“To show” è un verbo dai diversi significati che può essere tradotto, nella sua forma più immediata, come mostrare, esibire, ma anche come l’atto del far vedere, del rendere, insomma, visibile. Tra le foto che aprono la mostra Eve Arnold. L’opera 1950 – 1980 attualmente allestita negli spazi di Camera – Centro Italiano per la Fotografia di Torino, ve n’è una che ci mostra un uomo — anche se sarebbe più corretto dire la sua forma-ombra – nell’atto di scendere le scale. A indicargli la via, una grande freccia dipinta sul muro e una indicazione: “to show”, appunto.
La fotografia appena brevemente descritta è uno dei primissimi scatti realizzati dalla fotografa americana, uno dei tentativi fatti mentre era ancora studentesse del corso di fashion photography tenuto da Alexey Brodovitch – art director di Harper’s Bazar – alla New School for Social Research di New York. In quel momento Eve Arnold era solo un’operaia in un laboratorio di stampa del New Jersey, ma con la sua Rolleicord difettosa muoveva i primi passi come fotografa tra le strade di New York seguendo il flusso della città, la sua velocità, mentre allenava il suo sguardo documentando la vita intorno a Time Square, il mondo dei freaks dell’Hubert’s Museum, i cartelloni pubblicitari. La fotografia che qui è stata utilizzata come overture è stata scattata, invece, all’ingresso di un peep show. C’è certo un dato paradossale che giace latente nello scatto verso il quale chi scrive continua a rivolgere la propria attenzione: com’è possibile, infatti, mostrare – to show – se quello che si vuole far vedere è nell’ordine di ciò che, invece, deve essere tenuto nascosto, velato?
Che l’immagine fotografica abbia di per sé molto da spartire con questa dinamica dell’esibire e del non mostrare, non è certo un mistero: il taglio fotografico comporta sempre la scelta di una minima porzione di reale a discapito di ciò che, al contrario, rimane fuori dai margini. Ma se ogni immagine è il campo di tensione tra ciò che può farsi visibile o, meglio, tra ciò che letteralmente può “venire alla luce” e quello che è costretto al buio, sin dai suoi primi tentativi il lavoro di Eve Arnold ha provato a muoversi proprio nelle zone d’ombra della Storia. Ed è proprio in questo “gioco di illuminazioni” che forse possiamo leggere il primo reportage della Arnold: realizzato ad Harlem, il lavoro vide al centro della sua indagine le sfilate della comunità afroamericana, fino a quel momento mai tracciate dalla fotografia – e non è un caso che, in seguito, nessuna rivista americana pubblicherà il reportage realizzato in quell’occasione. Eve Arnold fotografa le modelle di colore mentre sfilano nei nightclub, nei bar, in una chiesa sconsacrata, ma finisce poi per seguirle nei backstage fotografando le fasi del cambio d’abito e del trucco. Ma lo abbiamo già detto: la Rolleicord era difettosa, e il flash finì per rompersi costringendo la Arnold a fotografare quasi al buio. Secondo paradosso: nella città delle “mille luci”, la Arnold fu costretta ad affidarsi alla sola luce naturale facendone, da quel momento, il suo stile.
È certo celebre la descrizione di Robert Capa secondo cui il lavoro della Arnold cadeva – metaforicamente parlando – «a metà fra le gambe di Marlene Dietrich e la vita amara dei lavoratori migranti nei campi di patate», e le 170 fotografie, molte delle quali inedite, che compongono la mostra raccontano l’attitudine della prima fotografa donna – insieme a Inge Morath – a far parte dell’agenzia Magnum, a ri-tracciare questo “scontro di visibilità”. Due percorsi impalcano, infatti, l’esposizione curata da Monica Poggi: i reportage pubblicati sui magazine strutturano una narrazione lineare, cronologica, mentre gli scatti dis-posti nelle diverse sale di Camera ci restituiscono la capacità della Arnold di fotografare – come già evidenziato attraverso gli scatti fin qui menzionati – muovendosi sempre sulla soglia sottile e mobile del fuori campo, nello spazio poroso dell’intra-visto. Cosa accade, infatti, tra il reportage realizzato presso gli studi della Columbia Record in cui Marlene Dietrich stava registrando le sue canzoni, e gli scatti realizzati nel corso di dieci anni nelle piantagioni di patate della famiglia Davis, membri rispettabili della comunità di Brookhaven Township e che, tuttavia, sfruttavano i lavoratori migranti costringendoli a condizioni disumane?
