Il maestro Richet chiede a un suo piccolo allievo di raccontargli da che cosa sia distratto. Questi gli porta una cartolina scritta dal “centro della Francia” da una sua cugina. Non lo manda dietro la lavagna, non lo spedisce dal preside, non scrive una nota da far firmare ai suoi genitori. Cambia argomento alla lezione e spiega ai suoi giovani studenti le regole di composizione di un indirizzo. Un altro studente lo interrompe, non perché sia stato in quel paesino, ma per mostrare a tutti la sua memoria in fatto di codici postali. Qualcuno bussa alla porta, è la compagna del maestro, venuta a chiedergli le chiavi di casa. Richet chiude la porta della classe, ma dal vetro offuscato gli studenti scorgono con divertimento il bacio che si stanno scambiando gli adulti.

Nella classe accanto, la signorina Petit sta facendo ripetere un brano del monologo di Arpagone dall’Avaro di Molière. Il primo a essere interrogato non ha il libro, dice di non possederlo. La maestra non si chiede il motivo, ma gli consegna la sua copia e gli dà qualche minuto per impararlo a memoria. Gli studenti si susseguono, qualcuno ricorda le battute, qualcuno si ferma dopo poche parole, nessuno riesce a dare a quelle parole un’intonazione teatrale, come richiede loro l’insegnante. Soltanto quando la signorina Petit si allontana, lo studente interrogato chiede alla classe attenzione per la sua recitazione quanto mai efficace e, implicitamente, ci rendiamo conto di come stesse recitando anche prima, ma un ruolo diverso, quello dello studente svogliato e dedito soltanto a uno studio mnemonico.

Questa sequenza, in apertura de Gli anni in tasca (Truffaut, 1976) permette di delineare con nettezza pedagogica due modelli educativi. Il primo, quello del maestro Richet, in grado di aprirsi alla contingenza e alla casualità della vita, di cogliere le occasioni di pensiero e d’azione che l’interazione con i suoi studenti permette. Il secondo, quello della signorina Petit, pur se oramai lontano dagli atteggiamenti autoritari degli insegnanti del collegio di Zero in condotta (o dell’istituto de I 400 colpi), chiede invece ai suoi studenti di produrre delle performance, di saper ripetere delle informazioni, riuscendo però al contempo a trasformare la meccanicità di quel sapere in qualcosa di naturale, di spontaneo, come se fosse liberamente adottato. Questi due modelli, nel loro confliggere antinomico, articolano due paradigmi che sono comunque interni alla modernità: quella del libero cittadino, che arriva fino alle formulazioni estreme del maestro ignorante di Jacotot, o quello del funzionario dell’Impero napoleonico (e poi dello Stato), che difatti ha dato vita all’organizzazione del lavoro scolastico incentrata sulla programmazione e sulla valutazione. Sono due poli estremi.

Ogni sistema educativo, che sia quello tardo-positivista di Montessori, che ha attraversato anche il ventennio fascista, o quello della disciplina cosciente di Makarenko, che ha poi innervato il sistema educativo sovietico per molti decenni, o quello della scuola di Barbiana che ha guidato la didattica inclusiva della scuola italiana dagli anni settanta (e trova nel Diario di un maestro il suo “precipitato” filmico), deve raggiungere delle forme di negoziazione interna, che rispondono al contempo a esigenze storico-contingenti ma soprattutto a una visione dell’uomo. A un’antropologia che, nei casi più consapevoli, non nasconde il suo fondamento ontologico.

Questi due modelli non possono che convivere, se non vogliono implodere su se stessi, e ogni sistema educativo lavora attorno alla tensione che essi articolano. Giocando a parafrasare Kant, il pensiero di un libero cittadino senza informazioni è vuoto, la sensibilità di un funzionario senza un’identità etico-politica è cieca. Più che insistere sulla falsa alternativa, si tratta di riconoscere, e questo è appunto il compito di un’interrogazione ontologica preliminare al progetto pedagogico, quale gerarchia costruire tra i due lati. E allora possiamo dire che non abbiamo mosso un passo dal problema di Kant e, in chiave più strettamente pedagogica, dello Schiller delle Lettere sull’educazione estetica. Se “gerarchicamente” consideriamo prioritaria la formazione del cittadino, ciò implica un orizzonte ontologico in cui è affermata la possibilità di quel soggetto di agire attivamente e quindi la libertà stessa dello spazio-in-comune: detto in altri termini, il mondo che abitiamo è un continuo insorgere vitale di contingenze, rispetto alle quali continuamente proviamo a riadattare i nostri schemi di comportamento e di comprensione, le nostre progettualità e le nostre memorie, come il maestro Richet con la cartolina del suo studente.

