«Ingrata», «difficile» e «poco nota». Definizioni che, in un noto articolo del 1955, Truffaut dava della «professione di critico cinematografico», passandone poi in rassegna i sette peccati capitali (stringando al massimo, e su tutti: insipienza – quanto a storia e tecnica del cinema – sciovinismo per opportunismo carrierista, e, conseguentemente, disonestà intellettuale, presunzione, ecc.). Ma se parlare del “critico cinematografico” in termini di “professione” potrebbe oggi suonare quasi fuori tempo massimo, a fronte delle conferme di un altro assunto truffautiano: «Ciascuno fa due mestieri: il proprio e quello del critico cinematografico» (e, per estensione, anche il massmediologo, politologo, virologo, e insomma il tuttologo della pillolistica da social); ci si potrà interrogare sul senso, ruolo, funzione di quell’attività (la critica), di quella figura. Posta, anche, la constatazione di  Daney secondo la quale un villaggio globale, ultraconnesso, ultracomunicante, non ha bisogno di critica, ma di imbonitori, di acquiescienti piazzisti, di consensi e numeri (Daney 1991).

Detto altrimenti, e riprendendo un recente studio di A.O. Scott: «La critica […] rischia sempre più di assumere la forma di una “scoria culturale” smarrita in un disordine che non riesce più ad arginare» (Guerra, Martin 2020, p. 7). È il nucleo di partenza attorno al quale vengono raccolte le riflessioni che più studiosi dedicano alla critica in Italia, nel volume Culture del film. La critica cinematografica e la società italiana, curato da Michele Guerra e Sara Martin (Il Mulino 2020). Il testo parte quindi dalla constatazione che oggi «l’esercizio critico beneficia e soffre» al contempo della «partecipazione della società al suo discorso», e che tale partecipazione non appare più, come un tempo, «regolata da istituzioni e figure […] che potevano contare sulla certezza e sulla costanza di un certo tipo di lettori», anche registrando lo squilibrio tra la «moltiplicazione degli atti critici» e la riduzione della «pervasività del pensiero critico» (ivi, p. 8).

Ecco, allora, che se più opaco alla lettura, e dispersivo nei fatti, è lo scenario entro il quale oggi la critica cinematografica continua a esercitarsi, i contributi che compongono il volume s’interrogano essenzialmente su «quale società la critica ha […] analizzato» e «in qualche misura contribuito a creare» (ivi, p. 10). Si tratta, insomma, di indagare, prendendo in esame diversi casi di studio, luoghi e modalità di esercizio, lettori, figure, istituzioni, cosa è stata la critica cinematografica in Italia tenendo soprattutto conto delle culture del film che veicolava o sottendeva, e in quali modi. E in un arco temporale che va dagli anni immediatamente precedenti il secondo conflitto grossomodo fino agli anni del boom o appena oltre: si tratta del periodo di crescita e modernizzazione – seguendo gli studi di Forgacs e Gundle (2007), riferimenti largamente comuni a più autori dei saggi in volume – dell’industria culturale nazionale. E, anche, degli anni in cui il discorso critico conosce forse una maggiore pervasività e impatto, vivacità, diversificazione, una capacità durevole di rivolgersi a delle comunità di lettori.

