Un piccolo libro, una sorta di oggetto strano, in apparenza spurio, di dimensioni ridotte. È Essere artisti, di David Lynch, pubblicato per i tipi del Il Saggiatore. Un vero e proprio libro da tasca, letteralmente. Una dichiarazione di poetica di un autore? Un testo fatto di aforismi? Né l’uno né l’altro, e un po’ di entrambi. Essere artisti è il frutto di un processo di selezione, di editing di frasi e dichiarazioni provenienti da una serie di interviste che Chris Rodley ha realizzato con Lynch dal 1993 al 2002. Le frasi sono isolate dal contesto originale e diventano piccoli e preziosi spazi di riflessione, occasioni di lettura, anche casuale, di pensieri sulla creazione artistica, di una serie di spunti di approfondimento che lo stesso Lynch compie sul suo proprio cinema e sulla sua arte in generale. Un testo libero da questo punto di vista, che si può leggere – al di là della sua divisione in capitoli tematici – anche aprendo a caso su una pagina qualsiasi, soffermandosi su una frase, su una parola particolare.

Dunque un libro non-libro? Fatto di contenuti già editi? Sì e no. È proprio l’editing particolare del testo, la successione rapida delle frasi-aforisma a costituirne il nucleo essenziale. Leggendo o rileggendo quelle frasi ci si immerge in uno sguardo altro, alieno da discorsi relativi alla produzione, all’industria, finanche alla narrazione o alla recitazione di un film. L’editing del testo rintraccia, come delle piccole perle, dei distillati di una visione del mondo che ha costituito, e continua a costituire un’anomalia in un panorama cinematografico e audiovisivo così dominato dal desiderio di formattazione, di standardizzazione delle forme e delle immagini (ma sono ancora immagini?).

«Sto per parlare con David Lynch o con Charles Lindbergh?» si chiede Mel Brooks la prima volta che incontra l’allora giovanissimo regista, ricordando la sua camicia bianca allacciata fino al collo e il suo giubbotto di pelle. È un’immagine perfetta dell’anomalia rappresentata dal regista di Missoula, che nelle pagine del libro non cessa di pensare al cinema (e all’arte in generale) come forma magica, misteriosa, mai totalmente sotto controllo: «Il cinema tiene insieme tutto: se una sequenza si fa astratta, il film comincia quasi a seguire le regole della musica; e se invece si fa concreta, può assomigliare alle leggi del teatro. Ma il cinema racchiude in sé ancora più possibilità, forse. È un medium magico» (Lynch 2023, pp. 32-33). Mistero e magia sono parole che ricorrono spesso nel vocabolario lynchiano, sono parole chiave per Lynch; così come il termine “astrazione”, che per il regista ha a che fare con la possibilità dell’immagine di svincolarsi dalla logica narrativa, dalla costruzione di una struttura decisa a priori. “Astratto” si contrappone a “concreto”, alla dimensione puramente rappresentativa del cinema, che l’immagine deve evitare, o meglio mantenere in equilibrio se vuole veramente essere una nuova possibilità di sguardo.

Nelle 74 pagine del libro sono pochissimi i riferimenti ai suoi film (alcuni accenni a Eraserhead, a Velluto Blu, a Twin Peaks) o a quelli diretti da altri, a parte Ultimo tango a Parigi (1972), uno dei film più influenzati dalla pittura di Francis Bacon, afferma il regista. Eppure il cinema è dappertutto, come potenza, come possibilità, come alterità: «Quello che puoi dire con un film non lo puoi esprimente a parole» (ivi, p. 23).

