Che aspetto ha l’America post-Obama? Proviamo a ricostruirne i tratti partendo dalla patria politica del primo presidente afroamericano, dal luogo simbolo di quella persuasiva narrazione progressista che è stata l’obamanesimo, ovvero Chicago e il Midwest. Il plot di quel racconto oggi appare scontato, anche perché, a ben vedere, era stato già scritto in una serie tv, anzi la serie tv del vecchio millennio, The West Wing (Sorkin, 1999 – 2006), innescando uno cortocircuito stupefacente tra narrazione politica e narrazione seriale. Come è noto nella serie di Sorkin – gli sceneggiatori hanno dichiarato esplicitamente di essersi rifatti all’Obama della Convention democratica del 2004 – si affaccia sulla scena politica un giovane candidato ispanico, che messianicamente promette di riunire il popolo dei progressisti e di guidarlo verso una società più giusta. Chicago, la città più importante del Midwest, con il suo South Side e la sua prestigiosa università, diventa nella versione reale e ipermediata di questo plot (non dimentichiamoci che Obama è stato il primo presidente social della nostra storia) l’emblema dell’affermazione di una sinistra americana, colta e facoltosa, che parla di diritti, di minoranze, di pace e giustizia sociale.
Con l’elezione di Donald Trump questa promessa e la narrativa che la legittimava – al di là del ragioni politiche che pure, secondo molti commentatori, vanno ricercate nel Midwest – salta completamente, si frantuma, va in mille pezzi. The Good Fight racconta esattamente questa esplosione, evocata esplicitamente ed ossessivamente fin dai titoli di testa.
Giunta alla seconda stagione, disponibile su CBS All Access, The Good Fight è lo spin-off di The Good Wife (R. King, M. King, 2009 – 2016) una serie per lo più sottovalutata – forse perché oscurata dal genere di riferimento, il legal-family drama – ma che indiscutibilmente deve essere collocata tra i momenti decisivi della rivoluzione seriale. Come The Good Wife, anche The Good Fight è ambientata a Chicago; ma se la città è rimasta (apparentemente) la stessa, l’idea intorno a cui il racconto viene sviluppato è esattamente opposta e contraria a quella della serie da cui trae origine. The Good Wife, infatti, era la storia di una (ri)costruzione: Alicia Florrick , moglie sincera di un politico del partito democratico, all’indomani di uno scandalo che lo vede coinvolto (droga, sesso e presunta corruzione), è costretta a prendere in mano la sua vita e a ricostruirla, o più propriamente a costruirla da zero per la prima volta da sola. Per sette stagioni questo personaggio, apparentemente imperturbabile, si ritrova ciclicamente coinvolto al centro di inaspettati twist narrativi (memorabile per gli appassionati è quello della morte di Will Gardner) a partire dai quali deve rimettere in discussione quanto faticosamente ricostruito e ripartire daccapo. Una costruzione interminabile, sempre possibile e sempre a venire.
The Good Fight invece mette in scena la distruzione, il momento dell’esplosione, in una sorta di lungo slow motion (proprio come quelli dei titoli di apertura) che mescola storie, personaggi ma anche aspetti di attualità politica (gli sceneggiatori della serie hanno dichiarato di averla praticamente riscritta in seguito all’elezione di Trump). Al centro di questa lunga e lenta esplosione, troviamo di nuovo un personaggio femminile, quello di Diane Lockhart: il primo episodio della prima stagione si apre con la scena in cui Diane inorridita e incredula guarda in tv l’inaugurazione della presidenza Trump. Democratica di ferro, amica della Clinton – in The Good Wife indicando una foto che la ritrae con Hillary, dice ad Alicia «se ce l’ha fatta lei [a superare lo scandalo del marito] allora puoi farcela anche tu» – Diane incarna la crisi della sinistra americana. Ormai decisa a lasciare l’attività legale per andare in pensione, scopre che i suoi risparmi milionari si sono volatilizzati, a causa dell’amico Henry Rindell, leftist anche lui, che ha investito i soldi di Diane, e di centinaia di altre persone, in un Ponzi Scheme. Questo elemento narrativo, in cui la spregiudicatezza del capitalismo finanziario e la crisi della sinistra vengono esplicitamente messe in relazione, fa da detonatore e permette l’articolazione del racconto che occupa quasi interamente la prima stagione. Accanto a Diane vi è un altro personaggio-chiave femminile: Maia Rindell, la giovane figlia lesbica di Henry che resta coinvolta suo malgrado nello scandalo del padre. Maia si ritrova a dover fare i conti con delle verità molto scomode, fino a quel momento sottaciute, non solo rispetto alla sua famiglia, ma alla sua stessa esistenza, costruita interamente sul nesso sottile ma fortissimo tra privilegio e ingiustizia. Questi due personaggi così diversi, eppure così imparentati, due diverse facce della stessa stagione politica – una self-made woman tradita dai suoi stessi ideali, e una giovane donna inconsapevole, tradita dal suo stesso padre – si trovano così accumunate dal totale disorientamento nel quale precipitano.
Per venirne fuori, entrambe finiscono a lavorare nel più importante studio legale black di Chicago, impegnato principalmente in battaglie per i diritti degli afroamericani. Qui, tra le pieghe del legal drama, emerge una sorta di sguardo antropologico della serie sulla gestione del potere da parte di una minoranza, colta nel massimo dispiegamento della propria efficacia politica, sociale e corporativa – con tanto di riferimento alla gestione della costruzione della nota Obama Presidential Library che dovrebbe sorgere appunto nel South Side. Ed è proprio il tema della corporazione, ovvero dall’intoccabilità degli avvocati come casta, bianchi o neri poco importa, che viene introdotto nella seconda stagione, quale ulteriore elemento esplosivo di una situazione socio-politica rispetto alla quale non ci sono più coordinate. In città gli avvocati divengono oggetto di minacce e, al grido shakespeariano “Let’s kill all the lawyers” alcuni di essi vengono uccisi, accusati di aver ridotto in miseria i propri clienti con tariffe orarie fuori controllo. È l’ennesimo muro portante di un’esistenza, quella di Diane, ma in realtà di un’intera società, quella americana, che va in frantumi: non è un diritto inalienabile quello della difesa in tribunale? A Diane non rimane neppure più questa certezza e dinanzi ad un’ingiustizia, pari a quella subita, di cui essa stessa è in qualche modo artefice e alla totale insensatezza di una realtà che fa saltare qualsiasi chiara distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, non le rimane altro che rifugiarsi nell’allucinazione sintetica di qualche droga, capace di restituire una insensibilità che sembra ora necessaria per sopravvivere. Ecco allora, che arrivati al terzo episodio della seconda stagione “Day 422”, ovvero al 442esimo giorno della presidenza Trump, si fa strada nella protagonista, e nello spettatore, un dubbio del nostro tempo: e se non ci fosse più la battaglia giusta?