«Ormai, per saturazione, non vado più al cinema (se non per vedere i film di Fellini)». Così nel 1987, di sfuggita e parlando d’altro, Leonardo Sciascia liquidava il proprio rapporto col cinema, di ex fanatico, per il quale negli anni dell’adolescenza «il cinema era tutto. Tutto». E insieme ribadiva la centralità, ormai solitaria, di Fellini come referente artistico, per una generazione di intellettuali. Non era rimasto che lui, e il cinema si avviava a contare sempre meno. Può sbalordire, oggi, vedere i nomi e il numero di reazioni ai film anche tardi di Fellini, spesso trattati come luogo di discussione politica, oggi che nel centenario della nascita il regista è morbidamente allontanato tra le nebbie della poesia sovratemporale, del glamour, del sogno.
Il luogo massimo dell’equivoco è forse Amarcord, uno dei suoi film più celebri e fraintesi. Fin dal titolo, che diventò un orribile sostantivo, fortunatamente poi in disuso, a definire l’indulgere nostalgico (“abbiamo fatto un amarcord”), in quello stesso anno in cui, da noi, cominciò a venir brevemente usato, in un senso simile, il termine “graffiti” (da American Graffiti, uscito qualche mese prima del film di Fellini). Molte recensioni dell’epoca vedono nel film l’elegia, un sentimento dolceamaro e gentile, il passare delle stagioni aperto e chiuso dalle manine di primavera: «Affabile e simpatico» (Leo Pestelli, sulla “Stampa”), «qualcosa di delicato e di modesto» (Ugo Casiraghi sull’“Unità”), ma anche in anni più recenti «uno dei film più felici e ariosi della storia del cinema» (Gianni Celati).
A questo si sovrappone l’equivoco più generale dell’autobiografismo, come se davvero l’amarcord fosse una versione conciliata dei fantasmi di 8 ½. Fellini lo temeva:
Quel che bisognava accuratamente evitare era una lettura in chiave autobiografica del film. “Amarcord”: una paroletta bizzarra, una capriola fonetica, un suono cabalistico, la marca di un aperitivo, perché no? Qualunque cosa tranne l’irritante associazione al “je me souviens”.
Infatti, a rigore, Fellini nel film non c’è. Non solo e non tanto perché la famiglia del protagonista non è la sua, bensì quella dell’amico Titta Benzi, ma soprattutto perché a quel punto il regista è già approdato, dall’evocazione di visioni e ricordi individuali alla quasi completa oggettivazione del mondo passato. Se in 8 1/2 e Giulietta degli spiriti c’è un punto di vista in fondo saldo pur nella sua apparente passività e confusione, un mediatore tra un mondo caotico e lo spettatore, man mano che i contenuti si fanno più intimi e profondi il regista elimina questa figura di tramite. Se negli anni ‘60 le scene «piene» hanno sempre al centro un osservatore-protagonista smarrito (l’arrivo degli ospiti nella casa di Giulietta, Toby Dammit circondato di ospiti), nei ‘70 queste immagini si sviluppano prive di un osservatore interno. Da un punto di vista strutturale, Amarcord andrebbe letto insieme, più che ai Vitelloni o anche a 8 1/2, alle esplorazioni ormai completamente archeologiche, archetipiche, del Satyricon o del venturo Casanova.
Il primo a percepire rabdomanticamente qualcosa, prima addirittura che il film esca, è Pier Paolo Pasolini. Recensendo il libro-sceneggiatura firmato da Fellini e Tonino Guerra, teme un revival neorealista e tardo-zavattiniano e azzarda: «Se io fossi un produttore non farei fare a nessuno un film da questo racconto» (per lo stesso motivo lo sceneggiatore Bernardino Zapponi sceglie di non collaborare al film, paventando un ennesimo ritorno a Rimini, e se ne pentirà ironicamente anni dopo). Il sentimento primario di Fellini, dice Pasolini, è «l’enigmaticità di un mondo fondato sul nulla», ma la sua educazione sentimentale piccolo-borghese «implica prima di tutto la paura dei sentimenti e ancor più della loro esprimibilità».
A correggere e mistificare il sentimento giunge allora, nel copione-racconto di Amarcord, il riso: «Ma si tratta di un riso stridulo, che spesso ha stecche infernali. Un riso nervoso, quello che hanno le puttane quando si parla di cose sporche, o un masochista quando si parla di fruste». Cosa farà, Fellini regista, con questo materiale, con questa elegia neorealista stemperata da un riso stridulo? La porterà, predice Pasolini, alle estreme conseguenze:
Non avrà la minima esitazione ad essere estremista nel realizzare tutti quei suoi piccoli personaggi da poesia dialettale di farmacista di paese, in volgari, atroci, ripugnanti mostri, veri e propri monconi umani, privi del bene dell’intelletto. La totale mancanza di umanità — completamente atrofizzata — riporterà la materia imbellettata del racconto alla sua originaria tragicità.
