E intanto passa ‘stu Noveciento
passammo nuje, s’acconcia ‘o tiempo
Pino Daniele, Lazzari Felici
Contadini che lavorano, vivono e dormono ammassati nella tenuta l’Inviolata della marchesa De Luca, si fanno le serenate con la zampogna, e si prendono il tempo – dettato loro dal corso del sole e dalle necessità immanenti – di prendersi in giro, di chiacchierare, di ridere, dimentichi nel vino di debiti accumulati, seppur provati da fame e fatica. Tra loro c’è Lazzaro, che di tutti si fida, con tutti è disponibile, servizievole, obbediente e buono assoluto. Non uno che s’immagini che si può andare a scuola, che la mezzadria è in realtà finita da un pezzo, che esistono i telefoni cellulari e l’industrializzazione avanzata…
Lazzaro felice di Alice Rohrwacher, trova, dopo i precedenti Corpo celeste (2011) e Le meraviglie (2014), ulteriore e più articolata declinazione di una certa idea di credenza.
Che il mondo moderno fosse poco credibile, scarsamente degno di fiducia, per quanto forse reale, ma in definitiva sempre più simile a un brutto cinema, lo scriveva già Deleuze (1989). E a questo “brutto cinema” che è il mondo, si può al massimo accordare il proprio perenne sospetto, tanto è astratto, artificioso baraccone da non consentire l’insorgenza di «ragioni per credere nel mondo» (ivi, p. 192), né una genuina aderenza, né lingua o racconto capaci di ordinarlo. Eppure Lazzaro ha una sua lingua, sue ragioni, sua credenza, possibili anche di fronte a un’assoluta e indistricabile mistificazione. Il protagonista, un po’ Myškin de L’Idiota per la totale assenza di malizia, un po’ gran lavoratore ingenuo e sognante come il Lenny Small di Uomini e topi, ha dalla sua una sorta di infanzia perpetua, aliena al sospetto, fiduciosa che tutto quanto gli si dice sia vero, senza scarti rispetto alla realtà. Si mostra sollecito a ogni richiesta e bisogno altrui, anche nei raggiri che non sa interpretare, ai quali si presta ingenuamente (come inscenare il rapimento di Tancredi, figlio della padrona).
È in tutto una figura della fiducia, scevra di astrazioni, schemi, che vede le cose sempre quali appaiono. Ma Lazzaro come i gigli dei campi e gli uccelli del cielo sta al mondo quando il mondo è diventato un brutto, deludente, artificioso cinema che ogni fiducia ha tradito, dove le forme della vita sociale si sono fatte del tutto astratte e inafferrabili. Un “grande inganno”, insomma, come mantenere i braccianti all’oscuro del corso della storia, ma inganno è anche la promessa simulacrale, cui si aderisce con fiducia, dandole credito, di una condizione sociale migliore, agiata, non da subalterni.
Catapultati, in termini pasoliniani, dall’antica preistoria alla nuova preistoria del capitalismo nella sua fase avanzata (da un medioevo a un altro, parafrasando le parole della regista), i contadini dell’Inviolata passerebbero, passato il Novecento con la catastrofe antropologica e culturale, dalla condizione di sfruttamento padronale a quella dell’emarginazione. L’una e l’altra sono falsi cinema. Dire però questo reale artificio veramente, è riaccostarsi alla credenza in altri possibili, dire possibili altri modi per accostare il reale proprio laddove fa problema, o difetto di credenza.
Ha rilevato Daniele Dottorini (2018) che, accanto alla definizione “cinema del reale”, indicante qualcosa che suona come un’appartenenza, quella di “cinema per il reale” sembra invece contenere l’idea di una tensione, un “andare verso”. Anche nel cinema della Rohrwacher risuonano quelle accezioni di appartenenza e di movimento, ma come ramificate, a porre l’accento su altre possibili declinazioni del rapporto cinema-reale. C’è un lavoro a partire da e con un reale (se fornisce suggestioni, materiali, materie: gli attori non professionisti eccetto Rohrwacher, Braschi, Balasso); un lavoro sul reale (come a interrogarlo, a intervenirvi creativamente, scriverlo col cinema e farne rielaborazione estetica); e nel reale (se standovi addentro col mezzo cinema a inciderlo, ne viene incisa e intrisa la lingua del cinema stesso, il corso del film ne è modulato) e in questo legame fiduciario col mondo e nel mondo, il cinema ha sue ragioni di credito, parte del mondo a propria volta.
Di questa «lingua scritta della realtà» – di cui parla Pasolini – si può fare allora reinvenzione fantasiosa, visionaria, anche, riprendendo magari certi moduli della fiaba ma calati nella contemporaneità, dire fiabe immaginabili e degne di credito come strumenti possibili per dire il mondo laddove ogni credenza nel mondo è frustrata. È accostare le cose dicendo “c’era una volta”, come dichiara la regista in un libro di interviste sui metodi all’opera nel cinema del reale italiano. Cinema come invenzione di un mondo dove la credenza sia possibile, e che quanto si vede e si dice, davvero esiste. «Immaginare un mondo è fondare un mondo, sarà poi lo spettatore a decidere qual è la relazione tra questo mondo e il suo» (Zonta 2017, p. 189).
Le scene iniziali in notturna, con una teoria di lampadine ruotate per l’accensione o lo spegnimento nella casa colonica, vedono proprio un gesto fondativo. Un voler fare luce, con discrezione, iniziando a dire “c’era una volta” senza turbare il mistero connaturato allo sguardo ingenuo capace di accordare fiducia e stupore alle cose, e calandovi il cinema, che le immagina e le dice.
Della realtà che ha sua lingua scritta nel cinema, è parte integrante allora il gesto di immaginare e fondare mondi dove la credenza sia possibile. In quella realtà allora si può ritrovare il dialogo con una tradizione culturale nazionale precedente (Zavattini in testa, e Olmi, Buzzati, Calvino, Rodari, Capuana), facendo progredire una genealogia ma appunto fondando un nuovo mondo in questo tempo. Al cui tradimento di fiducia, al cui distruggere la credenza, si oppone un generare mondi dove sia possibile dire che qualcosa davvero una volta c’era e potrà essere. Come in una fiaba italiana, ancora raccontabile se ancora si possono immaginare e credere la luna e i lupi, anche in palazzopoli livide e trafficate veramente incredibili. Gesto politico e possibile, che si vuol credere destinato a durare, anche oltre i titoli di coda.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1988.
D. Dottorini, La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo, Mimesis, Udine 2018.
D. Zonta, L’invenzione del reale. Conversazioni su un altro cinema, Contrasto, Roma 2017.