Il volume curato da Guerra e Martin guarda quindi essenzialmente alle “culture del film”, e pur non essendo tanto “una storia” (della critica in Italia), comunque vede i saggi che lo compongono misurarsi per lo più con un periodo preciso, e quindi la storia o le storie della critica cinematografica italiana sono in una certa misura “presupposte”, per essere, però, ridiscusse, ripensate anziché meramente “ripetute”. Anticipo, en passant, che la storia occupa, invece, una parte piuttosto consistente di un altro testo, anch’esso di recente pubblicazione, sul quale mi soffermerò in seguito. Si tratta de Il cinema tra le colonne. Storia, metodi e luoghi della critica cinematografica in Italia, di Denis Lotti (Rubbettino 2020). Ciò che autorizza a dedicare lo spazio di uno stesso articolo a entrambi i volumi, diversi per metodi, tono, taglio, è la percezione che alcune delle questioni di fondo siano comuni e condivise. Il che sarebbe un’ulteriore conferma non solo dell’incremento delle riflessioni e delle occasioni in cui, da qualche anno a questa parte, critica, teoria (in ambito accademico) “si ripensano”. È, insomma, un criticare la critica, forzando appena il titolo di uno studio di Pellizzari che, in chiusura di secolo (1999), già intravedeva un possibile decadimento del pensiero critico per dispersione ed espansione, anche per mutazione del critico a vee-jay che sembra preludere agli youtubers o alla fame di likes del nostro tempo.

Ma soprattutto, che ciò che muove questo “ripensarsi” e criticarsi della critica, gli studi, diversi tra loro, le occasioni di condivisione (convegni, giornate di studi, ecc.), è una percezione largamente condivisa di problemi analoghi. E questo misurarsi con temi, campi affini, implica partecipare di un discorso comune e avvertirlo come tale, nella diversità di stili, approcci, oggetti. I “casi” che i singoli contributi di Culture del film prendono in esame, nell’orizzonte temporale in questione, sono infatti molteplici. Si va – per esempio, e tra l’altro – dalla ricognizione sulla configurazione della critica in quanto istituzione, sul suo ruolo, tenendo conto di una dialettica sia geografica (il rapporto tra “grandi centri” e “provincia”, quale luogo di formazione e di diramazione di nuove figure di critici) sia generazionale (nel saggio di Paolo Noto e Andrea Mariani), ai contributi che focalizzano l’attenzione su riviste di settore (Claudio Bisoni), quotidiani (Andrea Minuz e Francesca Cantore), sull’editoria popolare (Dominic Holdaway e Giacomo Manzoli), o all’indagine (di Lucia Cardone) sulle figure di giornaliste e scrittrici (Luciana Peverelli, Irene Brin, Antonietta Drago) in un periodo (anni ’30-’40) «aurorale […] dell’industria culturale italiana» (Cardone 2020, p. 116).

Ne emerge qualcosa che non è soltanto la misurazione di uno scarto tra il presente della critica cinematografica in Italia, la sua perdita di autorevolezza, e una fase, invece, in cui pensiero e istituti della critica potevano dirsi pervasivi, e la funzione di mediazione tra cinema e spettatori/lettori svolta in modo efficace. Riandare a quella fase vuol dire anche confrontarsi col suo carattere ancipite. Significa cioè individuare, a partire da quegli “anni d’oro” della critica cinematografica nostrana, i prodromi della sua flessione a venire. Ossia: «Proprio man mano che la condizione critica si rafforzava, […] che i critici cinematografici acquisivano autorevolezza e potere», negli stessi anni «si gettano» anche «le basi per la frantumazione» a venire, la chiusura, la perdita di un legame con «una parte estremamente vitale della produzione cinematografica e con le comunità di pubblico ad essa legate» (ivi, pp. 11-12).

A essere in gioco, in ogni caso, allora e adesso, e «comunque si voglia leggere» il pensiero critico contemporaneo, «espanso e sregolato, la sua funzione sociale non può essere messa in discussione» (ivi, p. 8). E questo vuol dire prendere atto del fatto che il critico in quanto mediatore – e volendo, come scrive De Gaetano nel suo saggio richiamandosi a Daney, passeur –, continuando a esercitare una funzione che possa dirsi sociale, paradossalmente si misura con uno scenario della cultura cinematografica presente, invece, fortemente disintermediato (è un punto sul quale si sofferma Menarini nel suo contributo). Perché viene meno proprio in quanto “mediatore” tra film e spettatore, è meno «gatekeeper della cultura cinematografica» (Menarini 2020, p. 153). È allora da questo spazio, disintermediato, atomizzato, più social che sociale, che occorrerà – come in parte già accade – mettere in atto forme di discorso critico che possano dirsi, ancora, pervasive. E, anche, tenendo presente una stagione della critica (quella cui guardano i testi qui raccolti) che poteva contare su o creava comunità (di pubblici, lettori, di addetti ai lavori, ecc.), proprio nel momento in cui si tratta di far fronte alla comunicazione senza comunità (Han 2020) del nostro tempo.

