All’inizio di Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, proposto dal Teatro Regio di Torino in un nuovo allestimento con la direzione di Riccardo Muti e la regia di Andrea De Rosa, lo spettatore si trova di fronte a un’abitazione sontuosa: è il luogo del potere in cui si svolge una buona parte dell’azione di questo melodramma del 1856, che ha subito diverse rielaborazioni proprio perché sfidava la rappresentazione diretta di un monarca.

La scenografia disegnata da Nicolas Bovey, bella ed ariosa, si articola su due livelli, ed evoca in modo efficace la sintonia fra il protagonista Renato (governatore di Boston nella versione da sempre in repertorio), e la sua comunità. Ben presto si passa a una dimensione del tutto diversa: l’azione si sposta nell’antro di Ulrica, una strega «dell’immondo sangue dei negri» (frase famigerata, in genere censurata, lasciata nella sua crudezza), e qui la regia di Andrea De Rosa ha il suo colpo di genio: immagina una grossa crepa nera che spacca in due al centro il palazzo del governatore, come se fosse un fiume infernale.

Già nell’archetipo tragico di Shakespeare, il Macbeth adattato da Verdi e Piave pochi anni prima, il legame fra le streghe, il fantastico e la visione profetica era saldissimo. In Un ballo in maschera cambia però la cifra stilistica: la scena con Ulrica ha infatti alcuni tratti comici: il travestimento, l’inganno, l’equivoco; tratti che culminano nella lunga ripetizione dei versi: «È scherzo od è follia / siffatta profezia, /. Ma come fa da ridere, / la lor credulità!». Emerge così un elemento che caratterizza tutta l’opera: l’impasto tragicomico; è la cifra dell’estetica romantica, che si ispira all’anticlassicismo di Shakespeare (per restare nel Macbeth: la scena del portiere), e che Verdi, pur restando sempre radicalmente tragico, ha sperimentato qualche volta, soprattutto, oltre che in quest’opera, nel Rigoletto e ne La forza del destino. Questo impasto tragicomico fa scattare un’altra categoria-chiave, che nel Novecento arriverà quasi a soppiantare la tragedia: il grottesco (possiamo limitarci a un solo nome: Samuel Beckett).

In Un ballo in maschera tutto ciò si articola innanzitutto a livello orchestrale: fin dall’incipit, la brevissima scena in cui si alternano il coro che esalta il reggente e le voci cupe dei suoi oppositori, avvertiamo un sottofondo martellante ed ossessivo. La splendida direzione di Riccardo Muti valorizza al massimo queste screziature dissonanti, soprattutto da quando, nella piena maturità, ha orientato le sue letture verso le infinite sfumature e non più verso la violenza drammatica. Anche la regia di Andrea De Rosa, che sempre a Torino si sta misurando con l’archetipo di ogni tragedia, l’Edipo re di Sofocle, rende l’impasto tragicomico con dettagli, pose immobilizzate, gesti, effetti cromatici e luministici (come sempre sono splendide ed efficacissime le luci firmate da Pasquale Mari). 

Il momento più intenso, perturbante e innovativo di Un ballo in maschera è il secondo atto. Un atto notturno e sublime, quasi interamente dedicato al duetto d’amore fra i due protagonisti, forma tipicamente melodrammatica che Verdi non ha mai reimpiegato in maniera così intensa e radicale. È stato spesso evocato un parallelismo con il secondo atto del Tristan und Isolde di Wagner: punto di arrivo del millenario intreccio fra eros e thanatos. Può stupire certo un parallelismo fra i due grandi rivali del teatro musicale ottocentesco, ma sappiamo bene che le grandi polarità sono fatte per essere decostruite.

La novità strutturale più eclatante in Verdi riguarda il protagonista maschile: l’opera italiana si basa su una distribuzione rigida dei ruoli anche vocali all’interno del topico triangolo, su cui notoriamente ironizzava George Bernard Shaw: il tenore vorrebbe andare a letto con la soprano, ma il baritono si oppone. In genere l’antagonista è anche sempre, ovviamente, l’uomo che incarna il potere, ma in Un ballo in maschera no: Riccardo è il personaggio innamorato, ma anche il reggente, e l’amore della coppia ha come ostacolo principale non le istituzioni sociali, ma l’amicizia intensissima, erotizzata, fra tenore e baritono

