Perché l’eredità di Bernard Stiegler durerà nel tempo? Questa mi sembra la domanda giusta da porci, al di là delle celebrazioni e dei ricordi, per assumere su di noi nel modo giusto il lascito del suo pensiero. È il modo giusto non tanto perché così rendiamo giustizia al filosofo e al debito che abbiamo contratto nei suoi confronti. Se c’è un aspetto paradossale, e sicuramente marginale, della “mobilitazione totale” che secondo Maurizio Ferraris connota le forme di vita contemporanee, esso sta forse nel fatto che non c’è più modo di essere incompresi nella e dalla nostra società. Il sistema mette in movimento e ha bisogno di una tale quantità di dati, che il warholiano “quarto d’ora di celebrità” non è quasi più un dono fatto da quel soggetto impersonale che è appunto la società a questo o quello tra i suoi membri o a tutti. Il quarto d’ora di celebrità è diventato quasi una necessità, un vincolo di sistema: le prime pagine dei giornali, così come accadrà poi anche alle aperture dei telegiornali, si nutrono da più di un secolo di cibi che hanno un minimo di durata prima della scadenza: sono notizie a media, a volte lunga, conservazione.
Ne abbiamo rifatto esperienza con la pandemia: nei momenti peggiori di diffusione del virus, perfino la stabilità nella curva dei contagi – ancora n casi a fronti di n tamponi – aveva diritto allo statuto di notizia principale della giornata. Erano notizie senza novità. In esse ciò che appariva notevole era esattamente l’assenza di (buone) novelle: “niente di nuovo sul fronte occidentale”. Per la rete le cose stanno diversamente: per questo motivo la pandemia ha rappresentato forse un interessante caso di (momentaneo) arresto della “rimediazione” in atto di tutte le forme di comunicazione, intrattenimento e informazione da parte del nuovo-vecchio medium che è internet. Su internet i fatti possono arrivare ad avere lo statuto paradossale di notizie insieme eclatanti ed effimere. Non è il grande paradosso sul senso della vita o dell’essere: si tratta di micro-paradossi diffusi. Qualcosa può assurgere al rango di avvenire apocalittico del pianeta anche solo per pochi minuti.
Lo scrittore Don DeLillo aveva profetizzato l’avvento di un’era del genere quando descriveva Eric Packer, un giovane genio della finanza sull’orlo della bancarotta, che attraversa Manhattan sulla sua limousine e tenta di capire quale impercettibile concatenazione di cause fa sì che la sua speculazione su un’importante valuta asiatica stia andando contro le sue previsioni. Posto che esista una simile serie di concause. In un mondo siffatto, anche questo DeLillo lo coglie perfettamente, i guru, i maître à penser, i cattivi maestri, oggi gli influencer impegnati nel sociale o nella promozione della cultura, nascono e periscono con la stessa rapidità del meme virale. Per tale ragione non c’è spazio in questo mondo per l’incomprensione, per l’essere in ritardo o in anticipo sui tempi: tutti, prima o poi, saremo chiamati a dire la nostra opinione. Non ci sarà spazio per l’anonimato, nemmeno quello “intellettuale”: sarà, se avverrà, la realizzazione di una grande utopia democratica – o di una terribile distopia totalitaria.
