Ismaël (Mathieu Amalric) è un regista alle prese con la scrittura e le riprese del suo nuovo film. Si tratta di un film di spionaggio, dove Ivan Dedalus (Louis Garrel) – un giovane e misterioso diplomatico, di formazione autodidatta e di umili origini – si trova invischiato in oscure trame internazionali, tra l’Asia e Praga, accompagnato dalla romantica moglie Arielle (Alba Rohrwacher). Il film inizia proprio con una sequenza al Quai d’Orsay – la sede del Ministero degli Esteri francese – che capiremo poi collocarsi nel film su cui Ismaël sta lavorando, non in quello cui stiamo assistendo. Posto che la divisione non può essere mantenuta fino in fondo. Ivan è infatti, come scopriremo nel corso del film, il fratello del regista, il quale sta dunque raccontando una storia vera, almeno fino a un certo punto, e che lo riguarda indirettamente a livello personale.

Quando dal film di spionaggio piombiamo nel film che costituisce la trama portante di tutta la narrazione, ci ritroviamo in una casa sul mare, probabilmente da qualche parte nel Nord della Francia. Ismaël sta lavorando alla scrittura del film e ha bisogno di tranquillità. È in compagnia di Sylvia (Charlotte Gainsbourg), la sua compagna, un’astrofisica che sembra rappresentare l’anima razionale della coppia. Ismaël ha infatti tutti i tratti dell’artista geniale e del regista impegnato, secondo i canoni – e perfino i cliché – di un immaginario in particolare francese: fuma e beve alcolici, di preferenza superalcolici; alla ricerca di ispirazione creativa, fatica, scrive, lavora, ma si lascia andare anche all’immaginazione, alla libertà, al limite della sregolatezza; ha un rapporto estremo di fascinazione e aggressività verso il mondo del femminile. La presentazione dei due personaggi, colti nell’atmosfera di sospensione dalla realtà del loro buen retiro, consente al regista Arnaud Desplechin di raccontare il loro incontro e l’inizio della loro storia, facendo un salto indietro nel tempo, prima ancora di entrare nel vivo della narrazione.

Due anni prima, Ismaël e Sylvia si sono conosciuti a una festa. In realtà si incontrano diverse volte a queste feste prima che Ismaël si decida a cercare un contatto. Lui oscilla tra un’imbarazzante goffaggine e l’aggressività verbale. Naturalmente è quasi sempre ubriaco. Lei è più mite, molto silenziosa, poco incline a cercare la compagnia degli altri. È lui, alla fine di una di queste serate, a proporgli di fare insieme la strada per rientrare. Ed è lui che sfacciatamente riesce a farsi invitare nell’appartamento di lei, chiedendole da bere, per poi limitarsi a un commento sull’arredamento, andandosene senza tentare un approccio fisico. Lei è sedotta dai modi sconcertanti dell’uomo. I due finiscono non solo per andare a letto insieme, ma per iniziare una relazione. D’altronde, anche lui è profondamente attratto dalla donna. In un certo senso lei lo ha salvato dal buco nero in cui si trovava, emotivamente parlando, da diversi anni, da quando la giovane moglie Carlotta lo aveva abbandonato. L’ultimo “fantasma” rimasto in vita di quel passato è il vecchio padre di Carlotta e mentore-modello di Ismaël, il vecchio regista Henri Bloom (Laszlo Szabo), che telefona a Ismaël ogni volta che è in preda ai deliri esistenziali dovuti alla scomparsa della figlia. Ora che Sylvia e Ismaël sembrano voler intraprendere a tutti gli effetti un progetto di vita comune, Bloom resta come l’ultima traccia delle ferite che Ismaël porta dentro di sé.

Ma nella sospensione della solitudine di coppia ricompare il fantasma per eccellenza: Carlotta (Marion Cotillard) ritorna all’improvviso. Accadranno molte cose a partire da questa (ri)apparizione. Tutte le certezze nella vita di Ismaël, e non solo nella sua, verranno scosse. Il legame con Sylvia sarà rimesso in discussione. La sua capacità di regista sembrerà vacillare. La sua reazione al precipitare degli eventi assumerà tratti sempre più paranoici: Ismaël si rifugia allora nella natia Roubaix. Qui, da una parte sembra fuggire il lavoro del set, dall’altra pare elaborare il significato profondo della storia cui sta lavorando – e forse di quella specifica modalità della messa in immagine che è il cinema.

