Dall’uscita del primo capitolo de Gli Incredibili a quella, oggi, del suo sequel, diretto sempre da Brad Bird, sono trascorsi ben quattordici anni. Molti eventi sono accaduti, fuori e dentro la Pixar. Qualcosa è cambiato, qualcos’altro forse no. Gli Stati Uniti dell’epoca, ad esempio, sotto la presidenza di George W. Bush erano un paese non troppo diverso da quello attuale. Ancora fortemente traumatizzati dalla ferita dell’11 settembre, erano una nazione che, come ai tempi di Ronald Reagan, cercava in tutti i modi di restituire nel mondo un’immagine di sé forte, muscolosa, “maschia”. Proprio come quella che, nell’America presente, Donald Trump ha voluto rivendicare fin dal suo insediamento. Oggi come ieri, tuttavia, l’immaginario cinematografico d’oltreoceano sembra, almeno in parte, proporre immagini maschili non propriamente ritagliate su tale stereotipo. È anzi già dagli anni ’90 che «l’eroe di Hollywood pompato di testosterone, muscoloso» ha cominciato a sgonfiarsi, lasciando progressivamente il suo posto a un nuovo tipo di protagonista, «felice tanto nell’obbedire quanto nel comandare, o nel non scendere mai dal divano» (Yabroff 2007).

Ebbene, Gli incredibili 2, con i nuovi modelli di gender di cui si fa promotore, suggella l’avvento di questa “soft masculinity” tramite la figura di Bob Parr che, volente o nolente, si ritrova al punto di arrivo di quel vero e proprio processo di «evirazione figurativa» (Gillam e Wooden 2008) intrapreso già nel primo capitolo. Tale nuovo prototipo di mascolinità – riguardante anche altri protagonisti pixariani (dal Buzz Lightyear di Toy Story al Saetta McQueen di Cars) e fondato sull’abbandono dell’individualismo a favore dell’apertura nei confronti della comunità – nell’ultima opera dello studio californiano non può che risultare l’altra faccia della centralità conquistata dalla figura femminile: nella fattispecie quella di Helen Parr, vera e propria (super)eroina di un film che, in questa prospettiva, finisce per assumere una valenza squisitamente politica. Pur concepito diverso tempo prima dell’esplosione di quello scandalo delle molestie sessuali che ha costretto lo stesso John Lasseter a lasciare il comando creativo dei Pixar e dei Disney Animation Studios, Gli Incredibili 2 è infatti già stato da più parti salutato come incarnazione cartoonistica dello spirito #MeToo.

Ora dunque i superpoteri di Elastigirl hanno finalmente l’opportunità di esprimersi pienamente, rompendo definitivamente i confini di quegli archetipi familiari in cui in fondo restavano ancora parzialmente relegati nel primo film. Adesso le sue straordinarie doti di flessibilità non sono più soltanto quelle della pur moderna donna-moglie-madre-lavoratrice, ma diventano lo strumento attraverso il quale Helen può affermare pienamente il proprio protagonismo, dentro e fuori casa, al di là di quella condizione. Allo stesso modo, l’altrettanto fumettistico vigore fisico di Bob Parr non deve più simboleggiare la solidità del capofamiglia, bensì può rendersi – con tutte le conseguenze comiche del caso – energia vitale da mettere a frutto nella cura della prole.

Non sarebbe corretto tuttavia limitare l’analisi dell’ultimo film della Pixar a tale prospettiva di gender che deve essere considerata l’involucro all’interno del quale si posiziona, come di consueto nelle opere dello studio d’animazione, un’altra serie di livelli di lettura in cui è possibile rintracciare una valenza profondamente autoriflessiva. Tornando alla rappresentazione figurativa della “normale” famiglia di supereroi, vera e propria rivelazione “antinormativa” de Gli Incredibili 2 è in tal senso il bebè Jack-Jack. Con quel suo potenziale ancora irrealizzato tipico dei neonati, è quanto mai eccezionale nel suo essere straordinariamente quanto mostruosamente mutante (come già si vedeva nel finale del primo film).

Sono infatti molteplici i suoi poteri e, insieme, le condizioni fisiche a cui può accedere (tra queste, l’invisibile limbo nel quale sparisce continuando tuttavia ad essere ascoltato, proprio come la Carol Anne di Poltergeist). La proteiformità di Jack-Jack, dunque, si presta perfettamente a farsi simbolo di quella qualità propria della stessa animazione che Ėjzenštejn rintracciava nella sua costitutiva “plasmaticità”, ossia nella caratteristica evidenziata dal regista e teorico russo nelle produzioni disneyane per cui le creature «hanno l’abitudine di allungarsi e contrarsi. Di prendersi gioco della propria forma» (Ėjzenštejn 2004). Essere super per il più piccolo dei Parr significa pertanto mettere costantemente alla prova la propria stessa corporeità cartoonistica per superare ogni forma stabilizzata, assurgendo in tal modo a ideale incarnazione di quel «protoplasma originario» in grado di «di evolversi, stadio dopo stadio», di cui parlava appunto Ėjzenštejn.

