Tutto ruota intorno ad una idea, ad una invenzione narrativa che diventa anche forma generatrice di racconti e di incontri, di morti e di resurrezioni, di sparizioni e ritorni: il multiverso. Idea non nuova ovviamente quella dell’esistenza parallela di molteplici universi; è un’idea che ha attraversato la storia del pensiero, le forme di narrazione, la teoria fisica contemporanea. È una forma complessa, affascinante, che ha dato origine a teorie fisiche differenti, nonché a posizioni radicalmente opposte tra i fisici teorici, a volte propensi ad accettarne la possibilità, a volte opponendosi ad ogni sua formalizzazione, in fondo priva di qualsivoglia prova sperimentabile. Ma la dimensione teorica, puramente speculativa del multiverso si rivela una dimensione dinamica, in continua espansione se pensata come forma generatrice di storie. La possibilità di immaginare molteplici universi si presenta infatti come una straordinaria potenza della narrazione. Essa permette di costruire sia universi-specchio (apparentemente sovrapponibili, differenziati tra loro da significativi rovesciamenti), sia universi-rizoma (in cui ogni variazione genera a sua volta una nuova linea temporale, e dunque un nuovo universo), oppure universi-bolla, in cui ogni universo è chiuso in se stesso, totalmente isolato rispetto agli altri.
Impossibile ricostruire nel breve spazio a disposizione la storia narrativa del multiverso, essa stessa ricca di derive, spostamenti, eccezioni. Ma ciò che caratterizza la produzione narrativa (letteraria, cinematografica, seriale, fumettistica, videoludica, ecc.) legata all’idea di multiverso è appunto la potenza della variazione, della contaminazione e della moltiplicazione delle possibilità di racconto che ogni proliferazione di spazi e storie porta con sé. Le teorie del multiverso scivolano gradualmente dal terreno della fisica teorica a quello del dispositivo dell’immaginario.
Una delle più potenti macchine generative di narrazione nell’universo mediatico contemporaneo è senz’altro la Marvel, intesa sia come produttrice di film e serie legate al Marvel Cinematic Universe, sia come storica casa di produzione di fumetti. Negli anni ottanta, proprio mentre la DC Comic stava cercando di fare ordine all’interno dei molteplici universi narrativi cui aveva dato vita nel corso del tempo con il crossover-evento Crisis on Infinite Earths (Wolfman, Pérez, 1985-1986), Frank Miller dava un codice all’universo dove hanno luogo la maggior parte delle storie Marvel, Terra-616. La numerazione degli infiniti universi permette allora di sperimentare narrazioni alternative degli stessi personaggi, nuove combinazioni, alleanze, passaggi inter-dimensionali. Gli eroi si moltiplicano, ritornano sotto infinite variazioni, come nella storyline-crossover di Dan Slott, Spider-Verse (2014-2015), che coinvolge una serie potenzialmente infinita di versioni dell’Uomo Ragno, compresa la versione Ultimate, in cui Spiderman è un ragazzo afro-portoricano di Brooklyn (Terra-1610), Miles Morales, protagonista poi del film di animazione Spider-Man: Into the Spider-Verse (Persichetti, Ramsey, Rothman, 2018).
Il multiverso: la variazione potenzialmente infinita come potenza del narrativo; è qui che si colloca uno dei criteri principali di sviluppo della Fase 4 del Marvel Cinematic Universe, nonché uno dei punti chiave di una pratica narrativa contemporanea che si basa appunto sul rifiuto della chiusura narrativa: una storyline, in questa prospettiva, non è mai definitiva; essa è infatti aperta a molteplici variazioni, allorquando può far intervenire personaggi provenienti da altri universi, o quando può giocare sul rapporto tra ordine e disordine, tra armonia e disarmonia che ogni collisione o contaminazione tra universi porta con sé. Soprattutto, la storyline non è mai definitiva perché in essa, nulla è irreversibile, nemmeno la morte.
Ecco allora configurarsi la possibilità dell’incontro tra una pratica cinematografica – quella di Sam Raimi – e una nuova pratica della narrazione – quella dei molteplici universi MCU – proprio intorno alla possibilità di sviluppare la macchina intorno ai due personaggi capaci di muoversi tra gli universi: Doctor Strange e America Chavez. Doctor Strange nel multiverso della follia segna il ritorno di Raimi ad una produzione ad alto budget e soprattutto ad una visione ambivalente e “doppia” del supereroe. Già nella prima trilogia Sony dedicata a Spiderman (2002-2007), Raimi ha declinato nel mondo Marvel il suo interesse per lo sdoppiamento, per i personaggi dalla doppia personalità, o attraversati, sia pure momentaneamente da una vena di follia. Da Evil Dead a Spiderman 3, passando per le ultime prove del regista americano, come Drag Me to Hell (2009) o Il grande e potente Oz (2013), Raimi disegna un mondo attraversato da una follia costante, dalle molte facce dove spesso i personaggi si rovesciano nei loro opposti, lasciano intravedere una vena violenta o pericolosa. La versione di Raimi dello Stregone Supremo dell’Universo Marvel è in un certo senso preparata da una serie di archi narrativi che hanno caratterizzato la produzione recente della Marvel, a partire da The Death of Doctor Strange (McKay, Garbett, Fabela, 2021-22) e America Chavez: Made in the USA (2021), dove la supereroina queer latino-americana è scritta e disegnata da un team di artisti latini, come Kalinda Vazquez e Carlos Gómez.