Proprio per questo non occorre chiedersi perché un pensatore ha o non ha avuto fama e riconoscimento: conviene piuttosto domandarsi fino a che punto la sua esposizione mediatica ci ha permesso di cogliere il senso della sua interrogazione filosofica. Durante gli ultimi venticinque anni, quella di Stiegler è stata senza dubbio una tra le voci più ascoltate nel panorama filosofico contemporaneo. C’è stato un momento, credo, in cui è quasi sembrato essere l’ultimo rappresentante di una stagione di filosofi francesi impegnati da un lato nella decostruzione dei principali “filosofemi” della storia occidentale, o nella ricostruzione della loro genealogia, e dall’altro lato nella messa a rendita di questo lavoro ermeneutico nell’interpretazione del mondo moderno, nell’elaborazione di un’«ontologia dell’attualità», per dirlo con le parole di Foucault. Il rischio di questa impresa, generosa di libri e interventi, è quello di perdere di vista il centro del discorso, di fare del nostro filosofo di riferimento un pensatore-mondo che con la sua filosofia, come la mappa dell’impero di borgesiana memoria, replica a grandezza naturale l’intera estensione del territorio che si prefigge di esplorare. Vorrei provare a strappare l’eredità di Stiegler da questo rischio e non posso farlo che selezionando e forzando: non solo insisterò su una singola traccia nel pensiero di Stiegler; questo sarebbe il compito più facile. Mi assumerò la responsabilità di indicare una interlocuzione privilegiata nella sua riflessione, non per forza la più evidente né la più sottolineata dallo stesso Stiegler, e ne trarrò delle conclusioni non necessariamente in linea con quello che all’apparenza è l’esito di questa riflessione.
Il nucleo principale della riflessione di Stiegler è presto detto e credo ci siano pochi dubbi sulla sua centralità. Si tratta della tesi per cui possiamo concepire il soggetto umano capace di rappresentarsi la realtà solo a patto di mostrarne il debito verso tutte quelle tecnologie, che sono essenzialmente tecnologie della temporalità, che organizzano l’archiviazione e la conservazione dell’esperienza: si tratta insomma di quelle tecnologie che Stiegler, in opposizione all’anamnesis platonica, cioè al processo di risalimento dal singolo dato d’esperienza alla forma che ce lo rende intelligibile e dunque conoscibile, chiama ipomnesi. La scrittura è una simile ipomnesi, come aveva già chiarito Jacques Derrida, il maestro di Stiegler. Le immagini sono pure ipomnesi: dunque il cinema, la fotografia e oggi tutte le svariate applicazioni del digitale sono forme di “grammaticalizzazione del visibile”, o più propriamente di tutto ciò che nella nostra esperienza si lascia cogliere attraverso il vedere. Percezione, rappresentazione-ricordo e ipomnesi rimandano, nel linguaggio della fenomenologia husserliana che qui Stiegler adotta e rielabora, a tre diverse “ritenzioni”, tre prelievi dall’esperienza. Il punto dirimente per il filosofo francese è che, senza la ritenzione terziaria, cioè quella tecnica, il soggetto non sarebbe capace di formulare “protensioni”, ovvero ricostruzioni della realtà, ipotesi sulle cause dei fenomeni, predizioni sui possibili effetti, e nemmeno ovviamente tutte le costruzioni creative, che selezionano un pezzo di realtà e la modificano, necessarie alla sopravvivenza del genere umano.
Il nucleo filosofico appena ricordato è ciò che ha consentito a Stiegler di confrontarsi con un gran numero di altri paradigmi e autori (Simondon e Deleuze sull’individuazione, ad esempio), oltre che di teorie critiche sulla società contemporanea (Cary sull’espropriazione del tempo da parte delle tecnologie interattive). Tuttavia, a mio parere, il dialogo avviato da Stiegler che riserverà maggiori prospettive anche nel futuro, nel lavoro di riesame della sua filosofia, è quello che mette al centro della riflessione l’immaginazione trascendentale e quindi la questione dello schematismo. Si tratta dunque di un dialogo con il pensiero kantiano, che ha inaugurato nella modernità l’istanza del metodo trascendentale, cioè di un modo di praticare la filosofia che si dà per compito quello di risalire alle condizioni necessarie di un’esperienza che, pena la perdita della sua flagranza, contiene un ineliminabile elemento di contingenza. Lo schematismo riveste un ruolo strategico nel modo in cui la filosofia critica pensa il rapporto tra condizioni necessarie ed esperienza empirica. Lo schematismo è infatti quel lavoro dell’immagine che media tra i concetti puri dell’intelletto e i dati empirici, le “intuizioni” nel lessico kantiano: gli uni sarebbero vuoti senza quelle, le altre cieche senza quelli. Ma nella loro irriducibile eterogeneità hanno bisogno di un termine medio, gli schemi dell’immaginazione, per essere reciprocamente fungibili come forme, ossia come contenuti dell’esperienza.