Ma non è solo il personaggio del piccolo Jack-Jack a confermare, una volta di più, quanto alla Pixar stia a cuore portare avanti, di film in film, un’attenta riflessione sulle forme, le strutture e le implicazioni culturali proprie tanto dell’animazione quanto, più in generale, dell’orizzonte mediale (o postmediale) contemporaneo. Degno di nota in questa prospettiva è ne Gli Incredibili 2 anche il riaffiorare di quella dialettica tra tecnofilia e tecnofobia che connota buona parte della produzione pixariana.
In questo caso tale questione si declina sul piano di una riflessione sul potere dei media che si incarna nella figura del villain di turno, cioè il supercriminale mascherato denominato Ipnotizzaschermi. Questa figura misteriosa che manipola le persone attraverso le immagini fatte apparire sui display sotto il suo controllo evoca uno scenario alla Videodrome, innestando nel film la metafora/denuncia di una civiltà mediale (non più solo televisiva, come nel precedente di Cronenberg) in cui il vero potere è quello di chi riesce a influenzare il pubblico tramite una comunicazione sempre più invasiva e virale (rappresentata oggi, se si vuole, dalle fake news, dalla propaganda dei social media, dai troll, ecc).

Ciò sembra richiamare direttamente il tema dell’”economia dell’attenzione” (Davenport e Beck 2002) e cioè l’idea che, in un’era di progressiva inflazione di informazioni e di immagini, l’attenzione del pubblico sia diventata un bene sempre più prezioso e ricercato e per questo candidato a soppiantare nel mercato il valore dello stesso denaro. Ecco allora che nel film di Bird le pupille vitree dei vari personaggi ammaliati, uno dopo l’altro, dal sortilegio mediatico somministrato dall’Acchiappaschermi assumono letteralmente i connotati di quei «bulbi oculari» che, secondo Jonathan Beller, sempre più reti televisive, società di produzione cinematografica, siti internet, social network tentano oggi di vendere agli inserzionisti (Beller 2006/2007). Questa metafora ne Gli Incredibili 2 è resa in maniera così esplicita che, quando Elastigirl penetra nel nascondiglio-laboratorio del supercriminale, in una situazione incubica alla Hitchcock-Dalì, la prima immagine che le si presenta è proprio quella di un’inquietante serie di bulbi oculari posizionati come tante balle da biliardo su una serie di ripiani…

Tale riflessione sullo sguardo in relazione allo schermo quale fonte di una seduzione che, come in questo caso, può anche diventare una sorta di stregoneria, è del resto un filo rosso che percorre tutta la filmografia della Pixar. Dal primo Toy Story a Coco, nelle opere dello studio americano sono quasi sempre presenti schermi grandi e piccoli sui quali transitano “immagini promozionali” di vario tipo, capaci di sorprendere e ammaliare coloro che vi si trovano davanti inducendoli il più delle volte a una serie di riflessioni riguardanti la propria stessa natura e quella del mondo in cui vivono. In questo senso il «desiderio di rimpiazzare la vita reale con la finzione», apocalitticamente denunciato dall’Acchiappaschermi ne Gli Incredibili 2, può essere considerato come l’esito più estremo della convergenza tra immagine, oggetto e consumatore (Gurevitch 2015) su cui la Pixar ragiona fin dal suo primo lungometraggio.

Riferimenti bibliografici
J. Beller, Paying attention, in «Cabinet», n. 24.
T.H. Davenport, J.C. Beck, L’economia dell’attenzione. Come gestire una risorsa cruciale per affrontare il nuovo corso del business, Il Sole 24 ore, Milano 2002.
S.M. Ėjzenštejn,Walt Disney (1942), trad. it. Walt Disney, SE, Milano 2004.
K. Gillam, S.R. Wooden, Post-Princess Models of Gender: The New Man in Disney/Pixar, in «Journal of Popular Film and Television», vol. 36, n.1, 2008.
L. Gurevitch, From Edison to Pixar: The Spectacular Screen and the Attention Economy from Celluloid to CG, in «Journal of Media & Cultural Studies», vol. 29, n. 3, 2015.
J. Yabroff, Hollywood, Beta Males Best Alpha Dogs, in «Newsweek», April 6th.

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