Andiamo verso l’oggi. La sospensione della didattica in presenza e la proliferazione delle soluzioni digitali per poter mantenere un progetto educativo stanno iniziando a produrre, dopo le prevedibili reazioni dei “tecnoclasti” e “tecnofili”, riflessioni più meditate. Proviamo a mettere ordine. L’aspetto più evidente è che si sono intrecciati due nodi che, in questa fase pandemica, si confondono. Il primo nodo riguarda l’ambiente nel quale svolgere la didattica: l’aula scolastica, la classe virtuale in rete, o altri ambienti che si stanno immaginando in queste settimane, a volte rispolverando l’invito di Rousseau a un progetto educativo non confinato tra le mura di un edificio. Il secondo nodo tocca invece la scelta degli ausili didattici con i quali mettere in atto la nostra idea di scuola, che sia l’esperienza diretta, un libro, un esperimento scientifico, una proiezione, il grafico alla lavagna o, appunto, l’utilizzo della rete. Nel momento in cui si sono sovrapposti ambiente e ausilio didattico, è emerso come l’ambiente d’apprendimento non sia neutrale rispetto all’orizzonte ontologico che fonda il nostro progetto pedagogico. Ma questo vale per l’aula virtuale, come per le nostre aule scolastiche, che affastellano e stratificano ausili didattici legati a tempi e strategie diverse, senza più quel disegno d’insieme che, per esempio, caratterizzava la didattica di Montessori e che avrebbe un paradigma lontano ma ben riconoscibile: lo spazio pubblico come riflesso dell’ordine ideale della nostra res publica, come immaginato dalla tradizione umanistico-rinascimentale.

Ecco quindi che il presente al tempo della DAD (didattica a distanza) si rivela come l’attimo che illumina il passato più o meno recente: quello in cui abbiamo smesso di pensare all’ambiente d’apprendimento, assuefatti all’idea che le ristrettezze economiche ci obbligassero ad accettare spazi non più ordinati, senza alcun riferimento ideale, come se quello spazio dovesse necessariamente proporsi come una variante degli spazi disciplinari descritti da Foucault, piuttosto che una ripresa e una sperimentazione della città ideale. Città, sia ben chiaro, il cui principio d’ordine non deve replicare quell’idea di bellezza platonica (e neoplatonica), ma che dovrebbe essere un luogo pensato a partire da quale forma di cittadinanza vogliamo costruire, e non soltanto quali competenze esercitare. Quello spazio condiviso va raggiunto. Il bambino dell’Albero degli zoccoli doveva percorrere chilometri a piedi, con le scarpe rotte, per poter ricevere la sua istruzione, Antoine Doinel ne I 400 colpi cercava uno spazio per leggere, rintanato nel suo letto nel corridoio all’entrata della sua casa, gli studenti del Diario di un maestro erano pressoché pedinati dal proprio insegnante tra le baracche delle periferie romane. Oggi a segnare le differenze sarà anche il possesso del dispositivo, la connessione adatta, la stanza libera dagli altri membri della famiglia.

Ma ancora di più, quello spazio condiviso va attraversato. Deve mettere in gioco, prima ancora che delle intelligenze, o degli io morali, dei corpi. Di nuovo, potremmo dire che le attuali aule virtuali hanno radicalizzato il gioco sociale dell’identità che si costruisce attorno a essi. Ogni studente, come ogni professore, è un attore che gioca un ruolo e che giorno dopo giorno rielabora, attraverso un delicato meccanismo che incrocia le nostre proiezioni sul nostro io con quelle degli altri “attori” che condividono il nostro spazio. Un bricolage, piuttosto che una macchina.

Non vi è perciò la contrapposizione ingenua tra un’aula fisica nella quale saremmo autentici e un’aula virtuale nella quale falsifichiamo le nostre identità. Ognuno di noi, attraverso le tecniche con le quali entriamo in mediazione con gli altri, e il linguaggio ne è la prima, virtualizza, ossia opera un distanziamento dal contatto immediato, e perciò mette in scena il proprio Io. È semmai “l’inconscio corporeo” quello che viene a mancare, almeno nelle forme che i dispositivi delle aule virtuali oggi ci consentono: quello che il nostro corpo fisico manifesta al di là delle nostre intenzioni o desideri o proiezioni sul nostro Io. Lo studente può facilmente disconnettersi e attribuire il proprio schermo nero a problemi legati al wi-fi.