Guarda, invece, a “più tempi” (la storia), luoghi e modi della critica nazionale, Il cinema tra le colonne. Il libro vuole essere «un primo incontro, propedeutico, con la critica cinematografica italiana» (Lotti 2020, p. 7). Il che non è affatto poco in tempi di sistemica svalutazione di competenze a ogni livello, e di improvvisazioni alla critica, impressionistica, da performance “flamboyant” in termini di numeri, visualizzazioni di canale e condivisione di pezzi da parte dei bloggers (ma – va detto – con in alcuni casi il merito se non altro di “scoprire da sé” i propri oggetti, perché disintermediata). Perché quello che può essere in gioco, ora che ciascuno (ancora Truffaut) fa due mestieri, è anche la necessità di una formazione della critica.

Nella ricognizione storica che apre il volume, Lotti evidenzia anzitutto il progressivo affrancarsi degli “scrittori di cinema” sui periodici nazionali dal ruolo di “pubblicitari”, sostanzialmente asserviti alle case di produzione, e insomma il graduale costituirsi di una critica propriamente detta, anche sull’onda del riconoscimento che la “cultura alta” e letteraria (Papini e D’Annunzio in testa) tributa al nuovo mezzo. Per poi soffermarsi sull’incremento dei discorsi sul cinema a cavallo tra le due guerre, passando per la stagione aurea di “Cinema” (con le firme che presentono, per certi versi preparano o contribuiscono a inventare il neorealismo: Alicata, De Santis, Antonioni, tra gli altri), il dibattito intorno a Senso (1954) e il realismo, mettendo a fuoco le figure dei “pionieri” (Luciani), dei grandi quotidianisti (Casiraghi, Kezich), di coloro che, a lungo, hanno influenzato modi, discorsi, temi, preferenze (Aristarco). A questa sezione corrispondono, poi, altre che guardano alle forme, a tipologie, ai luoghi in cui la critica si è fatta, agli altri in cui va ora facendosi.

E, parlando del presente, evidenzia Lotti, che sia in atto «un aggiornamento corale delle complessità legate alla critica cinematografica oggi» (ivi, p. 62), ossia qualcosa come una comunanza di discorsi, una condivisione di percezione di problemi e temi cui facevo riferimento più sopra. Significa, ancora, essere comunità. Che pensi, e pratichi, o formi a una critica cui spetta non solo dar da pensare e mediare, non solo creare “culture del film” o parteciparle, ma anche inventare i modi, i contesti, le forme, gli spazi, in cui comunità e cultura cinematografica possano darsi, in cui possa dirsi come il cinema dà da pensare.

Riferimenti bibliografici
S. Daney, Il cinema, e oltre. Diari 1988-1991, Il Castoro, Milano 1997.
D. Forgacs, S. Gundle, Cultura di massa e società italiana: 1936-1954, Il Mulino, Bologna 2007.
B.-C. Han, La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, Nottetempo, Milano 2021.
L. Pellizzari, Critica alla critica. Contributi a una storia della critica cinematografica italiana, Bulzoni, Roma 1999.
F. Truffaut, Il piacere degli occhi, Minimum fax, Roma 2010.

Michele Guerra e Sara Martin, a cura di, Culture del film. La critica cinematografica e la società italiana, Il mulino, Bologna 2020.
Denis Lotti, Il cinema tra le colonne. Storia, metodi e luoghi della critica cinematografica in Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2020.

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