Catturato, ritoccato, condiviso, con o senza filtro, il selfie è diventato l’emblema delle derive narcisistiche, voyeuristiche ed esibizioniste di cui vengono spesso accusate le generazioni dei digital natives e più in generale le forme della comunicazione digitale. Questa estemporanea traccia fotografica del sé tende ad essere interpretata come affermazione identitaria o come spia di quel processo di vetrinizzazione che caratterizzerebbe l’individualismo della società contemporanea. Si tratta però solamente di un aspetto molto superficiale del fenomeno che mette in campo un approccio patologico, come lo definisce Giovanna Borradori, in quanto tende a leggere il selfie unicamente come sintomo di un desiderio di apparire e di un compulsivo attaccamento alla visibilità e al riconoscimento.
In Emozioni dell’intelligenza. Un percorso nel sensorio digitale, Pietro Montani ribalta questa convinzione e fa invece di questo fenomeno mediale il paradigma di un mutamento ontologico, oltre che antropologico. Occorre portare la nostra attenzione sulle condizioni di produzione, ovvero sul gesto corporeo che implica questa forma espressiva. Al selfie si lega infatti un preciso modo di situarsi nel mondo visibile, implica cioè l’essere iniziati ad un singolare embodiment spaziale, segnato da una caratteristica visione diametrale. Diversamente da quando puntiamo l’obiettivo verso il mondo stando dietro la macchina fotografica, se utilizziamo la reverse camera dei nostri smartphone per scattare un selfie operiamo un ribaltamento di 180° e andiamo così a posizionarci nel campo visibile: dalla parte dell’immagine e non di fronte ad essa. In altri termini, lo sguardo di chi scatta un selfie si sintonizza con quel movimento interno all’essere che Merleau-Ponty ha definito come una reversibilità tra vedente e visibile, sempre sul punto di invertirsi. Un modo di abitare il mondo visibile, intimamente assimilato dalla tecnologia, rispetto a cui il movimento di “condivisione” non è allora altro che un prolungamento, un modo di «corrispondere al gioco della reversibilità».
La particolare forma di rispecchiamento – solo apparentemente autoreferenziale – che ha luogo nel selfie, è uno dei fenomeni in cui emerge la componente riflessiva ed elaborativa che per Montani sono da considerare elementi strutturali del «sensorio digitale». Con questo, il filosofo intende scardinare l’idea, implicita in tanta parte della riflessione critica sulla medialità e virtualità contemporanea, che le pratiche digitali siano fondamentalmente smaterializzate e per questo disincarnate. Al contrario, le forme di creatività emergenti nei nuovi linguaggi intermediali possono essere comprese solo se le leggiamo come forme del nostro commercio con il sensibile. Per comprendere le forme espressive del web interattivo, non possiamo partire dalle categorie che sono andate elaborandosi nella modernità, occorre elaborare degli strumenti semiotico-ermeneutici in grado di rendere conto del carattere sincretico, ibrido, rimescolato della medialità contemporanea. Montani ce ne fornisce alcuni decisivi.
L’accesso, inaugurato dal web 2.0, ad un repertorio di immagini e testi manipolabili, combinabili, ma anche, direbbe Kevin Kelly, riavvolgibili, dà luogo ad una «scrittura estesa», una scrittura cioè – in senso forte – che implica una costante integrazione di linguistico e visivo – ma anche, a tendere, multisensoriale –, uno scrivere per immagini (Bilderschrift) che è anche un pensare per immagini. Ora, le pratiche creative di riuso e di rimontaggio di questa scrittura estesa si esprimono attraverso quelle che Montani, riprendendo Vygotskij, definisce delle «forme brevi»: la nuova forma espressiva sincretica dà luogo a una scrittura aperta e stratificata – di cui è emblema tanto l’audiovisivo quanto l’ipertesto –, ma questa stratificazione si esprime attraverso delle forme condensate.
Allora, la concisione che caratterizza la comunicazione contemporanea, lungi dall’essere solamente il sintomo di un ecosistema mediale ancora “giovane” e che non ha raggiunto una piena maturità espressiva, è invece una caratteristica intrinseca della scrittura estesa. La brevità qui non rimanda a una superficialità, secondo cui spesso si tende frettolosamente a classificarla, al contrario si tratta di forme compositive che richiedono al lettore una precisa prestazione estetica, non per questo meno complessa – basti pensare alla forma dell’aforisma o agli haiku della tradizione giapponese.
La forma breve non solo esige uno specifico processo di elaborazione da parte del suo fruitore, ma si collega anche ad una particolare tonalità emotiva, che, in maniera simile all’elaborazione propria del lavoro del lutto descritta da Freud, implica un’emozione ritardata, avviene cioè in un differimento temporale. Le forme brevi sono attraversate da una forza dialettica, che – come nello specifico rimescolamento di parole e immagini che si trovano a coesistere in un meme o nel caso del video Tiktok di Feroza Aziz divenuto celebre – si traduce in una sorta di “catarsi” abbreviata. Ecco che il ribaltamento spaziale operato dal selfie trova così un contraltare temporale in questa modalità riflessiva differita, quella cioè di un après coup in cui solamente diviene possibile una riappropriazione autoironica.
