Roma, Parigi, Londra, New York, Los Angeles. E infine Madrid. Su un banner in basso nell’immagine appaiono i nomi delle città sopra cui scorrono le radiografie del corpo malato di Salvador Mallo, regista in crisi creativa afflitto da un dolore alla schiena che gli impedisce di lavorare. È una delle sequenze cruciali di Dolor y Gloria, l’ultimo film di Pedro Almodovar. Luoghi, spazi, città, pensati o vissuti, contrapposti alle tracce della malattia di Salvador, alla sua incapacità presente di filmare, di dare forma (cinematografica) alla sua vita. L’immagine radioscopica del corpo di un regista, che cita quello di Bertolucci, neutralizzato dalla sua schiena. Un corpo inerme che non riesce a lavorare, a dare plasticità ai ricordi e alle emozioni, a ripensare se stesso e lo spazio in una nuova temporalità cinematografica. A un certo punto non può nemmeno più deglutire, piegato da una protuberanza che gli occlude la gola e dalla “dipendenza” dall’eroina. La radioscopia di un corpo inattivo (che ha le fattezze di uno straordinario Antonio Banderas) contrapposta a quella di uno spazio simbolico aperto in cui si dà forma (cinematografica) all’esistenza

Una geografia del cinema e una del corpo. Sembra il giovane Papa di Sorrentino, quando nella prima scena lo troviamo seduto sul fondo della piscina. Immobile, può solo ricordare la sua infanzia. Sua madre, le “grotte” vicino Valencia in cui abitava da bambino, prima ancora una sala d’attesa della stazione. Oppure guarda film. Il primo piano di Natalie Wood in Splendore nell’erba (1961) di Kazan, 8 ½ (1963), il cui poster è appeso alle pareti del salotto, il Dvd di Mamma Roma (1962) sul tavolino del televisore. Immagini che precedono, convivono e anticipano la realtà. Come il dipinto che lo ritrae seduto sulla sedia della sua modesta casa d’infanzia realizzato da un giovane imbianchino analfabeta durante una delle lezioni che il piccolo Salvador è costretto dalla madre a impartirgli, in cambio della riverniciatura delle pareti. Un ritratto che per puro caso arriva nelle sue mani solo cinquant’anni dopo. Un’immagine dialettica che riannoda il tempo, scarta dalla sua logica lineare, costruisce un nuovo orizzonte di senso, e sembra permettere a Salvador di filmare le sequenze sulla sua infanzia. Riannodare la vita attraverso il cinema facendo slittare il piano reale su quello cinematografico è l’unico modo attraverso cui il soggetto si riappropria della realtà, autenticandola, dandole nuovamente forma attraverso la rappresentazione.

Lo capiamo in realtà solo alla fine, quando assistiamo al primo ciak del film che Salvador, dopo un lungo travaglio, si appresta finalmente a girare, e che ripete e rovescia di segno l’inquadratura della madre e del figlio alla stazione che aspettano il treno che li porterà nella nuova casa. “È un dramma o una commedia?” gli chiede il suo assistente, quando sta per cominciare a filmare. “Non lo so” risponde lui. È in definitiva un piano di finzione attraverso cui la memoria soggettiva viene riconfigurata e resa disponibile allo sguardo, senza distinzione di genere, per aderire intimamente alla vita, come nella grande lezione della modernità cinematografica italiana e americana, che Almodovar omaggia per tutta la durata del film (da Fellini a Bertolucci fino a Kazan e Pasolini). È in sostanza una sequenza che proietta il flashback della memoria nel flashforward del cinema (l’opera che Salvador inizia a girare solo alla fine del film), in cui il tempo è nuovamente sospeso, in cui esiste solo il regime della finzione.

Il cinema come prassi di autenticazione della realtà, di suo inveramento, capace di restituire senso alla vita annullando la distinzione tra presente e passato, oggetto e pensiero, superando lo scarto tra immaginazione e realtà che impedisce al soggetto di estroflettersi nel mondo. Il cinema come forza salvifica, in grado di restituire significato allo sguardo a partire dalla sua capacità di rimodellare e restituire vita ai corpi. È da sempre uno dei temi cruciali del lavoro di Almodovar.

Lo era già nella metamorfosi di Vera ne La pelle che abito (2011), e ancor più nella sublime sequenza che mimava l’immagine muta attraverso cui veniva rappresentata la violenza di Benigno sul corpo inerme di Alicia in Parla con lei (2002). Qui, come ancora in Parla con lei e in Tutto su mia madre (1999), la riflessione prende una direzione ancora più evidente. La prospettiva autoriflessiva del film viene infatti nuovamente raddoppiata quando Federico, vecchio amante di Salvador, va a trovarlo dopo aver visto uno spettacolo teatrale basato su una sua sceneggiatura mai realizzata intitolata “La dipendenza”. Uno spettacolo messo in scena da Alberto, il protagonista del film di maggior successo di Salvador, di cui ascoltiamo solo pochi passaggi che legge fugacemente al computer o recita davanti a una platea commossa. Uno spettacolo sulla dipendenza dal cinema e dalla vita, sulla sua apparentemente impossibile risoluzione, che lo stesso Salvador ha concesso ad Alberto di mettere in scena, quasi controvoglia, dopo vari dissidi e una lunga insistenza.

Eppure, proprio attraverso questa mediazione casuale e quasi accidentale del teatro, lo scarto tra il dolore e la cura, la morte e la vita, prende corpo in Salvador. Proprio come accadeva a Manuela alle prese con la sua inattività causata della perdita del figlio Esteban in Tutto su mia madre. Un cammino di nascita, morte e resurrezione attivato dalle repliche ininterrotte di Un tram chiamato desiderio. O ancora lo spettacolo di Pina Bausch da cui originava l’amicizia tra Marco e Benigno, e infine l’incontro tra Marco e Alicia, in Parla con lei.

Il teatro – di cui il cinema per Almodovar è da sempre un doppio – libera il soggetto dalla paralisi dell’inazione, ne veicola la spinte vitali, permette al corpo di esprimersi nello spazio autentico dell’azione. La prassi cinematografica, come anche quella esistenziale, si può compiere solo a partire da quella teatrale e ne è di fatto una conseguenza. Il “mother melodrama” sull’infanzia di Salvador in Dolor y Gloria è possibile solo dopo che Salvador è liberato dalla sua “dipendenza” asfittica dal cinema grazie al monologo di Alberto, che gli viene riconsegnato nelle parole e nelle emozioni di Federico. La prospettiva metacinematografica diventa infine metateatrale perché, se il cinema è in grado di annullare e contrarre dialetticamente il tempo, solo il teatro costruisce le geometrie dello spazio in cui si può realizzare un soggetto attivo.

Manuela, diventando Stella DuBois, neutralizzava il suo dolore attraverso l’agnizione di una nuova identità. Qui, in un cortocircuito, Salvador si sdoppia nell’alter ego di Alberto e recita il suo monologo. Un momento di alienazione estatica del soggetto, di sua estroflessione nel personaggio che è il soggetto stesso e che ne consente un nuovo punto di equilibrio, all’interno del regime plastico dell’azione e dello spazio. Le geografie del corpo e dell’immagine, l’una al servizio dell’altra, sono infine ricomposte. Solo allora il film può cominciare. Come canta Mina, quasi fosse una “sinfonia”.

Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Rapsodia per il teatro. Arte, politica, evento, a cura di F. Ceraolo, Pellegrini, Cosenza 2015.
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000.

Tags     Almodovar, cinema, corpo, memoria, vita
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