Nella coproduzione internazionale (London Royal Opera House, Teatro Real di Madrid, Houston Grand Opera) andata in scena nel 2009, Mario Martone, che è stato il maestro di De Rosa, aveva valorizzato l’idea di un’America ancora arcaica, di un paese giovane e in costruzione. L’«orrido campo» era un’immensa, affascinante discarica, in cui svettava il cappio degli impiccati. Nella regia di De Rosa la scena ha ancor più un carattere metafisico, atemporale, adattissimo all’esplicazione di un eros che vuole trascendere ogni limite, che anela a una fusione primigenia fra gli esseri. E proprio alla fine di questa scena che è il capolavoro romantico di Verdi, la sua esaltazione di un amore cosmico e sublime, troviamo, del tutto inaspettatamente, di nuovo l’impasto tragicomico.

Anche qui tutto nasce da un equivoco: Renato sopraggiunge per avvertire Riccardo che la sua vita è in pericolo; il protagonista non vorrebbe lasciare la sua amata in mano al rivale/amico del cuore, nonché sposo legittimo, ma è costretto a farlo dalle circostanze; gli chiede solo di lasciarla velata. Il velo cadrà però al momento in cui Amelia cercherà di intervenire nello scontro: a questo punto i congiurati commentano divertiti: «E la tragedia mutò in commedia», perché sembra loro paradossale che i due sposi vadano a passeggiare di notte in un luogo così orrido. Difficile immaginare una divaricazione così netta nell’informazione narrativa: per Renato e per noi spettatori è una scena tragicissima, per i sicari, accompagnati sempre da una musica grottesca, è invece terribilmente comica. 

A inizio del terzo e ultimo atto Verdi si focalizza sul Renato, antagonista per nulla negativo, che suscita ora una duplice empatia: in quanto sposo tradito, e in quanto tradito dal proprio migliore amico. Questa splendida soggettivizzazione, che si esplica nell’aria «Eri tu che macchiavi quell’alma», è il presupposto per la svolta pragmatica più importante da un punto di vista narratologico: Renato decide di sostenere a partecipare all’assassinio del governatore, di Riccardo.

L’opera si chiude così con il ballo in maschera che le fornisce il titolo: è una festa tragica, topos caratterizzante del melodramma che Francesco Orlando definisce come una collettività in festa che fa da sfondo alla storia tragica di singole individualità. È piuttosto chiaro l’aspetto metalinguistico di questo topos: l’opera è un rito mondano in cui il pubblico si rispecchia, e non a caso nella regia di Mario Martone del 2009 ricordata prima a questo punto un enorme specchio duplicava la scena. Nella produzione del Regio di Torino di cui stiamo trattando, ad evocare il teatro è la stessa scenografia del primo atto, che qui ritorna con i suoi due livelli e con il coro che guarda dall’alto. E bisogna aggiungere che questo effetto assume una forza particolare nella mirabolante struttura a conchiglia del Regio, disegnata dal geniale architetto Carlo Mollino, e inaugurata dalla regia di Maria Callas dei Vespri siciliani di Verdi. 

Immortalato nel film La luna (1979), omaggio accorato di Bernardo Bertolucci al mondo dell’opera ambientato a Caracalla, il finale di Un ballo in maschera è fra i più commoventi che Verdi abbia mai scritto: Riccardo si riconcilia con l’amico Renato, e manda un addio straziante a tutta la sua terra, la diletta America, mentre il coro ripete più volte «Notte, notte d’orror». Una fusione perfetta fra il gotico, il sublime, e il melodramma romantico. 

Riferimenti bibliografici
M. Fusillo, “Ecco l’orrido campo”. Sul sublime verdiano, in Estetiche e poetiche tra antico e moderno. Scritti in onore di G. Lombardo, Stem, Modena 2023. 
F. Orlando, Festa corale e pene personali: una costante operistica (2005), in Su Wagner e altri scritti di teatro musicale, a cura di F. Fiorentino e L. Zoppelli, Pacini, Lucca 2020.

Un ballo in maschera. Musica: Giuseppe Verdi; libretto: Antonio Somma; regia: Andrea De Rosa; direttore: Riccardo Muti; scene: Nicolas Bovey; costumi: Ilaria Ariemme; luci: Pasquale Mari; coreografia: Alessio Maria Romano; interpreti: Piero Pretti, Luca Micheletti, Lidia Fridman, Alla Pozniak, Damiana Mizzi, Sergio Vitale, Daniel Giulianini, Luca Dall’Amico, Riccardo Rados; produzione: Teatro Regio Torino; durata: 3 30′; anno: 2024.

Share