Se parlo di un dialogo è perché non mi riferisco solo al confronto con un classico. La centralità di tale questione ha portato Stiegler a incontrare la riflessione del filosofo italiano Pietro Montani e l’ipotesi per cui lo schematismo che meglio si adatta all’interazione tecnica del soggetto con il suo ambiente non sia lo “schematismo oggettivo” della Critica della ragione pura. Nella prima Critica Kant pensa a un’esperienza già orientata da un’epistemologia che trova il suo compimento nella scienza moderna: in questo senso, Newton rappresenta un vero e proprio eroe dell’impresa critica kantiana. L’immaginazione deve limitarsi qui a fornire, per così dire, le infrastrutture cognitive che riempiono di contenuti i concetti di volta in volta più adatti a interpretare i fenomeni. L’esperienza dell’interazione tecnica manifesta però il bisogno di uno spettro assai più ampio di elementi costitutivi dell’esperienza. I fenomeni vanno qui considerati non solo per i profili “salienti” e per una loro conoscenza oggettiva, ma anche per i profili “sopravvenienti” che riguardano il nostro modo di esplorare l’ambiente che ci circonda, sperimentare le qualità delle cose che lo compongono ed eventualmente inventarne nuovi usi e connessioni originali con il complesso di tecnologie con cui entriamo in contatto con essi. Dati questi tratti di esplorazione, sperimentazione e creatività, si tratta pertanto di uno schematismo assai più prossimo al “libero schematismo” ipotizzato da Kant nella Critica della facoltà di giudizio come autentica trama riflessiva dell’esperienza estetica.
La convergenza tra un sapere altamente formalizzato com’è quello dell’informatica e la necessità, per implementarlo, di promuovere quasi-saperi informali ma altamente performanti è uno degli esempi più lampanti del carattere originario dell’esperienza tecno-estetica che dà forma ai modi dell’interattività tecnologica. È fuori di dubbio che, rispetto alla miriade di gadget e apparecchi mobili e fissi di ogni sorta, che costituiscono l’orizzonte dell’interattività tecnologica contemporanea, la risposta più adeguata alla domanda “come si usa un dispositivo?” passa attraverso la verifica critica. Si profila come egemone, per usare le parole di David Weinberger, un modello d’interazione fondato sull’«interoperabilità», di cui però l’istanza dello schematismo tecnico valorizza non tanto l’arbitrio sperimentale quanto la possibilità, man mano che la sperimentazione procede, di stabilire regole d’uso, cui corrisponde soprattutto una riqualificazione dei modelli di condivisione e di comunicazione vigenti: nell’esercizio di un libero schematismo dell’immaginazione ne va dell’ideale di una comunicabilità universale, il sensus communis kantiano, che costituisce la sola garanzia contro il rischio della stramberia genialoide. Il mondo dell’innovazione digitale è il vivaio, ma anche il cimitero, di tutte queste invenzioni, quelle autenticamente geniali e quelle stravaganti.
Il cinema – insieme alle altre forme d’uso dell’immagine già statuite come “arte”: si vede bene però fino a che punto una simile definizione perda qui di consistenza teorica – sembra trovare nuovi compiti in questo contesto. Non si tratta, credo, di precedere ogni possibile novità tecnologica, integrandola al suo interno. Si tratta piuttosto di ripensare il posto del soggetto che sente e conosce, in una parola che fa esperienza nel e del mondo, all’interno di questo nuovo orizzonte. Diversi casi esemplari vanno in questa direzione: il progetto Memofilm, nato dalla collaborazione tra l’Ospedale e la Cineteca di Bologna; il documentario Selfie di Agostino Ferrente; l’installazione Carne y Arena di Alejandro Iñárritu. Oltre naturalmente agli ultimi film di Jean-Luc Godard a partire dalle Histoire(s) du cinéma.
