Una nenia, una ninna nanna, un lamento, il soffio di un respiro affannato, un grido, una litania, una trenodia greca (che riecheggiano le note perdute di Demetrio Stratos): sono le voci e i suoni che si espandono in un canto dolente lungo lo spazio scenico che è segnato da piccole colonne di luce, come fossero segnacoli in forma di totem, e ad emiciclo si dispongono pannelli trasparenti ma imbrattati da colature bianche di calce, mentre un semicerchio di lastre rifrange un oro corrusco e metallico, e su un impiantito nero di pece, come un fango oscuro, serpeggiano le iridescenze di luce. Su questo scenario, che tiene come “fuori campo” la Tebe dilaniata dal contagio, corrosa dalla pestilenza, si apre l’Edipo Re sofocleo nella lettura lancinante, lucida e rigorosissima di Andrea De Rosa che adatta la traduzione essenziale e cesellata di Fabrizio Sinisi (andata in scena al Teatro Grande di Pompei per la settima edizione di Pompeii Theatrum Mundi, un progetto del Teatro di Napoli-Teatro Nazionale).
Dietro i pannelli tralucono, come presenze fantasmatiche, i volti di due donne cui De Rosa affida le voci del coro (il dolore e lo strazio, così come lo sgomento sono espressi dall’accorato salmodiare di Francesca Della Monica e dagli acuti pieni di pathos di Francesca Cutolo), ci appaiono deformati, urlanti (quasi dei ritratti di Francis Bacon), ed è come se quei diaframmi ci allontanassero e insieme ci avvicinassero con una strana empatia, che rimanda all’uso delle maschere tragiche, a una condizione di interrogativo, a domande che lacerano i corpi e le menti: quale l’origine del contagio (e quei pannelli in plexigas ci ricordano certo le difese profilattiche adottate nel tempo a noi vicino della pandemia)? Quale la via per guarire da una malattia che si ripercuote per vie oscure?
La messinscena di De Rosa va dritto al cuore dell’aporia costituita dal nucleo del mito di Edipo, e cioè la volontà unilaterale di vedere nel buio, di illuminarlo, di sciogliere l’enigma dell’uomo (lo stesso della Sfinge) alla luce di una ragione, di un logos che prescinde da quanto di misterico si nasconde nella stessa condizione umana rispetto all’agire degli dèi dentro se stessi, dentro la propria percezione, e al di fuori di se stessi, cioè nell’immanenza della natura. Vedere la verità comporta il rischio dell’accecamento, l’inflazione della luce genera in qualche modo la sua stessa notte. ≪È difficile guardare la verità dritto negli occhi, è difficile e anche pericoloso. Aletheia (la verità in greco) indica l’atto di “togliere il velo da qualcosa per scoprirla”. Ma quel velo che ci impedisce di vedere chiaramente è anche ciò che ci protegge», scrive De Rosa nelle sue note di regia. Ecco allora il senso implicito dell’impianto scenico (pensato con la complicità di Daniele Spanò con il suo intento quasi installativo giocato sui diaframmi, le trasparenze, gli schermi/lastre, le luminescenze, le zone oscure) e anche il suo intimo carattere concretamente filosofico.
De Rosa fin dai suoi inizi persegue un teatro di interrogativi filosofici, di indagini che adottano la scena quasi come un “teatro anatomico” laddove le questioni del sapere, quelle epistemologiche come quelle fenomenologiche, si traducono senza mediazioni in soluzioni sceniche, in disegno drammaturgico. Il tema della cecità (e dunque dello sguardo, del “theaomai”, cioè del “theatrum”, così come della “theoria”) ha da sempre affascinato il regista napoletano (che dal 2021 è direttore della Fondazione Teatro Piemonte Europa, impostandone le stagioni su “lemmi” che sono altrettante linee tematiche, come appunto è stata la parola “cecità” per la stagione 2023-24, e per quella 2024-25 la parola “fantasmi”). Con Edipo Re De Rosa costruisce una sorta di contraltare di un suo precedente allestimento delle Baccanti euripidee, laddove allora il fulcro rotante e incandescente era la viscerale e ambigua onnipresenza e onnipervadenza di un Dioniso invasato e insieme micidiale seduttore, mentre qui il gesto drammaturgico fondamentale è quello di enucleare la voce di Apollo (che in Sofocle si dissemina nel suo essere implicata nella voce oracolare) e di incarnarla di volta in volta non solo nel vaticinante Tiresia ma anche nei messaggeri. È sempre Apollo che parla e la sua parola “obliqua” investe il destino edipico come una luce accecante. Il cavarsi gli occhi del Re di Tebe dopo aver da sé stesso illuminato la sua ombra oscura diventa il segno non soltanto di un destino tragico, ma anche il crisma di una ambivalenza apollinea che travolge Edipo.