È in questa sinergia tra produzione fumettistica e cinematografica (all’interno della quale confluisce ovviamente anche la realizzazione di serie e miniserie destinate alla piattaforma Disney+), che si fonda la strategia del demiurgo Kevin Feige, produttore e presidente della Marvel Studio, artefice non solo della linea narrativa della Marvel nell’epoca della sua resurrezione, ma anche ideatore di una pratica narrativa che in un certo senso diventa, oggi come oggi, una delle forme su cui una teoria del racconto deve necessariamente soffermarsi.
La miniserie sulla morte dello Stregone Supremo, su cui indagano le versioni alternative di Strange provenienti da altri universi, si incrocia con lo sguardo di America Chavez, personaggio in grado di muoversi tra universi diversi, e figura simbolo di una nuova America, multietnica e LGBTQ-friendly. I loro mondi si incontrano nel film di Raimi, che gradualmente, con il passare dei minuti li immerge letteralmente all’interno della sua idea di cinema, fatta appunto di personaggi doppi, ambivalenti, spinti da pulsioni differenti. Il primo Strange che aiuta America è pronto a sacrificarla per il bene dell’universo; Wanda Maximoff (Scarlet Witch), reduce dal mondo artificiale da lei creato in Wanda-Vision, è combattuta tra il suo status di Avenger e il desiderio radicale di trovare un universo dove potersi riunire con i propri figli. I supereroi di altri universi possono distruggersi tra loro, o istituire tribunali giudicanti (come gli Illuminati). Raimi sa bene come muoversi in forma visionaria e spettacolare lungo l’ambiguità dell’esistenza umana, dei suoi principi e dei suoi valori etici. In fondo, la giovane bancaria Christine Brown, protagonista di Drag Me to Hell, è il perfetto personaggio positivo della società americana, ma è anche lo spietato strumento del meccanismo bancario che rovina la vita alla vecchia signora che richiedeva una proroga al suo pagamento. Così come il Peter Parker di Spiderman 3, che è inebriato dal potere di Spiderman fino a fare del supereroe l’espressione di un puro nichilismo edonista. Il doppio, la zona oscura, lo spazio nero che attraversa ogni esistenza è la dimensione infernale della vita che Raimi non ha mai smesso di mettere in scena, da Evil Dead in poi.
Di fatto, in tutti o quasi i film di Raimi, l’inferno emerge come controcampo necessario, come parte integrante della dinamica della vita. Non fa eccezione il suo Stephen Strange, costretto a confrontarsi con innumerevoli versioni di se stesso, allorquando l’immagine letteralmente travalica ogni mondo, li attraversa tutti. Ed è qui, nella seconda parte del film, che il regista americano dà sfogo alla sua potenza visionaria, alla possibilità di fare di ogni mondo, da quelli dei vivi a quelli dei morti, uno spazio dell’azione e della narrazione. È qui, inoltre, che la potenza del cinema che si basa sul passaggio degli universi mostra le sue possibilità. Le sequenze acrobatiche di Raimi (i duelli di Pronti a Morire, 1995, o il mondo rovesciato in cui si risvegliano i morti in L’armata delle tenebre, 1992) riecheggiano qui in forma ancora più potente – il salto dei mondi, la battaglia a colpi di note musicali. L’incontro tra lo sguardo d’autore del regista americano e la potenza autoriale della macchina narrativa di Feige è fecondo. Il cinema sperimenta una nuova tappa. Su tutto dunque la potenza generativa della ripetizione e della variazione: la teoria del multiverso, diventata potente teoria della narrazione nell’universo Marvel, nega la freccia del tempo proprio quando la afferma.
In Vertigo di Hitchcock, Scotty, nel suo disperato tentativo di far rivivere Madeleine attraverso la trasformazione di Judy, le grida disperato, come ricordava Chris Marker: «You’re my second chance!». Marker diceva che qui stava il più grande desiderio del cinema, quello di avere una seconda possibilità, di poter rivivere una vita, più e più volte, di poter modificare e invertire il tempo. È il desiderio di Wanda nel film, ma è di fatto il desiderio inespresso di tutti i personaggi. In modo esplicito, il multiverso della Marvel sembra rendere questo desiderio non solo realizzabile, ma trasformabile e modificabile all’infinito. L’eroe non muore mai anche se muore mille volte. Ogni sua vita possibile può essere raccontata. Madeleine può tornare ancora una volta. Stiamo dunque assistendo alla radicale realizzazione della potenza del cinema? L’interrogativo rimane aperto perché è probabilmente qui che si apre lo spazio del pensiero, la messa in questione della teoria che oggi come oggi necessita di essere affrontata.
Doctor Strange nel multiverso della follia. Regia: Sam Raimi; soggetto: Stan Lee, Steve Ditko (fumetto); sceneggiatura: Michael Waldron; fotografia: John Mathieson; montaggio: Bob Murawski, Tia Nolan; musiche: Danny Elfman; scenografia: Robert Stromberg; costumi: Graham Churchyard; interpreti: Benedict Cumberbatch, Elizabeth Olsen, Chiwetel Ejiofor, Benedict Wong, Xochitl Gomez, Michael Stuhlbarg, Rachel McAdams; produzione: Marvel Studios; distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures; origine: Stati Uniti d’America; durata: 126′; anno: 2022.