Questa funzione critica e “distanziante” inerente ai media digitali – di cui l’emergenza della pandemia ha disvelato un ulteriore aspetto – è una delle incisive brecce che Montani apre per la nostra comprensione del sensorio digitale. È proprio in questa modalità differita e in questa forma di distacco che può esercitarsi quell’allenamento dei sensi, quella fondamentale operazione di «training», direbbe Benjamin, che accompagna la trasformazione dell’apparato percettivo umano, in cui risiede la funzione sociale dell’arte. A questo si collega un’altra delle molte tesi che si intrecciano in Emozioni dell’intelligenza. Montani procede, cinematograficamente, per zoom inverso, portandoci dall’analisi di alcuni significativi studi di caso, fino ad interrogare il processo di interiorizzazione della scrittura estesa e le condizioni di possibilità del farsi tecno-estetico dell’umano.
Le pratiche emergenti della medialità contemporanea pongono infatti le premesse per una «rivoluzione sensoriale». In maniera analoga alla riconfigurazione dell’esperienza inaugurata dalla scrittura fonetica e più tardi dalla stampa a caratteri mobili, o ancora dal cinema, poco più di un secolo fa, la scrittura estesa mette in atto la costruzione di un sapere prassico che ha già iniziato a rimodellare la mente incarnata. Ma come? In che modo avviene questo processo di riconfigurazione reciproca? È nella mediazione immaginativa, in atto in queste pratiche, che possiamo individuare la radice stessa dell’interazione tecnica e materiale con l’ambiente, articolata dalle teorie della mente estesa e in particolare dal modello del material engagement.
Montani propone di ricomprendere la teoria formulata da Colin Renfrew e Lambros Malafouris proprio a partire dall’immaginazione interattiva, da intendere come fondamentale stoffa della mediazione dei processi cognitivi. Il material engagement descrive l’interdipendenza tra mente incarnata e ambiente come processo in cui le competenze cognitive messe in campo nell’interazione con la materia sensibile sono a loro volta rimodellate dall’interazione con essa e in particolare con gli artefatti tecnici. Ora, per Montani, è attraverso il lavoro, ad un tempo ricettivo e creativo, dell’immaginazione – nella sua genealogia kantiana – che l’umano è coinvolto nel movimento di una reciproca implicazione materiale con il sensibile. Certo la materia degli artefatti digitali non è quella di un supporto tangibile, ma è piuttosto da ricercare, non meno della tecnica della scrittura, sul piano semiotico – eppure non è per questo priva, come sappiamo dalla nostra familiarità con gli schermi, di una componente aptico/tattile.
È proprio l’elemento di distanziamento, evocato più sopra, che costituisce il perno per una comprensione di questo nesso tra mediazione immaginativa e material engagement. La funzione distanziante – in cui convergono tanto il débrayage semiotico quanto il disinteresse kantiano – è infatti ciò che consente l’attivazione di uno sdoppiamento, di una dimensione riflettente che è propria dell’immaginazione in quanto capacità di lavorare in assenza di referenti osservabili. L’immaginazione interattiva traduce allora il modello del material engagement in quanto descrive, sul piano ontologico, un movimento a doppio senso tra l’essere umano e il sensibile: da un lato, la sua azione si esercita in maniera ricettiva come «ascolto attento» delle affordances presenti nella materia, dall’altro secondo una modalità «suscettiva», che, provocando il mondo-ambiente, ne suscita di nuove, anticipa soluzioni e disvela pieghe inaspettate del reale.
Qui si situa l’operazione decisiva del libro: interrogare le conseguenze ontologiche del ripensamento dell’agentività della materia. Nel dialogare con il trend contemporaneo del nonhuman turn – verso cui sembrano convergere gli sforzi messi in campo dalle scienze umane e sociali per elaborare un pensiero anti-antropocentrico, dall’actor network theory alla mente estesa, dall’antropologia dell’inorganico all’archeologia cognitiva – Montani non assume semplicemente le tesi di un rinnovato animismo e mette invece a fuoco il divenire dell’umano nella sua implicazione con l’ambiente.
A partire da questa mediazione, a un tempo interattiva e distaccata, dell’immaginazione, si articola così il gesto di una presa di distanza dalla materia che solo consente di veder nascere in essa delle potenzialità e virtualità impreviste. È la funzione euristica di un gesto pregno di conseguenze messa in scena da Kubrick nella sequenza, celeberrima, di 2001: Odissea nello spazio (1968), che descrive il momento inaugurale della creatività tecnica – riferimento assente nel testo di Montani ma che inevitabilmente vi dialoga in fuori campo. Come mostra il gesto della scimmia umanoide (che, ricordiamolo, proprio a partire da un inedito mimare è in grado di disvelare le affordances presenti nella materia dell’osso), l’essere umano, in quanto essere che si rapporta al mondo attraverso una mediazione immaginativa, è quell’essere per cui le cose non sono solamente quello che sono. Per questo la materia non è mai solamente inerte, ma già percorsa dalle linee di forza secondo cui la immaginiamo e, forse – perché l’antropomorfismo deve anche sostare in questo limite misterioso – essa ci immagina.
Riferimenti bibliografici
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Pietro Montani, Emozioni dell’intelligenza: Un percorso nel sensorio digitale, Meltemi, Roma 2020.