L’inchiesta in cui l’investigatore coincide con il colpevole, la caccia all’assassino in cui il cacciatore è lo stesso cacciato, la cura in cui il medico è egli stesso la malattia, assumono nello spettacolo la forma di un continuo fronteggiare e di un continuo e ostinato sottrarsi rispetto al riconoscimento di quel punto cieco, di quel fondo oscuro, di quel buio che si nasconde proprio nel massimo della luce. È la natura fondamentalmente ambivalente di Apollo, il suo essere un dio obliquo, una sorta di assoluta “coincidentia oppositorum” nel suo tratto enigmatico (così bene argomentato da Marcel Detienne in Apollo con il coltello in mano, 2002): la sua luce e il suo arco lungisaettante procurano pestilenze così come purificano dai contagi. Apollo è il dio dei topi e il dio dei lupi ed è egli stesso topo e lupo, la luce dei suoi oracoli è avvolta dall’oscurità dell’enigma, la sua sacerdotessa in forma di Pizia o di Sibilla presiede alla fossa scavata come un ombelico nella terra (l’òmphalos) o abita i recessi oscuri degli ipogei entro cui la luce, come a Cuma, penetra solo dall’alto. Dallo spettacolo emerge insomma anche il disegno di una sorta di “caccia metafisica”: il cacciatore per predare l’animale deve farsi animale egli stesso e tale fondo primigenio di Apollo “cacciatore” si staglia dal momento in cui a poco a poco si stringono intorno a Edipo le maglie che da cacciatore lo fanno preda, è il disegno di una metamorfosi che fa tralignare il buio dalla luce:
«Prima che protagonisti di tante storie di metamorfosi, i grandi cacciatori furono essi stessi il risultato di una metamorfosi. Prima di uccidere il lupo o i topi, Apollo fu lupo e topo. […] il pathos della caccia, la complicità fra cacciatore e preda, risale all’origine, quando il cacciatore era egli stesso l’animale, quando Apollo fu generale di un esercito di topi e capo di un branco di lupi. Il fondamento della caccia fu una scoperta della logica: l’operare della negazione» (Calasso 2016, p. 20).
Edipo (un grandissimo Marco Foschi di volta in volta tagliente, sferzante e sofferto, fino ai toni allucinati e pervasi da un dolore sordo) siede nella fase iniziale di spalle al pubblico su una poltroncina, insieme arredo regale e teatrale, occupa il posto del “tragos”, della vittima inconsapevole destinata ad essere il capro che si autoespellerà dalla polis. Il suo affidarsi all’oracolo delfico si tramuta in una sorta di sfida cui corrisponde il progressivo essere imbrigliato da un reticolo costituito dalle fonti luminose che intersecano il buio. La costellazione di punti luce, progettata da un maestro lighting designer come Pasquale Mari, che si dipana in movimento lungo l’area dell’azione scenica diventa parte integrante del disegno concettuale dell’allestimento. Non si tratta di illuminare la scena quanto di assumere il segno-luce, in rapporto al buio, come implicita materia che manifesta l’incedere progressivo del dio ambivalente il cui appellativo è sia “l’oscuro” che “il luminoso“. Gli epiteti multiformi e “a doppio taglio” con cui il dio viene convocato ed evocato ne riassumono l’apotropaica enantiodromia: Apollo dio dei lupi, Apollo danzatore, Apollo costruttore di altari di cenere e sangue, Apollo obliquo, Apollo squartatore, Apollo simile alla notte, Apollo arrogante, Apollo eccessivo, Apollo scuoiatore, Apollo melodia, Apollo incoronato di alloro, Apollo l’arciere, Apollo con il coltello in mano, Apollo l’indovino.
