Parlare di un’opera partendo dal suo autore è rischioso poiché si può cadere nel tranello di applicare come uno stampino la categoria di autorialità – ovvero quell’intreccio di stile, caratterizzazione e maniera che lo individuano nella sua specificità – a tutte le opere di quello stesso autore. Eppure, malgrado il pericolo, è forse il modo teoreticamente migliore per scovare una certa coerenza nei vari lavori di un artista. Nonché è il modo migliore per svelarne la soggettività creatrice: un certo oggetto artistico è tale poiché viene da una certa individualità con le sue credenze, i suoi vissuti e anche i suoi pregiudizi.

Akira Toriyama è riconoscibile proprio per questo: ogni sua produzione ha in comune con le altre un fattore fondamentale, che ne fa tanto da sfondo quanto da sottofondo, ovvero l’ironia. Credo che sia questa la lente con cui leggere le opere di Toriyama, partendo da Dr. Slump (1979) fino al più recente Jaco the Galactic Patrolman (2013): i lavori di Toriyama sono tutti irresistibilmente divertenti. Questo non vuol dire che le sue opere siano commedie (Mazzola 2014; Di Bella 2023): al contrario, la strategia dell’ironia serve a rappresentare in modo sofisticato contenuti ben più complessi che, nel caso di Dragon Ball (d’ora in poi: DB/DBZ), hanno a che vedere con una separazione manicheistica del bene e del male e con la superabilità della propria condizione sociale.

Chiarirei da subito come in virtù della sua intrinseca disomogeneità, che pure gli ha garantito longevità nel suo costante reinventarsi, DB è un’opera di cui è davvero difficile scovare un punto sintetico. Questa eterogeneità penso sia evidente con la svolta che separa la prima serie di DB da DBZ, con la repentina crescita di Goku ad adulto, tanto voluta da Toriyama stesso malgrado le resistenze del suo editore (2013, pp. 224-225). DB è costellato di rimaneggiamenti simili che pure, come detto, lo rinnovano: si inizia con una caccia al tesoro tra dinosauri e draghi per finire con viaggi spaziali, alieni, bio-macchine e divinità.

Eppure, credo che perlomeno due siano le caratteristiche sempre rintracciabili in DB: da un lato un’impostazione netta della morale dove si distinguono chiaramente i buoni dai cattivi e, dall’altro, l’avvallamento delle differenze sociali per la costituzione della persona. Se la prima emerge anche a una lettura superficiale del manga, specie dopo la saga del Mago Piccolo in cui Toriyama stesso dice che voleva cattivi tout court (1995, pp. 261-265), la seconda inizia con la serie Z, più specificamente, con la saga dei Saiyan: Goku, il noto protagonista, è inferiore a Vegeta, antagonista di questa saga, perché è un guerriero di classe inferiore (Dragon Ball, cap. 228). Bisogna specificare che la razza guerriera dei Saiyan, cui Goku pure appartiene, poggia su una strutturazione sociale basata sui livelli di potenza (ibidem). Per questa ragione la divisione del lavoro di conquista è tarata sulla propria condizione di potenza sociale elaborata con una vera e propria giurisprudenza eugenetica.

Toriyama argomenterà continuamente contro questa visione della società, evidente metafora della società giapponese che identifica persona e produttività (Sayaka 2018). L’influenza dell’ambiente socioeconomico giapponese di fine anni ottanta e degli anni novanta si sente forte e chiara, specie considerando come lo stesso Freezer, un altro antagonista, è caratterizzato su una metafora della bolla economica causata dagli speculatori edili, definiti da Toriyama stesso «le persone peggiori di tutte» (1995, pp. 261-265).

