Il sogno e la dipendenza

di CHIARA SCARLATO

Elegia americana di Ron Howard.

La questione della dipendenza è al centro di Elegia americana: nel passaggio dal libro di J.D. Vance (2016) all’adattamento cinematografico di Ron Howard, riusciamo a percepire quanto questo tema sia cruciale nell’immaginario comune americano. Sicuramente più di quanto possa esserlo la controversa integrazione della comunità di origine scozzese e irlandese all’interno del tessuto sociale e produttivo degli Stati Uniti. Per questo, prima di considerare i motivi per i quali la vita di J.D. Vance sia esemplare di un certo modo di incarnare il sogno americano attraverso il riscatto dei sacrifici compiuti dalle generazioni immediatamente precedenti, occorre riflettere sul senso della dipendenza, adottando una prospettiva più generale con lo scopo di mostrare che non si tratta semplicemente di una forma di assuefazione, ma anche di una soggezione psicologica nei confronti di persone e oggetti, ambienti e situazioni.

Addirittura, si potrebbe affermare che non si vive senza essere dipendenti, perché è questo il sentimento che ci rende parte di una comunità e che, in fondo, ci spinge a stringere legami e a entrare in contatto con una realtà in cui possiamo sentirci riconosciuti dagli altri. Siamo dipendenti dell’istituzione per la quale lavoriamo; delle decisioni che prendiamo e non prendiamo; del sistema culturale che ci viene dato in dote con la nascita. Dipendiamo dai giudizi e dalle convenzioni, dagli organi e dal tempo, dall’agenda e dall’informazione. Lo stesso linguaggio è una forma di interdipendenza di cui noi siamo detentori instabili e designati e, forse, è per questa ragione che – con l’illusione di distruggere la rete – non abbiamo fatto altro che ampliarla, al punto tale che ora “essere dipendenti” è un’espressione ambigua che ci qualifica come una parte del sistema al quale siamo sottomessi.

Nel caso di Vance – per tutti, J.D. –, si tratta di una dipendenza nei confronti di una costellazione familiare che si impone con forza attraverso gesti e regole, azioni e punizioni: tutto quello che succede all’interno della propria casa deve essere custodito nello spazio domestico. Ed è qui che si crea un rapporto familiare insano, perché la chiusura nei confronti del mondo esterno provoca una profonda infelicità dalla quale sarà sempre più difficile emanciparsi se non attraverso un processo di allontanamento preventivo dai propri affetti. In Elegia americana, Howard trascura questo aspetto che, al contrario, viene minuziosamente descritto da Vance nel suo saggio, in costante rapporto al processo che ha portato la maggior parte della comunità hillbilly a decidere di abbandonare la propria terra di origine e di non tornarci più, nonostante la resistenza a essere accettati nei nuovi contesti sociali.

In questa rilettura, Elegia americana diventa il racconto del sogno americano che viene incarnato da J.D. (Gabriel Basso, Owen Asztalos), un ragazzo che, dopo essere stato disconosciuto dal padre naturale, passa da un cognome all’altro (ne contiamo almeno tre, oltre al cambio del secondo nome), ha una serie di legami che non riesce a definire (i fratellastri acquisiti a seguito di un matrimonio continuano a essere tali anche dopo il divorzio?), viene educato dalla nonna che minaccia di investire i suoi amici fannulloni e che si rivolge a lui con toni bruschi, pur volendogli un gran bene. Un ragazzo che, nonostante tutto, si arruola nei Marines e parte per l’Iraq, poi riesce a frequentare il College in Ohio con ottimi risultati e a essere ammesso al corso in giurisprudenza della Yale. La morale è piuttosto chiara: il sogno esiste ed è più forte di tutte le condizioni avverse perché l’America è grande. Soprattutto per questo aspetto il libro è stato letto, alla sua uscita nel 2016, come una testimonianza concreta dello stato emotivo del proletariato bianco – deluso dopo essere stato sfruttato –, cioè di quella percentuale di votanti che ha contribuito in maniera determinante all’elezione di Trump. È una vittoria che si è radicata in un contesto di pregiudizi dominato da una forte connotazione religiosa: le fabbriche chiudono e vengono delocalizzate, gli agglomerati urbani che si erano sviluppati perdono il rispettivo centro diventando luoghi di degrado. Restano il dolore e lo straniamento soltanto, come mostra la vicenda dei Vance.

C’è una scena (quasi identica nel libro e nel film) che indica quanto il meccanismo disfunzionale diventi pericolosamente normale nella famiglia di J.D., tramandandosi addirittura di generazione in generazione. La madre di J.D. – Bev (Amy Adams) – ha forti problemi di dipendenza, problemi che sono la causa di scatti di rabbia e ira, di alcuni episodi di autolesionismo e di una costante violenza psicologica nei confronti dei figli. Malgrado l’accettazione di un percorso di disintossicazione, una mattina Bev raggiunge J.D. a casa della nonna (Glenn Close) per chiedergli un campione pulito di urina. Il ragazzo si rifiuta, inveisce contro la madre e accusa la nonna di non aver mai preso una posizione decisa nei confronti della figlia, ma la nonna trova in qualche modo le parole per calmarlo e convincerlo ad aiutare Bev: «Lo so che non va bene, tesoro. Ma è tua madre ed è mia figlia. E forse, se l’aiutiamo stavolta, alla fine imparerà la lezione» (Vance 2017, p. 130). È un circolo chiuso in cui i figli coprono gli errori dei genitori, proprio come farà J.D. decidendo di andare in soccorso della sorella Lindsay (Haley Bennett) quando lei gli comunica che la madre è ricoverata in ospedale per un’overdose da eroina e decide di lasciare tutto, nonostante un imminente e importante colloquio di lavoro.

