Ci sono a volte, nel cinema come nella vita, dei momenti preziosi, delle immagini che sono capaci, retrospettivamente, di condensare un percorso, un desiderio, una volontà che segnerà poi la storia di un artista, di un regista, di un autore. È un pensiero che sorge potente dopo aver rivisto un breve cortometraggio diretto nel 1954 da Ermanno Olmi, Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere, film realizzato all’interno della produzione marcata Edisonvolta, su cui Olmi si era formato, sviluppando la sua passione per il cinema come responsabile della sezione cinematografica dell’azienda. È qui che il giovane Olmi impara a fare cinema, realizzando decine di documentari e piccole fiction, sperimentando forme, tempi e ritmi della macchina da presa.
Tra i tanti corti realizzati, spicca allora questo prodotto particolare, ripreso da una delle Operette morali di Leopardi. Il film narra l’incontro in una stazione ferroviaria tra un viaggiatore e un venditore di almanacchi. Il dialogo tra i due (ripreso direttamente dal testo leopardiano), scandito in un italiano fine e anacronistico scarta rispetto al tempo moderno dell’ambientazione e contribuisce a costruire un tempo altro o, meglio, una sospensione del tempo che interroga il tempo stesso: “Il prossimo anno sarà migliore del precedente?”, chiede il viaggiatore al venditore, ma il venditore non può affermarlo con sicurezza, nessuno degli almanacchi che lui ha venduto in venti anni di lavoro ha mai segnato un anno migliore del precedente: “Noi non rivivremmo nessuno di questi anni passati. Eppure sappiamo che la vita è bella”, afferma il viaggiatore, “ma lo è perché è aperta al futuro, perché è proiettata in avanti”. È nel futuro che noi proiettiamo la promessa di felicità. Dopo aver detto questo, il viaggiatore acquista dal venditore il suo almanacco più bello e prezioso, come ulteriore promessa di un futuro migliore.
In una intervista successiva, Olmi ritorna sul Dialogo, parlandone come un film sperimentale in senso tecnico, realizzato per provare una nuova macchina da presa, più adatta alla registrazione del suono in presa diretta. Ecco il perché del dialogo tra due personaggi in un ambiente chiuso come l’atrio di una stazione. Ma non si tratta solo di una sperimentazione tecnica; più avanti, nell’intervista, Olmi infatti aggiunge: “Mi interessava l’intreccio di varie nozioni di tempo: quello del calendario, il tempo del pensiero, delle aspirazioni del futuro”.
Ecco, il tempo, o meglio le forme del tempo, il loro intreccio. Il tempo misurabile e quello della memoria, del pensiero, il tempo sospeso dei rituali antichi e i nuovi tempi della modernità. Il tempo della città e quello della campagna, la paura e il desiderio del futuro, il desiderio di crescere e di essere grandi, di trovare un lavoro, fare una famiglia. Il futuro come spazio concreto, fatto di piccole e grandi sicurezze, il presente di povertà, il passato come tempo ciclico e come tempo di grandi tragedie. L’intreccio tra le forme della temporalità, collettive ed individuali, costituisce forse una delle linee più potenti del cinema poetico di Ermanno Olmi.
I film di Olmi sono spesso in fondo forme diverse permeate da vite che brillano come intrecci di tempo, come il Dialogo mostra con lampante evidenza. I gesti, i microeventi, le situazioni fissate da una macchina da presa efficace e sintetica, tipiche dei documentari del periodo Edisonvolta (e più tardi, di quelli realizzati per la RAI) sono dei momenti straordinari, delle gemme di cinema che sbocceranno poi in immagini del tempo sempre più complesse. Dall’esordio nel lungometraggio nel 1958 con Il tempo si è fermato, passando per film essenziali come Il posto (1961), I fidanzati (1963), La cotta (1967), sono i microeventi temporali che affascinano lo sguardo del regista bergamasco. L’atto di innamorarsi, di cercare lavoro, di prendere un caffè in un bar, partecipare ad una festa, sognare un bacio. Atti minimi eppure enormi, raccontati con una efficacia filmica straordinaria, secondo una lezione che lo accomuna ad un cinema del gesto appunto, della sottrazione, della sintesi, come quello di Rossellini o Dreyer, o Bresson.
