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Cœur fidèle (Epstein, 1923).

A margine dell’ultimo saggio di Roberto De Gaetano, Il cinema e i film. Le vie della teoria in Italia (Rubbettino, 2017, nuova edizione aggiornata di un libro uscito nel 2005 per lo stesso editore col titolo Teorie del cinema in Italia), compare un’ipotesi interpretativa che sorprende per la sua audacia. A una sua sintetica illustrazione l’autore dedica le ultime pagine di uno dei capitoli più densi del libro – quello dedicato al lavoro di Maurizio Grande –, laddove la disamina del complesso intreccio di percorsi e ascendenze che hanno guidato lo sviluppo della teoria del film, dentro e fuori dall’Italia, pare risolversi in una formulazione di valore più generale.

Dopo aver distinto due “vie” principali nella storia delle teorie cinematografiche, che profilano anche due estetiche (un’estetica delle forme e un’estetica delle forze, che avrebbero i loro momenti esemplari rispettivamente nella riflessione di Ejzenštejn e nella creazione concettuale messa in pratica da Deleuze), De Gaetano restituisce il più ampio orizzonte di intelligibilità e di risonanza entro cui esse giungono a definirsi pienamente:

C’è da chiedersi se nell’idea costruttivista, nella ‘visionarietà teorica’ che sottrae il pensiero all’istanza di giudizio e di verità (secondo l’artaudiano “pour en finir avec le jugement…”), affermandolo come invenzione e sperimentazione, e nella idea ‘classica’ che fa della filosofia una ‘scienza della verità’, affermata in forma argomentativa ed esplicativa, sistematica e dimostrativa, non vengano a emergere due linee profonde della cultura occidentale. Due linee che definiscono due forme di sapere, che lavorano come matrici interne al pensiero, alla teoria e all’arte, e nei casi più proficui si vengono produttivamente a intrecciare. […] da un lato la tradizione del razionalismo classico greco e latino, con i princìpi che lo sostengono (il principio di identità, di non contraddizione, del terzo escluso), e con le idee che lo incarnano: quella di limite, nello spazio (confine) e nel tempo (sequenzialità), di modus (in definitiva di forma), che sostengono la civitas; dall’altra quella ermetica, che afferma la metamorfosi, il divenire, il superamento del principio di identità e di non contraddizione […] Ora, senza forzare raccordi e connessioni, credo che nelle due tradizioni che abbiamo individuato risuonino motivi di questi profondi modelli ermeneutici ed epistemologici (pp. 122-123).

Il riferimento principe dell’autore è al pensiero di Gilles Deleuze, dunque allo spartiacque segnato, nella prima metà degli anni ottanta, dalla pubblicazione de L’immagine-movimento e de L’immagine-tempo. Appunto il legame con la tradizione ermetica è uno dei nuclei meno indagati dell’intera esegesi deleuziana (è merito di uno studioso come Joshua Ramey aver dedicato, in un libro del 2012 intitolato The Hermetic Deleuze, un’ampia trattazione a questo tema) ed è nel solco di questa tradizione “eretica”, minoritaria, che De Gaetano fa rientrare il dettato del filosofo, che va dunque ad affiancarsi ai nomi di Epstein, Artaud, Morin, Bresson, Pasolini (ai quali volentieri aggiungeremmo almeno quelli di Saint-Pol-Roux e Jean Louis Schefer).

Non è questa naturalmente la sede adeguata per discutere del formidabile valore di ricapitolazione, e insieme di superamento, che la teoria deleuziana assume rispetto alla tradizione di studi nella quale viene a inserirsi (con effetti tutto sommato esplosivi). Il riferimento alla tradizione italiana ci consente tuttavia di cogliere, nella prospettiva indicata da De Gaetano, alcuni tratti di quest’anomalia.

A monte di una via italiana alla teoria è infatti il pesante retaggio dell’estetica neoidealista, e non stupisce che un’idea come quella, posta in chiusura de L’immagine-tempo, di un cinema come orizzonte dell’enunciabile, materia che richiede di essere studiata (da un punto di vista semiotico ed estetico) nelle sue condizioni prelinguistiche, sia stata percepita come una novità sconvolgente da parte di chi si era formato nell’alveo di quell’armamentario concettuale: Deleuze racconta di una materia perennemente attraversata da vibrazioni ed energie non formali, fatta di movimenti aberranti, organizzata secondo una temporalità non cronologica ma distribuita in falde coesistenti, tra le quali si stabiliscono concatenamenti irrazionali.

In realtà, ciò che in questo modo egli introduce al cuore di un pensiero del cinema (anche in Italia, dove le teorie di Epstein avevano conosciuto una diffusione tutto sommato limitata, mentre quella pasoliniana era stata sostanzialmente misconosciuta) è, almeno in parte, un patrimonio antico, il patrimonio di idee dell’ermetismo. Più che mai nel momento in cui ai fenomeni estetici è assegnato il compito di istituire una verità che la filosofia dovrebbe a sua volta elaborare concettualmente (a fronte del portato veritativo che il neoidealismo riconosceva all’arte solo una volta che questa fosse stata posta sotto il controllo della filosofia): sono le potenze del falso e della creazione artistica, ora, a determinare quest’ideale.