Inoltre, Goku non vince mai con le sue sole forze ma anche e soprattutto grazie all’aiuto dei suoi compagni e, cosa ben più importante, risparmia il suo nemico. D’altronde, «anche un fallito potrebbe superare un nobile, se si impegna» (Dragon Ball, cap. 228). Ora, vorrei seguire una lettura su più livelli: se da una parte è chiaro che Toriyama veda improbabile che si rompa lo status quo facendo da sé, affermando così un’etica della solidarietà; dall’altra suggerisce che non è annientando il proprio avversario che si ottiene qualcosa. Seguendo questa traiettoria, troviamo una visione fondamentalmente critica della divisione sociale in cui la trasformazione è possibile stando gli uni con gli altri allo scopo di attuare princìpi cardine della moralità come l’eguaglianza, la solidarietà e la reciprocità che, proprio poiché positivi, includono coloro che prima generavano diseguaglianza, egoismo e unilateralità. È una faccenda teoretica risolta col fatidico discorso di Vegeta, che capisce come la superiorità di Goku derivi dalla volontà di migliorarsi continuamente superando la propria condizione (Dragon Ball, cap. 510).

Insomma: se è vero che in DB c’è una separazione manichea del bene e del male per cui gli antagonisti sono sempre riconoscibili per degli scopi subito intuiti come malvagi, mi sembra sia pure rintracciabile un’elaborazione ben più stratificata della moralità raffinatamente edulcorata dal dispositivo dell’ironia. È proprio quest’ultima che ritengo dia quella immediatezza di contenuto con cui ogni movente dei personaggi è ricondotto facilmente al giusto e allo sbagliato. L’ironia difatti non stempera la potenza delle argomentazioni ma, come in questo caso, ne estende la fruibilità contattando indistintamente chi fruisce l’opera. Ne è una incontrovertibile testimonianza il successo globale di DB che a un tempo ha abbattuto il muro dell’Occidente per i prodotti letterari nipponici di fine Ventesimo secolo (operazione già cominciata col Mazinga di Kiyoshi/Gō Nagai) e definitivamente globalizzato il manga come bene simbolico di massa anche Occidentale.

DB è importante per più ordini di ragione. Anzitutto è una storia bella da leggere e con cui è difficile annoiarsi, proprio in virtù della sua capacità di rinnovarsi. In secondo luogo, come ho provato a dire, abbatte le differenze culturali e di età con un uso strategico dell’ironia per l’esposizione dei suoi temi, malgrado qualcuno possa desumerne erroneamente piattezza e banalità (Pellitteri 2008). Infine, ma non certo per importanza, si tratta di quell’opera che ha una volta per tutte massificato in Occidente un genere letterario prettamente giapponese.

Non è un aspetto da sottovalutare in quanto una massificazione simile ridefinisce i canoni socioculturali, ma anche e soprattutto educativi, cui si viene esposti. DB ha interessato un’intera generazione di bambini e ragazzini, ora adulti, forgiandone di certo, per quanto forse sommessamente, i concetti morali di bene e male, vergogna e orgoglio, benevolenza e malvagità, solidarietà e unilateralità, e stavolta non solo in terra nipponica. Per questa ragione fra le altre, la morte di Akira Toriyama rappresenta l’epigono di un punto nevralgico della storia culturale giapponese: seguendo la definizione kantiana di genio, Toriyama non ha solo creato un monumento culturale ma, al contempo, ha strutturato un paradigma al quale ispirarsi e col quale confrontarsi. Notoriamente, infatti, molti manga che pure insieme a DB hanno goduto di un’espansione transnazionale, tra gli altri Naruto (1999) e One Piece (1997), prendono evidentemente a piene mani dal modello di Toriyama, pur rivedendone alcune caratteristiche. Dinanzi a una dipartita simile, è doveroso chinare rispettosamente la testa in segno di esequio e ringraziare per quanto ci è stato donato.

Riferimenti bibliografici
M. Di Bella, Dragon Ball. Da Tezuka a Toriyama, CRAC Edizioni, Ancona 2023.
G. Mazzola, Akira Toriyama. Il mangaka sorridente, Edizioni Il Foglio, Firenze 2014.
M. Pellitteri, Il drago e la saetta. Modelli, strategie e identità dell’immaginario giapponese, Tunué, Latina 2008.
A. Toriyama, Dragon Ball Daizenshū 2 – Story Guide, Shūeisha, Tokyo 1995.
Id., Dragon Ball Chōgashū: Super Art Collection, Shūeisha, Tokyo 2013.

Akira Toriyama, Nagoya 1955 – Tokyo 2024.

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