La cornucopia discorsiva del cinema di Baz Luhrmann ingombra, satura, soffoca per due ore e quaranta minuti lo spazio storico di Elvis, fino a quando il protagonista, esausto, muore. Per Luhrmann non esiste realtà che non si debba virgolettare, né uno spazio che non abbia bisogno di un filler discorsivo: la messa in scena, per il regista di Moulin Rouge!, è sempre una messa tra virgolette del reale, non esiste nulla al di fuori dello spettacolo. La grafica vintage segnala ogni location e ogni spostamento, il montaggio veloce e serrato con artifici altrettanto nostalgici come lo split-screen aggrega segmenti di aneddotica biografica, il campo sonoro si riempie di musica dell’epoca e del presente in un lunghissimo continuous mix, alla ricerca di una simultaneità tutta epidermica ed emotiva. Tanta opulenza stilistica, però, si appoggia a una dorsale narrativa fondata su due convenzioni molto canoniche: la periodizzazione della biografia di Elvis e la struttura narrativa del musical biopic rags-to-riches.
Per quanto riguarda la periodizzazione, è invalso l’uso di suddividere la parabola artistica di Elvis in tre rami: gli anni di Memphis, con la linea ascendente che va dagli esordi fino all’espletamento del servizio militare nel biennio 1958-1960; gli anni di Hollywood, climax della popolarità del brand Presley fino all’ultimo film realizzato nel 1969; e infine gli anni di Las Vegas, caratterizzati da un’interminabile serie di concerti presso l’International Hotel che si interrompe soltanto alla morte, nel 1977. Il film di Luhrmann aderisce a questo schema e lo asseconda optando per una struttura temporale lineare; sceglie però di non indugiare troppo sul periodo Memphis e di sorvolare quasi del tutto sul periodo Hollywood, concentrandosi abbondantemente sul periodo Vegas, almeno in questa prima versione theatrical (ne esiste una da quattro ore per lo sfruttamento platform).
Per quanto attiene alla struttura narrativa, ciò che più interessa a Luhrmann, usando le sue stesse parole, è “il ragazzo in croce”, ma non tanto nel senso cristologico di un giovane eroe che fa miracoli e cambia il modo di vivere delle masse, e poi finisce sul monte Calvario. In realtà, il focus tematico del film è lo stesso della maggior parte dei popular music biopic: il contrasto tra l’artista di talento e l’industria dell’intrattenimento che lo mette alla catena di montaggio, lo spreme e poi lo getta via. “Nei music biopics è l’industria”, spiegano Lee Marshall e Isabel Kongsgaard, “che riduce la creatività dell’artista o forza la nuova star ad andare in tour e fare sempre più concerti”. Luhrmann impernia il film proprio su questa convenzione, assegnando al Colonnello Parker interpretato da Tom Hanks il ruolo luciferino che peraltro tutti i biografi gli riconoscono. La figura diabolica, senza talento, invidiosa della giovinezza e della classe cristallina del protagonista ricorda molto il Salieri del biopic mozartiano di Miloš Forman; non a caso, proprio come in Amadeus, anche in Elvis la voce narrante è proprio quella dell’antagonista.
Anche in questo senso si comprende meglio l’esclusione dell’Elvis di Hollywood, che rientra meno nello schema narrativo convenzionale; e si spiega l’insistenza sulla forza tellurica dell’Elvis di Memphis messa in tensione con il malinconico crepuscolo di Vegas. Dal periodo di Memphis, Luhrmann tira fuori alcune buone sequenze che danno concretezza alla nota identificazione di Elvis con la musica e l’estetica afroamericane di Beale Street; non fa altrettanto con l’edificazione di Graceland, la Versailles di Presley, che scorre via nella sintassi febbrile del film. Dal periodo di Las Vegas vengono invece i due momenti più potenti e riusciti di messa in scena che, in perfetta coerenza con l’assetto citazionista, sono due remake di celeberrime performance allestite per il medium televisivo una e per l’International Hotel l’altra.