È ad una incalzante evocazione corale che il dio corrisponde e il suo avvento (“Apollo è qui!”) ne suscita l’incarnazione attraverso cui la risposta al quesito e all’intenzione di emendare il contagio si rapprende in una paradossale “coincidenza“, in una identificazione che già da subito, come una eco interiore e micidiale, De Rosa immette nel tessuto sonoro (peraltro potentemente solcante l’orchestrazione dei movimenti, ad opera del sound designer G.U.P. Alcaro) facendo risuonare quasi dagli anfratti della stessa psiche di Edipo: “Sei tu!”. Così assume un peso specifico, in tutta la sua ambiguità, quell’apodittica affermazione di Edipo: “Io farò luce!”. In tal modo De Rosa immerge l’atmosfera della tragedia in una sorta di “psicomachia” entro cui il procedere dell’indagine edipica diventa lo scavare sempre più a fondo nella indissolubilità tra la verità e il suo nascondimento, connessi a un doppio movimento: ciò che viene progressivamente in luce fa emergere l’oscurità, l’insostenibilità del vedere le radici enigmatiche delle proprie origini e del proprio destino che è insita nella stessa inflazione apollinea. Il “voler vedere troppo in là”, l’affidarsi allo “splendore” purificatore apollineo (Phoebus/Apollo deriva dal termine “splendente”, che sta sia per “profetare” che per “ripulire”) comporta allo stesso modo la mania, la fobia, la paura (l’assonanza del termine “Phobos” con la “terribilità” di Apollo).
È così che, se in una prima parte (quella in cui si avvia l’inchiesta per rintracciare la causa del contagio e poi il colpevole dell’uccisione di Laio) la scena assume una forma “oratoriale“, quando si accelera il precipizio del processo di individuazione (che per Edipo è insieme, apollineamente e paradossalmente, purificazione e maledizione), i confronti di Edipo con Creonte (un Fabio Pasquini che assume con inusitata pacatezza i toni della mediazione ragionevole, salvo opporsi con veemenza ai sospetti di Edipo) e con Giocasta (una vibrante Frédérique Loliée che mescola pulsioni di desiderio a dolcezze seduttive e inquietudini aspre, corrose da presentimenti e rimorsi) vengono giocati come duelli verbali oppure furie pulsionali. Ma è l’incontro con Tiresia, e con i testimoni/messaggeri (cui lo stesso, straordinario, Roberto Latini conferisce una implacabile glacialità e insieme una assorta visionarietà) a risolvere lo “svelamento” in un gesto che è al contempo disperato ed empatico. Si tratta di un rispecchiamento entro cui Apollo si ri-vela (cioè si manifesta e si nasconde insieme).
Edipo e Tiresia nel segno di Apollo diventano l’uno il doppio rovesciato dell’altro. «Ci sono vari modi di essere ciechi, quello di Edipo, i cui occhi sono aperti ma non gli consentono di vedere, quello di Tiresia, che ha gli occhi chiusi ma è un veggente. Eppure sono ciechi entrambi. Il linguaggio di luce, visione e occhi pervade tutta la tragedia. […] Il “conosci te stesso” equivale qui alla cecità: quando, seguendo il metodo edipico, finalmente vengo a sapere chi sono, il risultato è l’accecamento, la cecità» (Hillman 2014, pp. 166-167). In questo momento epitomico dello spettacolo la lastra dietro cui Tiresia, il cieco veggente, traspare ha una striscia bianca all’altezza degli occhi. L’indovino poggia i palmi delle mani sulla lastra, Edipo si avvicina e congiunge i suoi palmi a quelli di Tiresia proprio nel momento in cui questi stacca la striscia-benda dalla lastra (“Tu che hai gli occhi fissi nella luce, presto non vedrai che il buio”). Da quell’istante si compie il destino edipico della cecità: colui che ha osato guardare nella luce accecante di Apollo.
Riferimenti bibliografici
R. Calasso, Il cacciatore celeste, Adelphi, Milano 2016.
M. Detienne, Apollo con il coltello in mano, Adelphi, Milano 2002.
J. Hillman, Figure del mito, Adelphi, Milano 2014.
*La foto in copertina è di Andrea Macchia.
Edipo Re. Testo: Sofocle; regia: Andrea De Rosa; drammaturgia: Fabrizio Sinisi; scene: Daniele Spanò; costumi: Graziella Pepe; suono: G.U.P. Alcaro; luci: Pasquale Mari; interpreti: Francesca Cutolo, Francesca Della Monica, Marco Foschi, Roberto Latini, Frédérique Loliée, Fabio Pasquini; produzione: Teatro Piemonte Europa, Teatro di Napoli, LAC, Teatro Nazionale di Genova, Emilia-Romagna Teatro ERT ; durata: 80′.