Se in un film compare un asino non è affatto detto che il tema del film sia quell’asino, e tanto meno lo siano gli animali non umani in generale. Il film, ce ne dimentichiamo sempre, è un’opera di finzione, quello che vediamo non è il mondo, ma l’invenzione di un mondo. Così l’asino che compare in EO (o anche Hi-han, onomatopea del caratteristico verso asinino) del regista polacco Jerzy Skolimowski è un asino filmico, non un asino in carne e zoccoli. Non si tratta certo di un’osservazione originale, e tuttavia è il caso di ripeterla perché altrimenti di questo film rimarranno solo le immagini meno significative, e francamente ridondanti, come gli un po’ troppo insistiti primi piani degli occhi lacrimosi dell’asino o la scontata rappresentazione della cinica cattiveria degli esseri umani.

In effetti EO è un film interessante non tanto perché metta in mostra per l’ennesima volta la stucchevole contrapposizione fra umani cattivi e animali buoni (non serve un altro film per ricordarcela, ammesso che questa stessa contrapposizione abbia un senso), quanto perché – e nonostante l’ingombrante presenza dell’asino – mostra che cosa sia, propriamente, un mondo non-umano. Lo dice lo stesso Skolimowski quando, intervistato da Eddie Bertozzi per FilmTV, spiega come sia nato il film:

Quando con Ewa Piaskowska – mia moglie, co-sceneggiatrice e produttrice – abbiamo riflettuto su cosa fare per il nostro prossimo film, eravamo d’accordo di non volere una forma tradizionale, una narrazione che va dalla A alla Z, con in mezzo la presentazione ordinata dei personaggi e delle loro vicende. Volevamo rompere questo schema e abbiamo pensato non ci fosse nulla di meglio di un animale come protagonista, innanzitutto perché questa scelta ci avrebbe permesso di eliminare gran parte dei dialoghi.

Il mondo umano, al contrario, è quello della narrazione che ha un inizio e una fine (dalla A alla Z, appunto), cioè il mondo della razionalità e del linguaggio. Gli umani calcolano, ragionano e soprattutto parlano. Il mondo inumano, invece, vive senza calcoli né aspettative, e per questa ragione perché non ha altra scelta che accettare la vita che c’è, semplicemente non ha niente da dire sul mondo. Quindi sostanzialmente tace (è per questo che gli animali non parlano, non perché non sappiano farlo, ma perché sanno che il mondo è infinitamente più interessante di quello che se ne può dire).

Capiamo allora che il film di Skolimowski, forse malgrado le sue stesse intenzioni – nella già citata intervista racconta di quando, in un paesino siciliano, «notai finalmente un asinello, tutto raccolto in sé, in silenzio, assolutamente “altro”, con questi grandi occhi spalancati […]. Trovai quello sguardo malinconico estremamente coinvolgente» – mette in scena non tanto il mondo visto da un animale (che in realtà non smette di essere uno sguardo umano), quanto il mondo come potremmo vederlo se dismettessimo la nostra posizione umana. In questo senso EO è un film che prende sul serio la questione dell’antropocene, cioè l’epoca in cui l’umanità ha preso definitivamente coscienza del proprio impatto geologico sul pianeta terra. Non si tratta più di raccontare l’antropocene, piuttosto di immaginare un mondo post-antropocenico, ossia un mondo appunto inumano.

EO è allora un film inumano, o meglio, visto che a girarlo è stato un essere umano, un film intrinsecamente postumano, dal momento che mette in scena il mondo visto come lo potrebbe vedere un vivente non più (o non ancora) umano. In effetti le vicende dell’asino EO non seguono nessuna convenzione narrativa (nel film si susseguono una serie di eventi del tutto scollegati fra loro; una mancanza di connessioni che diventa sconcerto nelle sequenze con Isabelle Huppert, del tutto incomprensibili rispetto al resto della peraltro già esile trama del film): si tratta solo di incontri. Non c’è niente di più elementare di un incontro fra enti diversi, come l’asino e la ballerina del circo (Sandra Drzymalska), oppure quello fra i lupi e i cacciatori, o ancora quello fra l’asino e i cavalli nel camion che li avrebbe tutti portati al macello. Non c’è un unico senso che tenga insieme queste sequenze. Appunto, nel mondo inumano non esiste un senso unitario che faccia da collante fra i diversi eventi; gli incontri accadono, semplicemente. Come scrive Michel Serres in Lucrezio e l’origine della fisica:

