Still Recording può essere identificato come un documentario sull’attuale guerra civile siriana. Ma quello che il film offre, a partire dall’urgenza del suo contenuto, è una riflessione sul concetto di immagine; soprattutto, a proposito di un’opera come questa, ossia di un’opera di rilevanza politica e sociale, il concetto coinvolge prima di tutto un valore morale, oltre che estetico.

Quando ci si confronta con un’opera artistica che tratta il tema della guerra, il coinvolgimento scaturisce per diverse vie: per una via emotiva, innanzitutto; e per una via intellettuale, critica, interpretativa, proprio alla ricerca di quel contenuto morale che l’opera dovrebbe garantire. Entrambe le vie, entrambi i termini del coinvolgimento, producono ambiguità, imbarazzo, pudore. Un’opera che decide di mostrare la guerra appare, fin dalla sua genesi, un’opera possibilmente discutibile; nel momento in cui ci si affaccia a un soggetto così crudo, violento, drammatico, i termini di giudizio si intensificano, aumentano il loro peso fino a mutarsi in interrogativi problematici che non è semplice gestire: alcuni concetti teorici, come quello di estetizzazione della realtà, o alcune argomentazioni critiche, come quella concernente l’uso di strumenti retorici attraverso i quali tale realtà verrebbe esposta, divengono motivi di giudizio con i quali misurare il valore morale dell’opera.

Il coinvolgimento, secondo questi termini, aumenta in un caso come questo, ovvero di un’opera su di una guerra reale, e su di una guerra in corso. Ancora, dovrebbe essere evidenziato il fatto che l’opera in questione è un film: l’opera non si limita a dire, ma mostra; e non mostra un’immagine riconducibile al passato, come nella fotografia, ma un’immagine animata, ossia viva, sempre e comunque caratterizzata dall’illusione di un tempo coniugato al presente: qui, ora. Nel caso specifico, inoltre, ossia nel caso di un documentario, l’immagine appare in tutta la sua verità: lo stesso concetto di verità, però, deve essere ridiscusso: non per negarlo, ma piuttosto per intensificarlo e, così, meglio interrogarlo.

Still Recording, prima di essere un documentario di guerra, prima di essere un film di denuncia politica, è dunque una riflessione su come l’immagine possa affrontare il soggetto che dovrebbe, in seguito, rappresentare; su come l’immagine rivendichi la possibilità di registrare il reale, di riportare i fatti e, se necessario, di intervenire su quello stesso reale; su come, tutto questo, si presenti in quanto operazione necessaria: sembra necessaria la registrazione, sembra necessario l’intervento. Still recording pone interrogativi complessi che non potranno essere mai del tutto risolti né esauriti, relativi al tema di un’estetica della realtà: uno sguardo estetico suggerito dalla realtà e un’estetica come possibilità di ritorno a quella stessa realtà. Per parafrasare una riflessione di Rohmer a proposito del realismo nell’arte, anche il cinema dovrebbe «insegnarci a vedere, e ricondurci […] alle cose stesse attraverso una deviazione più o meno lunga o violenta» (Rohmer 2006, p. 34).

Still Recording demanda dunque all’immagine una funzione di testimonianza, a cui i registi si affidano, al di là di qualsiasi possibile ambiguità, imbarazzo, pudore. Nel contempo il film si mantiene su quesiti teorici, che si potrebbero far risalire, ad esempio, agli insegnamenti di Dziga Vertov. Forse anche a causa dello statuto documentaristico del film, l’insegnamento vertoviano sembra affiorare dal modo in cui l’opera è costruita. Still Recording infatti, fin dal titolo, è un film che innalza a protagonista la macchina da presa. La macchina da presa garantisce quell’essenza realistica che oggi, grazie alle moderne tecnologie, appare sempre più vivida e pregnante: la camera è piccola, leggera, particolarmente maneggevole, la si porta con sé anche in una situazione di conflitto armato, la si stringe a sé durante una corsa a piedi, la si sposta e la si muove spontaneamente, a seconda della necessità del momento. Sul concetto vertoviano di macchina da presa come protesi dell’occhio umano, dunque, occorrerebbe soffermarsi. Su questo concetto, forse, più di altri, assume forma e consistenza il film.

La macchina da presa, in Still Recording, assume quindi la caratteristica di uno sguardo umano. Prima del titolo, lo schermo si oscura improvvisamente: non un semplice stacco al nero, ma un’interruzione dello sguardo, il segno simbolico, ossia provocato e consapevole, di un’impossibilità a vedere. A questa interruzione, però, segue il titolo, ovvero l’invito, o il monito, a registrare ancora. Segue, l’intero film. Lo sguardo, dunque, si riattiva. Questa funzione scopica sarà resa poi ancora più evidente per la capacità della videocamera non solo di sostituire l’occhio umano, ma di fungere da suo sostegno, un aiuto necessario per intensificare e dunque valorizzare la capacità dello sguardo. L’immagine è dunque il risultato della dialettica tra sguardo umano e sguardo della macchina. Appostati in un riparo dietro ad una parete semidistrutta, i partigiani si servono dell’effetto zoom della videocamera per riuscire a vedere ciò che prima non vedevano, o non vedevano chiaramente. Più o meno lo stesso discorso vale, ad esempio, per l’uso del fuori fuoco: l’immagine sfoca, non più per un motivo di progettualità estetica, ma a seconda della necessità reale e immediata di dirigere l’obiettivo.