Accade l’incontro di Eva Arnold con alcune delle figure più emblematiche del secolo scorso: da Malcom X, per esempio, fotografato nel 1961 durante un comizio con i Black Muslim, a Marlene Dietrich e le sue gambe, appunto. Poi Jacqueline Kennedy, che posò con la figlia Carolyn all’interno della Casa Bianca, Orson Welles, Anna Karina; e ancora Joan Crawford, che si lasciò fotografare mentre si sottoponeva a estenuanti processi di beauty routine per provare a fermare il tempo e restituire così all’obiettivo un’immagine ormai svanita. Così come con le modelle afroamericane di Harlem, la Arnold si muove nel “dietro le quinte”, letteralmente s-velando il trucco di una bellezza ormai sempre più posticcia. Eppure, la Arnold e Joan Crawford rimasero amiche, così come amica lo diventò anche di Marilyn Monroe che la fotografa definì “un genio della fotografia”. È celebre lo scatto di Marilyn alle prese con la lettura dell’Ulysses di James Joyce, ma l’attrice lasciò anche che la fotografa la immortalasse con i piedi gonfi o mentre, assorta, ripeteva le battute sul set di The Misfits. Eve Arnold è lì, scatta: non si lascia abbagliare dalla bellezza ormai già iconica di Marilyn ma fotografa, piuttosto, ciò che intravvede, realizzando immagini di rara potenza.
Del resto, l’attenzione verso l’universo femminile è centrale nella ricerca della Arnold. Per vicinanza, disse – e per lo stesso motivo fotografò anche i poveri: perché era nata povera. Per mesi, dopo la morte del proprio figlio, fotografò i primi cinque minuti di vita dei bambini del Mater Hospital di Port Jefferson, ma fotografò anche la vita delle donne operaie assunte nel settore aeronautico, fino alla realizzazione del reportage dal titolo Behind the Veil del 1969 che la portò a viaggiare tra Afghanistan, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Pakistan e Turkmenistan.
Ma è forse nel servizio realizzato nel 1966 in un villaggio vietnamita ricostruito nel North Carolina per le esercitazioni dei Marines che questo “conflitto” del visibile esplode: mentre il governo degli Stati Uniti sosteneva la necessità delle operazione di “ricerca e distruzione” per liberare il Vietnam, i soldati immortalati da Eve Arnold improvvisano azioni di combattimento mescolando realtà e finzione all’interno di un paradossale “teatro di posa della guerra”, in cui il dramma del conflitto in viene ri-messo in scena, re-enactment di un orrore combattuto a molte miglia da casa.
Mostrare dunque. Profeticamente, una delle prime fotografie della Arnold le aveva tracciato il senso di un imperativo etico, oltre che estetico, costringendo la fotografa a interrogare la possibilità del fotografico proprio a partire dal paradossale movimento rendere visibile e, ugualmente, nascondere. Per far vedere, insomma, a volte serve anche una Rolleicord difettosa.
Eve Arnold. L’opera 1950 – 1980, Camera – Centro Italiano per la Fotografia di Torino, 25 febbraio – 4 giugno 2023.
*In copertina “Anthony Quinn e Anna Karina sul set di Gioco Perverso di Guy Green (Spagna, 1968)”, foto scattata dall’autrice dell’articolo.