Ciò ci porta all’ipotesi che vorrei lanciare come idea di una futura produttività del lascito stiegleriano. Se così stanno le cose nel dominio tecnologico, questa nuova filosofia critica della tecnica sottolinea la centralità ma anche la fondamentale ambiguità dell’immagine. Nel lessico che Stiegler prende in prestito da Derrida, questa ambiguità porta il nome di pharmakon: le immagini, come già la scrittura, sono, o meglio possono essere, tanto la cura quanto il veleno di quella sorta di corpo che sono l’esperienza e il pensiero. Anche qui l’evidenza degli ultimi decenni ci viene in soccorso per fornire un immediato riscontro empirico al concetto di pharmakon: erano pharmaka, in senso venefico, le immagini delle atroci esecuzioni dei prigionieri di Daesh, le quali miravano a ridurre il conflitto a un gioco di appartenenza o di eliminazione dell’elemento estraneo; ma era un pharmakon anche l’immagine di Aylan Kurdi, la quale provocò un repentino ribaltamento delle politiche migratorie della cancelleria tedesca Merkel.
L’ipotesi che vorrei lanciare sul tappeto è che la stessa natura di pharmakon delle immagini denunci il fatto che esse non sono senz’altro il derivato delle tecnologie che le hanno create. Stiegler lo dice chiaramente: l’immagine-oggetto, quella che in inglese potremmo chiamare picture, e l’immagine mentale o interna, che chiameremmo piuttosto image in inglese, non coincidono. Uno dei compiti della filosofia critica, cioè di quella filosofia che mette al suo centro la questione dello schematismo, è quella di pensare la differenza tra questi due modi d’essere dell’immagine. In altre parole, l’immagine non è senz’altro la tecnica o un suo derivato diretto: è piuttosto il primo terreno di negoziazione tra l’ipomnesi tecnica e quella “anamnesi” che è la vita della mente nella sua indeterminata proiezione nell’orizzonte della conoscenza del mondo e di sé.
Concludendo, vorrei avanzare un’ipotesi a prima vista provocatoria: seguendo il filo del discorso di Stiegler, sorge il dubbio che, parafrasando un ben noto attacco heideggeriano, l’essenza dell’immagine non sia niente di tecnico. Questo aspetto paradossale sta emergendo oggi, nel momento in cui la tendenza dominante nella tecnica sta riguardando sempre di più lo sviluppo e l’implementazione di algoritmi. Gli algoritmi non raccolgono dati d’esperienza in immagini, a differenza dello schematismo umano, ma in formule; e tali formule non hanno la pretesa di interpretare questi dati, se interpretare significare comprendere e spiegare. Al contrario, gli algoritmi ottimizzano l’uso di questi dati allo scopo non di rappresentare ma di far funzionare il mondo. Il problema epistemologico deriva dal fatto che l’immagine del mondo che si fa il soggetto umano e la formula che pretende di far funzionare meglio quello stesso mondo non possono far altro che insistere sulla medesima realtà. Di più, se i dati necessari all’algoritmo per funzionare sono in larga misura il frutto dei gusti, delle preferenze, delle inclinazioni e delle opinioni di soggetti umani, prima ancora di confliggere, l’immagine e l’algoritmo si trovano intrecciati in una nuova forma di pharmakon ancora da chiarire. Purtroppo Bernard non potrà condividere con noi questo nuovo compito.
Riferimenti bibliografici
P. Montani, “Schematismo tecnico e immaginazione interattiva”, in “aut aut”, n. 371 (Bernard Stiegler: per una farmacologia della tecnica), 2016, pp. 90-104.
B. Stiegler, “L’immagine discreta”, in J. Derrida & B. Stiegler, Ecografie della televisione, Cortina, Milano 1997, pp. 163-184.
Id., Passare all’atto, Fazi, Roma 2005.
Id., Platone digitale, a cura di P. Vignola e F. Vitale, Mimesis, Milano 2015.
Id., La società automatica, Meltemi, Milano 2019.
Bernard Stiegler, Villebon-sur-Yvette, 1 aprile 1952 – Épineuil-le-Fleuriel, 5 agosto 2020.