Certo, in mezzo c’è stato molto altro: la “svolta semiotica” degli anni sessanta, gli studi di ispirazione linguistica, e in generale la pretesa dello strutturalismo di conferire alla riflessione sul cinema un rigore scientifico. Una figura come quella di Galvano della Volpe – che sarebbe improprio, oltre che ingeneroso, considerare come un semplice precursore della semiotica – ci fornisce il termine più adatto per caratterizzare l’altro polo della questione. L’immagine cinematografica non è più sottoposta in lui a un ideale del vero, quanto a un’idea di verosimiglianza di derivazione aristotelica, che si afferma per mezzo di un esser “simbolo” dell’immagine stessa, del suo valere soltanto in vista dell’immissione in un ordine logico-discorsivo: le idee di forma e di razionalità dell’immagine misurano la propria efficacia all’incrocio tra il film e il suo spettatore, dove quest’ultimo appare come il garante di una realizzazione cognitiva che risponde alla capacità che l’immagine mostra di creare nessi e costituire mondi (di qui la profonda consonanza di della Volpe con i teorici sovietici del montaggio sovrano).

Più in generale, si dovrebbe poter prendere sul serio, anche al di là del suo ambito di riferimento precipuo, quest’ipotesi posta in chiusura di una ricognizione che nel magistero di Grande trova solo uno dei suoi momenti più significativi. Se ne osserverebbe così l’efficacia non solo ai fini della ricostruzione di una storia delle teorie, ma anche come lente utilizzata per rileggere la stessa storia del cinema.

Storia del cinema innanzi tutto nel senso di storia del linguaggio cinematografico, del cinema come insieme di operazioni significanti. In questa prospettiva, quella che si delinea è una tradizione maggiore, che nelle regole del montaggio e più in generale della grammatica filmica identifica i propri procedimenti costruttivi fondamentali. Ma non si potrebbe, al contrario, provare a definire un’altra tradizione, che accompagnerebbe la prima quasi come un’eco o un suo controcanto segreto, e che troverebbe il suo meccanismo regolativo proprio nell’erosione dei princìpi su cui l’altra si fonda? Si può parlare di una ermetica del cinema, secondo la formula di De Gaetano? O, ancora in altre parole, si potrebbe fare la storia di un cinema “alternativo” ai modi e ai processi canonici del cinema in quanto insieme di processi di linguaggio, una sorta di storia segreta che del cinema coglierebbe (secondo l’ottica inaugurata da Epstein) le potenzialità di dissoluzione delle forme visibili e di captazione di forze invisibili?

Non è questione di schierarsi da una parte o dall’altra, naturalmente: un inventario dei possibili princìpi di un’ermetica del cinema resta ancora da fare. Si tratta semmai di individuare il punto d’intersezione che conduce le due polarità a indistinguersi per ritrovare un comune terreno d’origine, la propria reciproca implicazione (anche perché – l’autore ce lo ha detto – i casi più proficui, nella teoria come nella pratica, sono quelli in cui le due linee “si vengono produttivamente a intrecciare”). Qui possiamo limitarci ad avanzare un’ipotesi di lavoro, e lo facciamo chiamando in causa le tesi ormai classiche che Noël Burch ha formulato a proposito del cinema delle origini: in particolare quella distinzione tra scienza e mito il cui intreccio sembra aver presieduto alla nascita stessa della settima arte, e nella quale crediamo di poter riconoscere la nostra dicotomia.

Di frequente questa divaricazione tra le due tendenze è stata rimproverata a Burch come una grave incongruenza, quasi che con essa egli volesse riproporre un antico cliché, quello che oppone il cinematografo come dispositivo di una mera registrazione delle forme visibili al cinema come macchina illusoria, il documentario alla finzione, e, in definitiva, Lumière a Méliès. A noi sembra invece che il gioco sia più sottile, nel momento in cui Burch riconosce il costituirsi al cinema di un modello di rappresentazione istituzionale soprattutto come una risposta a un’ideologia “frankensteiniana” della reviviscenza (dunque ascrivibile alla sfera del mito e della magia).

Potrebbe emergere qui un primo punto dell’inventario di cui dicevamo: se il fine del cinema in quanto linguaggio è quello di restituire l’illusione di un mondo abitabile per l’uomo (centratura del cadre attorno alla figura umana, a sua volta scontornata per effetto dell’illuminazione e dell’angolazione della cinepresa, costruzione di uno spazio e di un tempo ordinati), un’ermetica del cinema tenderebbe piuttosto a una visione priva di gerarchie, non più definibile in base a un centro e a una periferia, ed in cui l’uomo non conterebbe più di un animale, di una pianta o di una roccia. Ciò che Deleuze chiamerebbe un “piano d’immanenza”.

Riferimenti bibliografici

N. Burch, Il lucernario dell’infinito. Nascita del linguaggio cinematografico, Il Castoro, Milano 2001.
R. De Gaetano, Il cinema e i film. Le vie della teoria in Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017.
J. Ramey, The Hermetic Deleuze. Philosophy and Spiritual Ordeal, Duke University Press, Durham-London 2012.

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