L’aula non è quindi riducibile a uno spazio fisico, luogo di una presenza reale, da contrapporre allo spazio digitale. Il rapporto del nostro corpo con l’ambiente è costruito, nell’aula fisica come in quella digitale. L’aula è uno spazio sociale, nel quale sperimentiamo e costruiamo le nostre identità sociali e le nostre idee di comunità. La nostra capacità di stare assieme. Quello che stiamo osservando in queste settimane non sono né le magnifiche sorti e progressive, né un incubo distopico. Sono i primi passi di un cammino che impegnerà decenni e secoli verso la capacità di compenetrare i nostri corpi con queste tecniche e con lo sviluppo da parte del docente di saper vedere che cosa impedisce a quel singolo di prendere la parola, di partecipare al gioco sociale dell’aula, come ancora stiamo imparando con il linguaggio e con gli altri dispositivi tecnici che usiamo per entrare in relazione tra di noi. La maestra Petit ancora non sa vedere quello che Truffaut, con pudore baziniano, ci mostrava già nella prima inquadratura dedicata al piccolo Juline Leclou, lì dove i suoi pantaloni sdruciti e la maglietta impolverata facevano intuire il disagio sociale da cui proveniva. Il suo aggirarsi solitario tra le giostre oramai chiuse.

Ogni tecnica è distanziamento. È rottura dell’immediato. Didattica è lavorare attorno a questa distanza, che si sovrappone e in queste settimane si sta confondendo con la distanza rispetto allo spazio condiviso. E l’accesso a ogni tecnica porta su di sé il peso delle differenze che ogni corpo, ogni storia porta su di sé. Attraversiamo lo spazio condiviso grazie a delle tecniche linguistiche e degli oggetti tecnici. Anche quando siamo gli uni accanto agli altri, stiamo lavorando questa distanza. Se ci volgiamo al problema della formazione del “funzionario”, la didattica di questi mesi ci ripropone un tema antico, ossia come le tecniche che esercitiamo siano sostanzialmente logocentriche, imperniate sul linguaggio verbale, la sua scrittura, e il suo oggetto tecnico centrale, il libro. L’apprendimento di altre tecniche linguistiche, da quello musicale a quello delle immagini riproducibili meccanicamente, rimane ancora confinato a un campo di specialisti, come se fossero tecniche riducibili al loro uso estetico. Questo perché l’apprendimento delle tecniche è letto quasi sempre soltanto nell’ottica della formazione del funzionario, in questo caso di “addetti” alla produzione di oggetti esteticamente piacevoli, così da rimuovere il ruolo di tali tecniche nella costruzione della nostra identità di cittadino.

Tornando di nuovo a Schiller (e Kant): imparare a suonare uno strumento musicale, così come in tempi più recenti a perlustrare con le telecamere di macchine da presa (e di smartphone), ci insegna a stare con gli altri, a cercare accordi, a provare a “rimontare” i suoni e le immagini visive già prodotte come, nel campo dell’audiovisivo, oramai un secolo fa provava a fare Vertov con i Giovani pionieri sovietici con il suo progetto del Kinoglaz. Pensare la tecnica non soltanto nell’ottica del funzionario, ma volgendosi alla prospettiva del cittadino, significa non costringere l’altro a essere una presenza sempre disponibile, in grado di produrre performance, ma lasciare all’altro anche la possibilità di rifiutarsi al dialogo. Significa che lo spazio che stiamo attraversando non è omogeneo, ma è abitato da distinti distanti.

Gli anni in tasca potrebbe sembrare un film minore nell’opera di Truffaut. È l’unico però a consegnare un discorso esplicitamente politico, il saluto del maestro Richet alla sua classe, in cui insiste sul disinteresse della politica verso l’infelicità dei bambini. E ci consegna in apertura di film, il contraccolpo alla scena primaria del suo cinema, quella fuga di Antoine Doinel con cui reagiva alla sua progressiva e sempre più radicale messa al bando, decidendo di allontanarsi lui stesso, per finire di fronte a quel mare materno che è stato il primo spazio a rifiutarlo. Questo contraccolpo è ne Gli anni in tasca una scena di redenzione: i bambini che invadono le vie della città, correndo a perdifiato verso la vita, con le proprie cartelle e i propri zaini, inciampando sorridendo sbattendo l’uno contro l’altro. Forse la città ideale è sempre stata davanti ai nostri occhi.

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