Sempre Pasolini, una volta visto il film, scriverà su “Playboy” un pezzo lungo, aggrovigliato, in cui sembra che la visione del film lo abbia definitivamente messo in subbuglio anziché fare chiarezza: e nota anzitutto l’immobilità trasmessa dal film, la non-evoluzione dei personaggi, la sorprendente immobilità della macchina da presa, la poesia presente sempre e unicamente nei corpi, «sacchi goffi e gonfi di innocenza e di colpa, di sventatezza e di ossessione…». Fellini stesso, in effetti, riterrà di aver fatto qualcosa di simile:
Conservo l’impressione che nel microcosmo ritratto in “Amarcord” c’era anche qualcosa di vagamente repellente, mi sembrava che circolasse tre le sue pieghe un’aria leggermente fetida, un calore esilarante impercettibilmente manicomiale e che dovrebbe restituirci un turbamento atto a farci riflettere, un senso di imbarazzo.
Ma non solo Pasolini e Fellini sono a disagio immaginando, girando o guardando Amarcord. C’è una classe di spettatori per i quali il film è, da subito, qualcosa di particolare. Una classe da intendere anche nel senso anagrafico. I cresciuti sotto il fascismo; la “classe di burro”, come la definisce uno dei suoi componenti, Oreste Del Buono (nato tre anni dopo Fellini e suo fedele esegeta nei decenni). «Ci posero il dilemma: burro o cannoni, e insomma, scegliemmo». Per loro, Amarcord ha il valore di una seduta di autoanalisi, insieme individuale e storica. Un’epifania, un trauma, che si intreccia alle loro biografie di cinquantenni smarriti nel dopo-‘68. A cominciare dallo stesso Del Buono, che vi vede «un film civile che nessun altro autore del nostro cinema aveva tentato prima».
Natalia Ginzburg, quattro anni più grande di Fellini, esce dal film come da una rivelazione: «Mai mi era capitato di vedere evocati gli anni della mia giovinezza, e il fascismo, con tanta verità e tanto orrore. Di colpo mi sono ricordata che quell’epoca era per me orribile. Lo sapevo, ma d’un tratto l’ho ricordato con gli occhi». Arbasino, un po’ più giovane, insisterà anche lui sul carattere anti-nostalgico del film.
Ma il caso più eclatante è quello di Italo Calvino, che, richiesto di scrivere una prefazione alle sceneggiature di Fellini per Einaudi, consegna l’Autobiografia di uno spettatore. Un saggio che è in realtà un racconto del proprio passato remoto di amante del cinema, inteso come quello hollywoodiano degli anni ’30, come piacere dell’evasione e della distanza, che viene interrotto quando il cinema diventa adulto, simile alle nostre vite, vicino. Calvino all’epoca dell’Autobiografia vive in Francia, frequenta l’”OuLiPo” e “Tel Quel”, è affascinato da arti combinatorie e allegorie e si accinge a creare un doppio che, fin dal titolo, disperatamente vorrebbe essere puro sguardo, Palomar. Ma Amarcord gli rivela l’impossibilità della distanza, con una prossimità, anzi una promiscuità oscena a cui lo scrittore si arrende. Il parigino, il loico e disincarnato Calvino viene inchiodato dal film al proprio essere italiano; scopre che dentro di lui giaceva in sonno, pronto a essere evocato diabolicamente, un fascista in calzoni corti, un palpatore di Gradische.
Per questo Fellini riesce a disturbare fino in fondo: perché ci obbliga ad ammettere che ciò che più vorremmo allontanare ci è intrinsecamente vicino. Come nell’analisi della nevrosi, passato e presente mescolano le loro prospettive; come nello scatenarsi dell’attacco isterico si esteriorizzano in spettacolo. Fellini fa del cinema la sintomatologia dell’isterismo italiano, quel particolare isterismo familiare che prima di lui veniva rappresentato come un fenomeno soprattutto meridionale.
Entrato a contatto con Fellini, nelle frasi finali lo stile di Calvino si fa diversissimo dalla limpidezza abituale, diventa quasi barocco, allucinato:
Il cinema della distanza che aveva nutrito la nostra giovinezza è capovolto definitivamente nel cinema della vicinanza assoluta. Nei tempi stretti delle nostre vite tutto resta lì, angosciosamente presente; le prime immagini dell’eros e le premonizioni della morte ci raggiungono in ogni sogno; la fine del mondo è cominciata con noi e non accenna a finire; il film di cui ci illudevamo di essere solo spettatori è la storia della nostra vita.
Riferimenti bibliografici
I. Calvino, Opere. Romanzi e racconti, III, Racconti sparsi e altri scritti d’invenzione, Mondadori, Milano 2004.
O. Del Buono, Il comune spettatore, Garzanti, Milano 1979.
F. Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino 1980.
E. Giacovelli, a cura di, Tutto Fellini, Gremese, Roma 2019.
N. Ginzburg, Vita immaginaria, Mondadori, Milano 1974.
P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte. Vol. II, Mondadori, Milano 1999.
L. Sciascia, Quel falso mito di un poveruomo chiamato Giuliano,“Corriere della sera”, 27 ottobre 1987.
B. Zapponi, Il mio Fellini, Marsilio, Venezia 1995.
Federico Fellini, Rimini 1920 — Roma 1993.