Non c’è tanto una microfisica del gesto che agisce nelle immagini di Olmi, ma quello che è sempre in gioco nelle sue immagini, nel loro ritmo e nella loro durata è un problema temporale, legato ai comportamenti e alle scelte dei personaggi. Nei piccoli gesti dei film degli anni sessanta – in cui si riflette l’attenzione e lo sguardo preciso del documentarista Olmi – quello che è in gioco è il passaggio ad una epoca del tempo della vita: il primo lavoro per l’adolescente Domenico e il suo primo amore (che per motivi di turno lavorativo non avrà un futuro) ne Il posto; il trasferimento per lavoro ne I fidanzati, il desiderio di crescere e di attrarre una ragazza più grande ne La cotta.
Ma ogni passaggio di tempo di vita implica la perdita di qualcosa, o perlomeno il rischio della perdita: perdere il senso di un ritmo del tempo scandito dai riti e tempi collettivi della campagna, che costituiscono il tempo profondo di un film come L’albero degli zoccoli (1978), perdere il senso e soprattutto la memoria delle tragedie del passato, che sono lì, letteralmente sepolte lungo i sentieri delle montagne su cui si è combattuto, come ne I recuperanti (1969), o ne Il mestiere delle armi (2001) o ancora nell’ultimo film di Olmi, lo struggente e claustrofobico Torneranno i prati (2014), dove ancora una volta è l’angoscia dell’oblio del tempo a costruire il senso profondo della tragedia, come dice uno dei personaggi: “Finita anche questa guerra, tutti torneranno per dove sono venuti, qui sarà ricresciuta l’erba nuova, e di quel che c’è stato qui, di quel che abbiamo patito non si vedrà più niente, non sembrerà più vero”.
Eppure i prati, le montagne, i boschi conservano molto di più rispetto alla storia umana, riescono ad essere qualcosa di più che monumenti del tempo storico, del tempo delle tragedie piccole o grandi. Non solo: la montagna, il bosco, il campo sono, nella Weltanschauung poetica di Olmi, i custodi di un senso profondo dell’esistere. Ne I recuperanti, i boscaioli tagliano gli alberi perché tutti ne possano godere, e ne L’albero degli zoccoli il taglio di una sola pianta determina la cacciata dalla tenuta di un’intera famiglia, dopo che per tutto il film la cura dell’uomo nel fare della natura sostentamento e vita attraversa ogni immagine, ogni inquadratura. Non è un caso che spesso la scrittura del regista lombardo si rivolge a figure poetiche, a scritture non banali proprio per evidenziare il senso profondo del rapporto tra l’uomo e il mondo naturale. “Il bosco è il luogo che da sempre contiene tutti i misteri” dice Olmi nel film-intervista E venne l’uomo (2016) di Federico Pontiggia.
Ed ecco allora crearsi una sintonia straordinaria tra Olmi e Buzzati in un film particolare come Il segreto del bosco vecchio (1993), tratto appunto da uno dei romanzi fantastici dello scrittore bellunese. Come nell’universo di Buzzati, anche in Olmi è il tempo ad essere la forma del fantastico. Il tempo dell’attesa senza fine, il tempo del bosco popolato da fantasmi, spiriti e geni; il tempo della vita di Benvenuto che solo nella vecchiaia riscopre il senso profondo del bosco come luogo spirituale, il tempo mitico e sospeso di un luogo. Ancora una volta, come nel Dialogo leopardiano, il cinema si rivela un gioco, a volte tragico, a volte ironico, sempre poetico, di intrecci temporali. È la capacità di coglierli, di attenderne gli sviluppi, di seguirne i percorsi senza attardarsi in inutili giri a costituire il profondo senso poetico di Olmi. Il cinema, sembra dire ad ogni film, è un fatto di rispetto ed attenzione, solo così può essere poesia: “La poesia si vergogna e si nasconde. Ma per poterla riconoscere bisogna avvicinarsi ad essa con rispetto ed onestà, quando la poesia è ancora nel buio della nostra esistenza e sentiamo solo che è lì”. Per questo, forse, occorre comunque comprare l’almanacco più bello e prezioso.