sé un coefficiente di realtà. È chiaro quanto questo punto sia determinante per lo studio dell’esperienza estetica: l’oggetto estetico non è infatti qualcosa di puramente ideale o irreale, ma ciò che si costituisce all’interno della relazione percettiva.
La terza fase che conclude l’analisi è dedicata al sentimento, momento che insieme alla riflessione conferisce all’opera d’arte la sua pienezza. Quest’ultimo passaggio non serve però a sistematizzare il percorso sensibile compiuto, piuttosto mette in evidenza l’impossibilità di una simile operazione: il sentimento permette al fruitore di rilevare le qualità affettive dell’oggetto e, come sottolinea Elio Franzini nella prefazione al volume, è parte della percezione stessa. Su questa linea, i capitoli conclusivi danno forma a una teoria degli a priori materiali (che troverà poco dopo un ampio sviluppo ne La notion d’a priori, 1959, e nel successivo L’inventaire des a priori ,1981). Tracciare una struttura trascendentale dell’esperienza affettiva significa però mantenere costantemente il contatto con il piano sensibile: l’arte deve allora insegnare all’essere umano a vedere tra le pieghe del reale per conoscerlo in quanto essere espressivo.
Nel suo complesso questo lavoro si colloca nel panorama di un’estetica in via di ridefinizione. Come aveva annunciato Dino Formaggio, amico e collega di Dufrenne (nel volume curato insieme, Trattato di estetica, 1980), l’estetica attraversava nel corso del Novecento un momento di crisi, in cui era chiamata a rinnovare schemi e categorie di fronte ai prodotti artistici della contemporaneità. Mi piace allora pensare a quest’opera, così come all’intera produzione di questo pensatore, come al tentativo di dare voce a questo bisogno. La Fenomenologia dell’esperienza estetica, pur recuperando in modo esplicito alcuni elementi di una delle tradizioni filosofiche più importanti dello scorso secolo, è in grado di aprire una propria via di ricerca. Il nucleo teorico che qui viene delineato, il pensiero intorno all’oggetto estetico e alla sua essenza percettiva, rientrerà solo in modo sporadico nella produzione successiva dell’autore, ma determinerà comunque la dimensione fondativa della filosofia dufrenniana, senza cui quest’ultima non può essere compresa fino in fondo. Mi riferisco agli scritti più tardi, come Art et Politique (1974), in cui la riflessione sull’arte è contaminata del contesto ideologico del Sessantotto, ma anche a Il senso del poetico (1963/1973) o a L’occhio e l’orecchio (1987) in cui emerge tutto il portato multisensoriale dell’esperienza sensibile. In conclusione, quest’opera rappresenta uno dei risultati più importanti dell’estetica fenomenologica, forse paradossalmente l’ultimo e il più autentico. L’ampio respiro con cui vengono discussi i concetti estetici e l’orizzonte teorico in cui si inquadrano, le traiettorie attraverso cui Dufrenne sviluppa la propria argomentazione danno vita a un testo che testimonia certamente una precisa tradizione culturale, ma che tuttavia ha la forza teorica per essere ancora oggi un valido strumento di riflessione nel dibattito estetico contemporaneo.
Mikel Dufrenne, Fenomenologia dell’esperienza estetica, Aesthetica, Palermo 2024.