Ecco. Chi frequenta il cinema di Lynch, o ha letto le interviste concesse a Chris Rodley sa bene che il regista americano presenta i suoi film o ciò che lui ama del cinema come una forma che non ha come principio organizzatore, una storia, una narrazione come basi, ma che lavora su un territorio di confine, a partire da un processo creativo che si sviluppa organicamente, ma in cui nulla è arbitrario, lasciato al caso: «Il cinema richiede precisione. L’equilibrio degli elementi è fondamentale» (ivi, p. 29). È la questione che spesso si apre di fronte alle immagini lynchiane: qual è il loro senso? È forse il gioco furbo di presentare un ammasso incoerente di frammenti come grande cinema? O c’è un percorso nascosto, non visibile, che va affrontato, interpretato; che apre percorsi e letture non immediatamente visibili, ma che arricchiscono ulteriormente il cinema del regista americano? È quello che si chiede Slavoj Žižek ogniqualvolta affronta il cinema di Lynch: «Evitiamo di credere che questa complessità sia insensata, che siamo trascinati in uno spaventoso delirio schizofrenico senza logica o regole e che, di conseguenza, dovremmo rinunciare a ogni tentativo di interpretazione abbandonandoci alla moltitudine di immagini incoerenti e scioccanti che ci bombardano» (Žižek 2020), afferma il filosofo sloveno.

Lo sforzo di costruire un senso insieme al film, insieme alle sue immagini, si rivela necessario. Non basta pensare al puro flusso di momenti di cinema, alle immagini e ai suoni. Il mondo di Lynch è un mondo complesso, il suo mondo interiore è esposto: «Ciò che si crea è un’estensione di se stessi; e ogniqualvolta crei qualcosa, ti esponi. È rischioso» (Lynch 2023, p. 30). La lettura di questi brani scelti ci colpisce quindi sempre di più, non tanto perché Lynch elabori qui una teoria dell’immagine nuova o inedita: si tratta di frammenti di testi già editi, come si è detto, ma capaci comunque di restituirci un certo ordine del discorso, quello dell’anomalia.

Il regista americano si mostra qui in tutta la sua alterità rispetto alle logiche dell’industria cinematografica, disinteressandosi alle questioni produttive, economiche (il denaro, afferma in un fuggente passaggio, serve solo a fare nuovi film). Il suo è il ritratto di una figura anacronistica, che si contrappone decisamente ad una certa idea contemporanea del cinema, o meglio, ad un certo ordine del discorso, fondato sulle regole della produzione, sul primato della struttura narrativa, sullo spostamento linguistico e politico del linguaggio (prodotto e non opera).

Lynch, lo si diceva, non elabora una teoria originale del cinema, ribadisce però qualcosa che scarta da certe letture facili dei suoi film, visti a volte come un insieme di deliri schizofrenici: se è chiara l’analogia tra struttura del cinema e il mondo onirico (evocata sin dagli albori della teoria del cinema), non può essere affermata la loro identità. Il cinema non è una traduzione del sogno, ma semmai prende spunto da quella capacità di vedere oltre, di andare al di là della superficie delle cose che lo sguardo può attraversare, come quando la macchina da presa, all’inizio di Velluto blu (1986), dopo aver inquadrato il corpo a terra del padre sul prato di casa, scende ancora più in basso, immergendosi in un micromondo presente eppure invisibile, fatto di insetti, terra, oscurità. È questo il cinema per Lynch, la capacità di vedere il mondo come stratificazione di mondi, molti dei quali impercettibili ad uno sguardo superficiale: «Dai ciliegi cola fuori la resina, a volte nera a volte gialla, con milioni di formiche rosse che ci strisciano sopra. Mi sono accorto che, se si guarda un po’ più da vicino questo mondo meraviglioso, ci sono sempre delle formiche rosse» (ivi, p. 11).

Astrarre dunque non significa negare la concretezza del mondo, ma allontanarsi dalla superficie, avvicinandosi ai dettagli che aprono a nuovi mondi percettivi e sensoriali. Lynch parla dunque di creazione, come un artista d’avanguardia del primo Novecento, con un atteggiamento da principe Myškin dei nostri tempi, anomalia anacronistica del cinema contemporaneo. Anomalia dunque preziosa, perché si pone come possibilità di uno sguardo diverso rispetto al panorama attuale dell’immagine e dei discorsi che intorno ad essa ruotano.

Riferimenti bibliografici
M. Brooks, Tutto su di me, La nave di Teseo, Milano 2023.
S. Žižek, Una lettura perversa del film d’autore, Mimesis, Milano 2020.

David Lynch, Essere artisti, Il Saggiatore, Milano 2023.

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