Il mondo atomistico lucreziano è senza memoria […]. Secondo questa legge universale, nulla si crea e nulla si forma. Perché esista qualche cosa piuttosto che niente, occorre […] uno scarto […]. Ed è il clinamen. Allora si produce una connessione, una congiunzione. La turbolenza rimane stabile nella cateratta, per poco tempo, per molto tempo, per moltissimo tempo. Si mantiene come sistema aperto grazie al flusso a monte nel flusso a valle. Riceve atomi ed emette atomi. Si nutre e produce escrementi, scatola nera con inputs e outputs (Serres 1980, p. 157).

Il mondo degli incontri è «senza memoria», perché ogni incontro istituisce un nuovo assembramento temporaneo (non esiste durata assoluta nel mondo inumano), destinato prima o poi a sciogliersi per permettere il formarsi di un nuovo assembramento. Nel mondo inumano non è il passato che determina il futuro, perché la memoria – con la sua ostinazione per ciò che è stato – impedisce la formazione del nuovo. Da questa prospettiva un altro punto non riuscito del film è quando ascoltiamo fuori campo la “memoria” di EO che gli riporta alla mente le parole buone della ballerina del circo.

In questo modo l’asino non è più un asino, ma un essere umano, il vivente dei rimpianti e della nostalgia. Ma EO è un vivente inumano, non un essere umano senza parole. Il mondo inumano non sa che farsene della memoria. Le parti più riuscite del film, invece, sono quelle in cui l’asino si muove liberamente all’avventura nel mondo così come si muove per il mondo il vento o una nuvola. Qui non c’è alcun sentimentalismo né alcun bisogno di umanizzare l’animale. Finalmente, oltre il giudizio morale e sentimentale, sentiamo la vita che si vive.

In effetti EO mostra quanto sia difficile, per uno sguardo umano, riuscire a vedere un animale semplicemente come un animale, cioè un vivente non umano. In questo senso la parti più riuscite del film (fra cui non rientra il commento sonoro, sempre troppo invadente e tendenzioso) sono quelle in cui l’occhio inumano della macchina da ripresa (sopravanzando quindi quello troppo umano del regista) coglie il formarsi altrettanto inumano degli assembramenti naturali, in particolare gli incontri fra altri viventi (insetti, in particolare). Qui siamo oltre l’antropocene, e quindi siamo anche oltre l’antropomorfismo che è probabilmente il limite principale di questo film.

Per questo occorrerebbe provare a vedere EO non come la storia di un asino – in fondo una storia non più terribile di una qualunque vita umana – bensì come il formarsi stesso dell’inumano processo della vita. Da questo punto di vista – nonostante tutti (lo stesso Skolimowski) considerino Au hasard Balthazar (1966) l’antecedente diretto di questo film – in realtà il film di Bresson non vuole umanizzare l’asino, semmai vuole animalizzare Marie (Anne Wiazemsky). In entrambi i casi si tratta di vite, appunto, alla deriva (au hasard, a caso), cioè di vite inumane. Lo mostra la celebre scena finale del film di Bresson, l’asino morente circondato dal gregge di pecore, puro incontro animale. La vita, finalmente.

Riferimenti bibliografici
M. Serres, Lucrezio e l’origine della fisica, Sellerio, Palermo 1980.

EO. Regia: Jerzy Skolimowski; sceneggiatura: Ewa Piaskowska, Jerzy Skolimowski; fotografia: Michał Dymek, Paweł Edelman, Michał Englert; montaggio: Agnieszka Glińska; musiche: Paweł Mykietyn; interpreti: Sandra Drzymalska, Lorenzo Zurzolo, Mateusz Kościukiewicz, Isabelle Huppert; produzione: Skopia Film, Alien Films; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Polonia, Italia; durata: 88’; anno: 2022.

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