La teoria, dunque, serve ora la pratica. E, come nella sequenza finale, a volte la videocamera è abbandonata, rimane ferma, inerte, a registrare tutto ciò che ha davanti ma anche tutto ciò che, invece, le sfugge nel fuori campo: la videocamera non appare quindi come un occhio onniveggente, ma come un occhio consapevole del proprio limite di sguardo; un limite ancora più evidente se accompagnato dall’assenza dell’occhio umano dell’operatore. Infine, più di una volta la persona che viene inquadrata chiede se la videocamera è in funzione, se sta registrando: appare dunque necessaria, ai fini della registrazione della realtà, una mimesi simbiotica tra uomo e macchina. Gli effetti che risultano dall’uso della videocamera, dunque, primo fra tutti lo zoom ma anche un semplice movimento di macchina, non sono più solamente progettati dal regista, ma seguono la realtà, generandosi su di essa, al suo servizio, secondo le necessità o le urgenze dello stesso regista. In Still Recording la realtà compone letteralmente il film; l’intervento dei registi sul materiale visivo a loro disposizione è un intervento necessario perché richiesto dalla realtà, dal momento presente, dal bisogno di dire e mostrare, ora, e in nessun altro luogo. La scelta di sguardo non è né soggettiva, né oggettiva: avviene.

Dal discorso teorico, allora, si dovrebbero rifuggire le ingenuità: una scelta è sempre soggettiva; per quanto possa essere imposta dalle condizioni esterne, essa nasce da una volontà soggettiva, che le dà la possibilità di esistere. Così come l’intervento di manipolazione del reale anche in un documentario può assumere peso; ad esempio, in fase di post-produzione. Eppure, nel caso del film in questione, l’impressione di realtà rimane molto forte, e sembra condurre l’intera opera. La manipolazione estetica, del resto, è evidente e perfino esibita in alcune sequenze del film. A partire infatti dalla lezione di cinema tenuta dai registi, sembra necessaria la capacità del cineasta di servirsi della finzione per raccontare la realtà: l’insegnante prende a modello i film hollywoodiani, e tutto il loro dispendio di denaro, per poi servirsi a suo modo, a livello pratico, reale, di ciò che la stessa produzione di Hollywood crea a livello fittizio e spettacolare.

In particolare, quindi, la manipolazione estetica è avvertita in alcune sequenze: la registrazione del tempo che passa, e di un sole che sorge, è riportata mediante una velocizzazione delle immagini; la musica di un pianoforte, suonato da uno dei due registi, abbandona presto l’immagine reale da cui si genera e diviene musica extradiegetica, affidata a nuove immagini. Ma soprattutto può colpire la sequenza di una festa, ripresa in notturna e particolarmente elaborata a livello estetico, tramite espedienti stilistici come il ralenti, la distorsione dell’immagine, la corrispondenza tra audio e video in direzione di un certo ipnotismo immaginifico. Si inserisce, forse, in tal caso, un contenuto metaforico: la festa rappresenta infatti non solo una sospensione dalla realtà di guerra, ma anche un momento di ritrovo tra un gruppo di giovani.

Il film dunque distingue due tipi di militanza armata contro il regime dittatoriale siriano: un gruppo di militari più anziani, e un gruppo di partigiani più giovani. Nel momento in cui i giovani sono protagonisti, appare sempre un elemento ludico a caratterizzare quella che infine possiamo definire come diegesi. Sono i giovani, in definitiva, a rappresentare quella possibilità dialettica tra realtà e rappresentazione, documentarismo e teatralizzazione. Sono i giovani, dunque, a rifiutare il conflitto, ad opporgli il lavoro o la parola ma soprattutto l’arte, l’espressione artistica che nasce nel film attraverso la scultura, la pittura su murales, o il cinema stesso.

In Still Recording è l’arte, infine, a ridefinire e a contrastare la realtà, e a permetterne una diversa soluzione, una diversa lettura, non evasiva ma ancor più immersiva: a livello emotivo, intellettuale, morale. La questione teorica di cui si tratta rimane certo aperta, discutibile, problematica; per seguire la riflessione di Susan Sontag, «i concetti di realtà e di immagine sono complementari. Quando cambia l’uno, cambia anche l’altro, e viceversa» (Sontag 2004, p. 138). Ma è proprio su questa insolubile complessità che un film così urgente come Still Recording continua ad appoggiarsi: perché al di là di qualsiasi ambiguità, imbarazzo, pudore, la realtà della guerra richiede non solo la sua denuncia, ma anche la sua alternativa.

Riferimenti bibliografici
E. Rohmer, La celluloide e il marmo, in Il cinema secondo la Nouvelle Vague. Astruc, Bazin, Chabrol, Godard, Rivette, Rohmer, Truffaut, a cura di G. Grignaffini, Temi, Trento 2006.
S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 2004.

Share