Lo speciale televisivo della NBC del 1969 è un evento universalmente noto come Comeback e gode di una certa sopravvalutazione a cui il film di Luhrmann si accoda, sempre per riproporre la contrapposizione tra Elvis che vuole l’arte e Parker che vuole mettergli un maglione con le renne e fargli cantare una canzone natalizia. Secondo John Robertson, che a Elvis ha dedicato un bel libro sulla monumentale discografia presleyana, «riguardandolo con calma e animo imparziale, lo special televisivo non fu nulla di rivoluzionario. Elvis si destreggiò in un paio di numeri ben studiati, cantò qualche gospel, se ne stette al centro di un ring da pugilato con un po’ di vecchi amici e giocherellò con i suoi grandi successi del passato. Lo show si chiuse con una messinscena in cui si invocavano pace e tolleranza universale. Niente di che». Luhrmann però è molto abile nell’estrarre dallo special i passaggi più iconici (il giubbotto di pelle, la celebre scenografia con le luminarie rosse) e drammaturgicamente funziona molto bene il backstage con le tensioni fra i dirigenti del network che si aspettano un inoffensivo speciale natalizio e i produttori capelloni che vogliono dare una chance al vero Elvis.
L’altro scatto in avanti del film è, come si diceva, l’esecuzione di Suspicious Minds al concerto di mezzanotte dell’International Hotel di Las Vegas, il 12 agosto 1970. Lo show fu interamente ripreso da una troupe che aveva come direttore della fotografia Lucien Ballard, il DOP di grandi western come Il mucchio selvaggio e La ballata di Cable Hogue, e ne venne fuori un documentario rilasciato alla fine del 1970, intitolato Elvis: That’s the Way It Is. La performance di Suspicious Minds è una gioia per gli occhi e le orecchie di ogni autentico appassionato di popular music: l’artista è esattamente dove desidera essere, la sua danza selvaggia è irrefrenabile, il suo darsi al pubblico è totale.
Qui Luhrmann fa un calco del film del 1970, con la collaborazione del mimetico attore Austin Butler, attento alla riproduzione di ogni singolo gesto osservato sullo spartito visivo; ed è questo il momento dell’affermazione del tema del film, affidato ai primi versi della canzone: «We’re caught in a trap / I can’t walk out». Questo semplice quanto astuto calco di un documento esistente sarebbe il momento più alto del film, se il finale non ci regalasse una delle ultime esibizioni dal vivo documentate di Elvis, a Pershing in Nebraska il 19 giugno 1977, quando esegue Unchained Melody: qui Luhrmann concede la scena al vero Elvis, e il Re si ruba il film e spazza via in meno di un minuto tutto il resto, gettando in terra la valigetta dei trucchi di Luhrmann che, in fondo, fa sembrare il film una produzione del Colonnello Parker.
Riferimenti bibliografici
J. Marshall, I. Kongsgaard, Representing popular music stardom on screen: the popular music biopic, “Celebrity Studies”, vol. III, n. 3, 2012.
L. Robertson, Elvis. La musica e il regno, Arcana, Roma 2014.
Elvis. Regia: Baz Luhrmann; sceneggiatura: Baz Luhrmann, Sam Bromell, Craig Pearce, Jeremy Doner; montaggio: Matt Villa, Jonathan Redmond; fotografia: Mandy Walker; musiche: Elliott Wheeler; interpreti: Austin Butler, Chaydon Jay, Tom Hanks, Helen Thomson, Richard Roxburgh, Olivia DeJonge, Luke Bracey, Natasha Bassett, David Wenham, Kelvin Harrison Jr., Xavier Samuel, Kodi Smit-McPhee, Leon Ford, Kate Mulvany, Josh McConville, Dacre Montgomery; produzione: Bazmark Films, Roadshow Entertainment, The Jackal Group, Whalerock Industries; distribuzione: Warner Bros; origine: Stati Uniti, Australia; durata: 159’; anno: 2022.