Tentando di risolvere la situazione, si ritrova coinvolto in quella vita dalla quale non potrà mai completamente liberarsi: dopo aver cercato di convincere Bev a disintossicarsi, la accompagna in un motel e la sorprende con una siringa nel polpaccio, riuscendo ad estrarla prima che la sostanza sia iniettata: “La famiglia è l’unica cosa che conta in questo dannato mondo”. Il monito della nonna continua a risuonare nella mente di J.D., anche se ora occupa una posizione diversa: non si tratta più di una sottomissione a un sistema di relazioni, quanto di una scelta che viene emblematicamente rappresentata dalle parole che J.D. rivolge alla madre, chiedendole di lasciarlo andare perché da lì non avrebbe potuto salvare nessuno. Ci troviamo di fronte a due modi opposti di reagire al dolore e alla dipendenza: è uno schema classico in cui le parti si invertono, il bambino cresce e diventa genitore della sua stessa madre. Ma non è soltanto questo.

Pur essendo nato in Ohio, J.D. si è sentito a casa soltanto quando tornava a Jackson, sui monti Appalachi, nel luogo che i nonni materni avevano abbandonato alcuni decenni prima percorrendo la Hillbilly Highway, la Route 23 sulla quale si imparavano le “tre R” sbagliate, come viene denunciato da Dwight Yoakam nella sua canzone sull’emigrazione, in cui le canoniche «Reading, Writing, Arithmetic» vengono sostituite da Readin’, Rightin’, Route 23 (1986). «Pensavano che saper leggere, saper scrivere e percorrere la Route 23 li avrebbe portati al benessere che non avevano mai conosciuto. Non sapevano che la vecchia superstrada li avrebbe portati in un mondo di infelicità» (Vance 2017, p. 42): è questo il passo della canzone di Yoakam che viene citato da Vance per descrivere il misto di aspettativa e di dolore che sarebbe diventato il marchio della sua famiglia.

Il legame tra il dolore e la dipendenza è piuttosto ricorrente nella letteratura americana contemporanea, come nel racconto Il pallone (1968) di Donald Barthelme in cui il sentimento di privazione prende le forme di un pallone aerostatico che invade tutti gli spazi della città; nelle storie raccontate da Kathy Homes ne La sicurezza degli oggetti (1990) in cui ogni cosa esercita una forma di dominio nei confronti di chi lo utilizza; infine, nel romanzo Infinite Jest (1996) di David Foster Wallace in cui la dipendenza è intrinseca alla natura umana stessa. Poi, c’è la storia vera di un hillbilly in cui la città non esiste, gli oggetti vengono scagliati per colpire persone, la dipendenza è quanto più si avvicina alla postura umana. Ci sono le foto di famiglia che passano in carrellata all’inizio del film e, alla fine, guardiamo i ritratti reali dei protagonisti, accompagnati dalla classica didascalia che ci racconta “come è andata a finire”. Tuttavia, per un naturale meccanismo di attribuzione, tendiamo ad associare la storia dei Vance al genere fiction e non a quello di un memoir, come pure lascia intendere il sottotitolo (A Memoir of a Family and Culture in Crisis). Sarà perché, dalla Pastorale americana di Philip Roth all’elegia di J.D., il sogno resta sempre lo stesso. Ed è sempre più distante di quanto si riesca a immaginare.

Riferimenti bibliografici
AA.VV., “Fata Morgana”, n. 40, Stati Uniti d’America, 2020.
D. Barthelme, Atti innaturali, pratiche innominabili, minimum fax, Roma 2005.
L. Briasco, a cura di, Americana. Libri, autori e storie dell’America contemporanea, minimum fax, Roma 20202.
A.M. Homes, La sicurezza degli oggetti, minimum fax, Roma 2001.
P. Roth, Pastorale americana, Einaudi, Torino 1998.
J.D. Vance, Elegia americana, Garzanti, Milano 2017.
D.F. Wallace, Infinite Jest, Einaudi, Torino 2006.

Elegia americana (Hillbilly Elegy). Regia: Ron Howard; sceneggiatura: Vanessa Taylor; fotografia: Maryse Alberti; montaggio: James D. Wilcox; musiche: Hans Zimmer & David Fleming; interpreti: Amy Adams, Glenn Close, Gabriel Basso, Haley Bennett, Freida Pinto, Bo Hopkins, Owen Asztalos; produzione: Imagine Entertainment; distribuzione: Netflix; origine: Stati Uniti d’America; durata: 115′.

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