di ANTONIO CAPOCASALE
Menocchio di Alberto Fasulo.
Tagliate un ciocco di legno,
e io sono lì,
sollevate una pietra,
e mi troverete.
Apocrifo di Tommaso
In terra friulana, sul finire del ‘500, il mugnaio Domenico Scandella, detto Menocchio, è processato per eresia. La coscienza e coerenza del singolo, i timori di compaesani e familiari, il potere minaccioso della Chiesa della Controriforma sospettosa a qualsiasi deviazione dottrinale, si fronteggiano nel nuovo film di Alberto Fasulo. La vicenda è qui ricostruita sulla base dei verbali originali del processo e prendendo le distanze dallo studio, di Carlo Ginzburg, sullo stesso argomento. Ne Il formaggio e i vermi (atto di nascita di quella “microstoria” talora accostata un po’ forzatamente alla scuola de Les Annales per affinità più di campo che di metodi, e l’interesse per la cultura popolare), la storia del mugnaio autodidatta interessava come caso di studio sul rapporto tra la cultura “alta” e scritta e quella “bassa” e orale; sul modo in cui la prima si innesta sulle arcaiche permanenze della seconda, formando la cosmogonia personale, eterodossa (e dunque in odore di zolfo) di Domenico Scandella.
Nel film, invece, secondo le dichiarazioni dello stesso Fasulo, si trattava di dare corpo a un ambito impalpabile come la coscienza di Menocchio. Nel volto vigorosamente intagliato di Marcello Martini e in quelli altrettanto materici o più gentili (e tutti “antichi”, di lunga durata) degli altri non professionisti, si dà infatti corporea attualità a una lettera, e concretezza di vissuto a una testimonianza. Ecco allora l’eresia di Menocchio, del film come del suo protagonista: porre quali incarnazioni di verbo una materia contingente, riconoscere l’essere prossimo dell’umano al di là della storia.
Menocchio non nasconde ai suoi inquisitori di accordare un maggiore scrupolo proprio alla cura del prossimo, meno a sottigliezze dottrinali. Dubitando della verginità di Maria in quanto donna come tutte, ritenendo di poter parlare alla pari col Papa in quanto uomo, e credendo possibile e preferibile confessarsi a un albero e non a un prete, sapendo Dio presente – al più – nel vento, la teologia del mugnaio è fatta di immanenza, di cose incarnate. Ancora in prossimità, tutti stretti nei primi piani, gli interrogati rispondono agli inquisitori distogliendo gli occhi, portandoli in basso in un’umiltà che parla di dissimulazione, di paura per la complicità-prossimità ideale al mugnaio (o dell’eretica fedeltà all’humus-terra?). E, spesso privati di un controcampo a loro attribuibile, non esercitano che poco potere di sguardo di rimando sull’inquisitore, il cui scrutare si deve sopportare come la grande croce di legno (vuota, non a caso) che poi sono obbligati a costruire.
Dar corpo, si diceva, anche a mezzo della luce. La candela che nel buio scrive la sagoma di Menocchio imprigionato, con la sua intermittenza, pare conferire quasi una massa all’incertezza del mugnaio tra il sacrificare a un’idea o sacrificare l’idea nell’abiura. Lo sfarfallio fa pensare allo scrivere della luce nel cinema, la tonalità calda al disegnare volumi in chiaroscuro alla pittura del secolo (e quella successiva: Rembrandt o Gherardo Delle Notti). Entrambi sono invenzioni eretiche nel dare corpo e immanenza. Che è la possibilità scoperta nella figurazione rinascimentale, la rivoluzione (dapprima soprattutto italiana, poi europea) per cui spazio e luce non sono più astrazioni (l’oro trascendente degli sfondi, i volumi “prosciugati” di rilievo, scorcio, profondità), ma obbediscono a fisiche leggi di concretezza. I santi hanno una massa, i loro volti si trovano spesso in quelli contemporanei, e boschi, città, monti, sono gli ambienti in cui si muovono: è proprio il “parlare italiano” della pittura, l’aderire all’immanente, il frequentare la più prossima delle contingenze anche quando assume mito o storia sacra come soggetto. Ed è anche l’intuizione italiana del cinema come prossimo alla vita, del suo farsi nella concretezza.
D’altronde, «nella realtà non c’è l’albero: c’è il pero, il melo, il sambuco, il cactus, ma non c’è l’albero. Così il cinema non potrà “riprodurre” (scrivere) un albero: riprodurrà un pero, un melo, un sambuco, un cactus ma non un albero» (Pasolini 2008, p. 1553). Un campo che a rigore sarebbe astratto e intangibile, la coscienza di Menocchio, trova quindi corpo soprattutto in quello vivente della sua comunità, nella cui concreta situazione (e gesti, e parole) si dipinge quanto può formare la sua coscienza, e le forze – dubbi, paure, legami di solidarietà e prossimità – che in essa agiscono, ne sono emanazione evidente, forma e manifestazione sensibile.
Il manifestarsi alla luce della materia, l’esser corpo è proprio il gesto aurorale che inaugura il film, il suo venire al mondo come corpo, similmente al parto dell’animale che vi si mostra, e il suo costituirsi come inizio di racconto. Quello di almeno tre processi: uno intentato a Menocchio, l’altro a lui interno, tra coerente ostinazione e abiura, l’altro ancora a livello della costruzione del film stesso. In effetti, un film, per Fasulo – come già in Tir (2013) dove l’approccio da documentario innerva poi una costruzione narrativa – “si scopre facendolo, non prima”, e trovandone il corpo nella prossimità dei materiali, nel suo processarsi, anche magari deviando rispetto a una progettualità e scrittura di partenza.
Nella comunità di Menocchio ciascuno parla infatti secondo la particolarità delle proprie inflessioni e cadenze, in un italiano dialettizzato, talvolta in friulano: come avessero fatte proprie, rielaborate nell’assimilazione alla propria contingenza e incarnate, le parole. Opposte, quindi, nella loro pluralità, alla monolitica parola dell’ortodossia-logos ordinante e uniformante, ma anche a qualsiasi idea di dialogo sceneggiato e scritto assolutamente ferreo, normante, per quanto costruito sulla base degli atti del processo.
In Menocchio lo sguardo lavora a formare ereticamente dalla storia un mondo immanente, dove anche l’immagine cultuale di santi e vescovi negli affreschi che il protagonista si attarda a osservare prima dell’udienza definitiva, appare già screpolata, per il lavoro del tempo. Che è poi quello del cinema, del film, in questo parente prossimo della sua conterranea roccia carsica: materia e forza perennemente ridisegnante negli ipogei, lì dove Menocchio da solo si fa luce e si dibatte, dove lavorano gli elementi che nutrono la sua teologia fatta di buonsenso e quasi panteista. Cinema sive Natura.
Riferimenti bibliografici
F. Braudel, Storia, misura del mondo, Il Mulino, Bologna 1998.
R. De Gaetano, Cinema italiano: forme, identità, stili di vita, Pellegrini, Cosenza 2018.
C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Einaudi, Torino 1976.
P.P. Pasolini, Battute sul cinema, in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, vol. I, Mondadori, Milano 2008.