A questo punto, la storia di Ismaël e la storia di suo fratello Ivan, che il regista sta tentando di girare, si confondono e si intrecciano. Non sappiamo più se seguire la trama degli eventi o la rielaborazione del racconto come forma d’esperienza, l’intento profondo del film sembra essere il secondo. Desplechin stravolge i patti canonici tra il regista e il suo pubblico. Innanzitutto, la storia ha un sapore letterario fin troppo marcato ed esibito fin dai nomi dei personaggi. Il protagonista è Ismaël, nome di narratore per eccellenza, che non riceve un nome dalla storia, ma se lo dà da sé e con ciò si istituisce come voce narrante: «Call me Ismael», l’incipit di Moby Dick. Ed è anche, risalendo alla Bibbia, il nome del primogenito di Abramo rinnegato dal padre. Il suocero idolatrato da Ismaël è ebreo, è regista come lui e si chiama Bloom, come il protagonista dell’Ulisse di Joyce. È dunque il principio della narrazione rimessa in discussione, che diventa laboratorio dell’esperienza del tempo e che, com’è noto, ha stimolato i registi fin dai tempi di Ėjzenštejn.

Per non parlare dei raddoppiamenti. Doppia è la storia: c’è quella di Ismaël, ma c’è anche quella del fratello Ivan (Karamazov) – (Stephen) Dedalus, cioè il racconto che si consuma nella figura dell’idiota-Cristo o nel “ritratto (inafferrabile) dell’artista”. Doppia è la figura femminile, anch’essa fortemente improntata a modelli letterari. Carlotta (Le affinità elettive di Goethe) è l’amore di gioventù che ritorna con forza magnetica, ma si rivela impraticabile nella maturità. Sylvia (Sylvie di Gérard de Nerval) è, per sua stessa natura, la ”seconda donna”, l’amore che evoca un innamoramento originario, un “fantasma” che torna solo come tale.

Il gioco potrebbe continuare a lungo. Interessa però mettere in luce un punto. Giocando con i rimandi, Desplechin sembra invitare lo spettatore a chiedersi di continuo dove sia il regista. Intendo nel senso più forte: qual è il posto del regista nel film. In questo senso, mettendo in scena un personaggio dai tic godardiani, fino al tentativo di ricostruire la storia della prospettiva rinascimentale come una divergenza originaria tra il Nord (i fiamminghi) e il Sud (l’Italia), Desplechin sembra rivendicare una linea alternativa. Il regista non può mai venire a capo dei fantasmi, né dei propri né di quelli del cinema o della storia (con la esse minuscola e maiuscola). Ciò che può fare è trasformare questi fantasmi in apparizioni. Ma per farlo deve restituire loro la libertà. E può farlo solo non dominando l’immagine con il suo sguardo, ma lasciando che l’apparire avvenga negli occhi di un altro. Accade nella scena più bella del film, quando Carlotta, che ha confessato a Sylvia il desiderio di riprendersi il marito, inscena per lei una danza allo stesso tempo di guerra e di seduzione.

Marion Cotillard è bella nel senso di una bellezza classica, da divinità greca, ma dimostra qui non solo l’erotismo quanto la violenza che si nasconde dietro tale apparenza, ricordando la danza di Emmanuelle Seigner nel finale di Venere in pelliccia (Polànski, 2013), danzata non a caso per un Mathieu Amalric, lì regista teatrale. E Charlotte Gainsbourg le risponde mirabilmente con il silenzio, l’immobilità, lo sguardo attento e compreso, quasi nella complicità adolescenziale di due ragazze che giocano a fare il maschio e la femmina per scoprire le regole della seduzione. Sylvia è il maschio che si lascia sedurre dalla prorompente bellezza di Carlotta. Ma in fondo anche Carlotta si appropria del ruolo maschile nel tentativo di fare sua la dolce e remissiva Sylvia. Il punto, forse, è che qui il regista tenta di vedere il suo stesso sguardo sulle cose dandogli la forma dell’altro, di quel femminile raddoppiato che nel film costituisce l’ossessione fantasmatica del protagonista.

Riferimenti bibliografici
A. Cervini, A. Scarlato, L. Venzi,  Splendore e miseria del cinema, Pellegrini, Cosenza, 2010.
P. Montani, L’immaginazione narrativa, Guerini, Milano 1999.
P. Ricoeur, Tempo e racconto, voll 3, Jaca Book, Milano 1986-1988.

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