In un angolo non meglio precisato della provincia italiana, tra casali, villette e periferie senza centro, un serial killer realizza una serie di efferati delitti. La tipologia delle sue vittime varia: una famigliola, una coppia che fa sesso, un uomo solo. La polizia non riesce a trovare una pista da cui far partire le indagini. La situazione è talmente tragica da indurre il commissario Antonio Bonomolo ad affiancare il suo amico e capo delle operazioni Enzo Vitella con un vice, Fabio Bonocore, destinato chiaramente a prendere il suo posto. L’equilibro di Enzo è d’altronde precario: assume psicofarmaci; il film si apre con il suo tentativo di suicidio, mandato a monte da un’inattesa telefonata di Antonio. Uno dei drammi esistenziali di Enzo è rappresentato da Ambra, la figlia che non vuole vederlo. L’unico indizio che l’assassino lascia sulla scena di ogni delitto è una lettera, scritta in stampatello, in cui dà un’aberrante motivazione filosofica del suo gesto. Per evitare che si crei il panico nella popolazione, la polizia mantiene segrete le lettere del serial killer, a cui viene dato il soprannome di Dostoevskij per via di questa vena letteraria.

Le atmosfere angosciose non sono una novità per i fratelli D’Innocenzo. Semmai le caratteristiche salienti del loro stile qui si precisano in maniera quasi didascalica. I due registi non cercano di esprimere vitalità attraverso le sofferenze della carne; piuttosto mostrano l’azione continua della morte nella vulnerabilità della vita. I chiaroscuri dell’immagine, i dettagli più crudi e scabrosi, fanno pensare alla pittura di Francis Bacon. Che l’effetto sia qui più esplicito è inevitabile, visto che i registi si confrontano con un genere ben codificato, dal punto di vista sia della produzione sia della ricezione, come il thriller psicologico. La sfida è casomai quella di far convivere in una sola opera due coppie di opposti: il racconto concentrato del cinema e il racconto diffuso della serie televisiva; il film d’autore e il prodotto d’intrattenimento. Il film è uscito infatti in due parti nelle sale, ma sarà riproposto come serie televisiva.

Dostoevskij è un’opera cinematografica adattata al formato seriale, o una serie televisiva nobilitata da una versione cinematografica? In realtà è entrambe le cose, un film e una serie; ed è questo dualismo a dare il ritmo alla narrazione. Vedendo il film in sala, si possono indovinare i punti in cui gli episodi della serie cominciano e s’interrompono: i momenti di suspense, l’azione lasciata in sospeso, il ritorno di un personaggio, i colpi di scena. Nella versione cinematografica questi aspetti diventano gli elementi della progressiva immersione dello spettatore nella mente criminale — anzi nelle menti criminali, come vedremo — al centro della storia. È evidente che la serie acquisirà a sua volta la profondità e la complessità del film d’autore. Il punto d’equilibrio tra la dimensione cinematografica e quella seriale si trova nella versione in due parti. Una rappresentazione in due atti è disorientante se la pensiamo secondo uno schema teatrale. È come se mancasse qualcosa. Di regola ci aspettiamo che una storia abbia almeno tre parti: un antefatto, uno svolgimento (le peripezie del protagonista) e una conclusione (il suo trionfo o il suo declino). A un racconto in due tempi manca un pezzo. L’idea che tutte le storie trovino una conclusione è però una finzione del racconto; la vita è un mosaico di frammenti incompleti. Se c’è un significato etico nel cinema dei D’Innocenzo è questo: tutti i racconti, compreso il loro, falliscono nel tentativo di afferrare la vita. Ma possono sferrare pugni nello stomaco abbastanza forti da portarci a riflettere sul senso autentico della vita.

Dostoevskij è un viaggio nelle zone più inquietanti dell’animo umano. Nella prima parte del film dubitiamo che dietro l’identità del serial killer si nasconda proprio il protagonista Enzo, un Filippo Timi in una delle sue interpretazioni più riuscite. Nella seconda parte comprendiamo invece la causa dei suoi tormenti: da anni Enzo lotta contro una pulsione pedofila che lo ha portato ad abbandonare la figlia ancora bambina, provocandole un trauma irreparabile. La caccia all’assassino diventa per il detective un viaggio attraverso i suoi fantasmi più orrendi. Scrive Siegfried Kracauer nel pionieristico saggio Il romanzo poliziesco: «Come il detective scopre il segreto nascosto negli uomini, così il romanzo poliziesco svela […] il mistero della società de-realizzata e delle sue marionette prive di sostanza» (Kracauer 1984, p. 29). I fratelli D’Innocenzo creano un dispositivo narrativo in cui la fluidità del racconto cinematografico s’intreccia, si confonde e si sovrappone con la scansione in episodi della serie. Enzo dà all’assassino il soprannome di Dostoevskij, perché vuole decifrare la sua intenzione criminale attraverso la serie dei suoi delitti, come se si trattasse dei capitoli di un romanzo. Parafrasando Umberto Eco, risolvere un caso è come interpretare una storia, stabilendo l’autore modello che l’ha generata e il lettore modello capace di farne emergere il senso.

È per Enzo che il serial killer è Dostoevskij. Il poliziotto arriva così a capire che l’assassino è cresciuto in un orfanotrofio-lager, dov’è stato plagiato da un professore, che ha esposto in alcuni saggi le sue idee aberranti sulla vita, sulla morte e sui rapporti tra esseri umani. Ormai solo, dopo aver lasciato la polizia e aver rivelato il suo indicibile segreto alla figlia, Enzo scopre che l’assassino non è un uomo, ma una donna. Decide allora di attirarla in un casale, dove dopo una lotta estenuante riesce a catturarla. A questo punto, tra orribili torture, la obbliga a scrivere un’ultima lettera: prima di eliminarla, Enzo vuole inscenare un falso omicidio, di cui lui sarà la vittima. Vuole suicidarsi, liberandosi dall’insopportabile peso che porta dentro di sé, dopo aver salvato il mondo dal pericolo dell’assassina? Oppure, una volta sbarazzatosi di lei, vuole prenderne il posto, diventare lui Dostoevskij, liberando così la sua parte perversa e violenta? Il racconto non scioglie il suo dualismo di fondo e ci consegna un finale doppio: da una parte Enzo libera le persone a lui care, la figlia Ambra e l’amico Antonio, dalla sua presenza; dall’altra sceglie di entrare nella zona oscura della sua anima. Sperimentiamo in questo modo il paradosso di un’uscita dall’alienazione che passa attraverso il prevalere della parte malvagia dell’animo, che tuttavia ristabilisce lo stesso ordine sociale che ha fatto di quella alienazione il proprio pilastro.

Riferimenti bibliografici
U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979.
S. Kracauer, Il romanzo poliziesco, Editori Riuniti, Roma 1984.

Dostoevskij. Ideatore: Damiano e Fabio D’Innocenzo; regia: Damiano e Fabio D’Innocenzo; produzione: Sky; origine: Italia; 2023.

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