Two or three minutes a day of feeling, no more than that. Sometimes, a little more.
David Perlov, capitolo II

“To eat the soup or to film the soup.” In una delle sequenze di apertura del primo capitolo di Diary, la voce fuori campo di David Perlov, mentre riprende le figlie mangiare una zuppa fumante, ci mette di fronte alla questione fondamentale: difficile vivere e filmare contemporaneamente. Bisogna fare una scelta e, se si sceglie di filmare, differire il vivere di qualche momento. Ed è proprio nell’atto del differimento, del rimando, del “ritardo sulla vita”, che il diario filmico di Perlov si fa potente testimone della fugacità del tempo vissuto e del bisogno di affidarsi ad un altro tempo, quello del cinema e del montaggio, per riappropriarsene. In altre parole, quella distanza necessaria che si crea tra l’obiettivo e ciò che realmente sta accadendo intorno ad esso si apre intrinsecamente a nuovi possibili riavvicinamenti, quelli dettati dalla possibilità di archiviare un’immagine e avverare così un desiderio insperato, ontologicamente contraddittorio: non aver vissuto una situazione perché la si è filmata, eppure poter riviverla nella sua riproduzione.

Se il primo atto è quello del filmare, il secondo e più importante è quello del montare e del ri-guardare le immagini. Nel suo cine-diario Perlov concede generosamente allo spettatore entrambi, mostrandoci le immagini e svelandoci al contempo l’intervallo tra registrazione e memoria, fatto immortalato e immersione nel suo svolgersi, affidando questo scarto al fondamentale ruolo della voice over. È la voce off di Perlov, registrata e montata sulla pellicola dopo più di un anno dalla fine delle riprese, a prendere in carico quel tempo “in più” miracolosamente concesso dal cinema, infinitamente replicabile. È attraverso la voce che il regista, nel ripercorrere tutte le bobine, può concedersi la sua emozione differita.

Diary, l’opera più celebre del documentarista israeliano (brasiliano d’origine) e trasmessa per la prima volta nel 1983 da Channel 4, è stata oggi riproposta agli spettatori italiani nella sua interezza durante la XIII edizione di “Archivio Aperto” (quest’anno online su My Movies) in collaborazione con l’Archivio “Home Movies” di Bologna. Si tratta di un diario filmico (in bobine da 16 mm, ognuna di una lunghezza standard di 3’ e 12’’) della durata di dieci anni (1973-1983) e diviso in sei capitoli, tutti della stessa lunghezza (circa 55’). Un formato dunque “seriale”, che incontra dopo quasi quarant’anni dalla sua realizzazione uno spettatore che non potrebbe essere più avvezzo all’episodicità del racconto (in stile Heimat, 1984) e ad una narrazione che procede per puntate, scandita in capitoli “di vita” sapientemente montati in modo da creare un legame magnetico con il racconto.

Protagoniste indiscusse del diario sono le tre donne della vita del regista: Mira, la compagna di origine polacca e produttrice del film; Yael, la figlia maggiore, che presto comincia a montare le bobine con il padre imparando il mestiere e diventando in seguito una montatrice affermata (ha lavorato con registi del calibro di Claude Lanzmann, che compare nel film insieme ad altri volti noti come Ivens, Schwarst, Gonnet, Kinski); e Naomi, la minore, ballerina amante dell’Europa e della storia dell’arte, che quasi subito si trasferisce a Parigi portando con sé lo sguardo del padre e, dunque, del film. È proprio nel ritrarre la crescita delle due ragazze che il regista incappa nell’inaggirabile binomio vita/riproduzione, cadendo in quelle che nel film definisce delle vere e proprie “trappole” sul suo percorso. “J’existe”, dice Yael al padre il giorno in cui compie 23 anni. Poi parte per Parigi e compra una cinepresa, mentre la sorella Naomi comincia a registrare la sua voce quando il padre la riprende nei caffè di Denfert-Rocherau: “Papà mi sta filmando, siamo seduti ad un tavolino a bere una tazza di the”. A riproduzione risponde riproduzione, quasi in segno di ribellione e di annullamento della testimonianza.

Se l’intenzione iniziale era dunque quella di comprare una camera e “filmare il quotidiano in modo nuovo”, cercando di afferrare la dimensione dell’“ogni giorno” e dei “luoghi consueti” lasciando qualsiasi forma di intreccio fuori campo, le due figlie imparano prima di lui a convivere con la cinepresa e mettono in scena di fronte ad essa la vita nei suoi improvvisi momenti di condensazione e nelle sue svolte repentine, chiedendo al padre di filmarle mentre l’una sogna di partire e racconta di quel bel ragazzo di Firenze che le ha fatto conoscere Piero Della Francesca, l’altra piange e intavola un vero e proprio monologo di fronte all’obiettivo analizzando un tradimento e una storia finita. Prima di quel momento “a malapena l’avevo notata”, “manifestava una profondità che ignoravo”, confessa la voce fuori campo del padre, intendendo però qualcosa di più sottile: non aveva previsto fino in fondo quanto le figlie potessero far scontrare violentemente il racconto con la vita, la neutralità del “tutti i giorni” con la prepotenza del “sta succedendo questo, e voglio essere ascoltata”. Sulle immagini di una densa nebbia fuori dall’alto grattacielo nel centro di Tel Aviv, la voce del cineasta recita: “Davanti a te non vedi nulla, devi abbassare lo sguardo”. E lo sguardo si abbassa effettivamente su un incrocio di strade che avvertiamo sempre più familiare, sui passanti, sugli uomini e sulle donne a cui vuole farsi fisicamente prossimo. Sulle increspature della vita.

Questo vale per la storia familiare tanto quanto per quella ufficiale (la guerra tra Egitto e Siria, le elezioni del ’91 e la propaganda del partito laburista, il massacro di Sabra e Shatila), che il regista riprende spessissimo dallo schermo televisivo – filmando reportage e lasciando momentaneamente il fuori campo alle voci dei giornalisti – e poi spostando l’obiettivo in strada, sulle manifestazioni contro Sharon o contro la guerra in Libano, in un movimento molto simile a quello di Farocki, diversi anni dopo, in Videograms of a Revolution (1992). La camera deve abbandonare ogni utopica prospettiva di neutralità e accogliere l’evento, le stragi come le crisi di mezza età di coppie di amici che vengono a trovare i Perlov, la guerra e la chiamata nell’esercito delle figlie come una brutta caduta sulle rotaie del treno a Köln che costringe il regista a una lunga convalescenza a letto.

Ecco allora che, da “piccola creatura passiva” che si aggira in casa con il suo cine-occhio, filma i visi silenziosi dei suoi studenti universitari al corso di cinema, spia le signore sedute al caffè polacco sotto casa, Perlov assume la piena e attiva consapevolezza del mezzo che sta frapponendo tra la sua persona e la realtà e decide di farcelo vedere riflesso negli specchi della casa, ormai deciso a istituire un patto di differimento con eventi che non può non riprodurre ma di cui deve accettare la forma mediata attraverso cui via via gli si presentano, riservando a quel “dopo” della voce che ascoltiamo il loro definitivo afferramento. È Yael, inconsapevolmente, a suggerire il giusto metodo. Seduta al tavolo di montaggio, alle prime esperienze con il padre, si diverte a spiegare le fasi del lavoro. Dopo aver montato le bobine è necessario “distanziarsi” dice, “spostare indietro la sedia e guardare la propria opera da una diversa prospettiva, come fosse un quadro capovolto”. L’utilizzo della tecnica implica un offuscamento dello sguardo, la realizzazione di ciò che si è compiuto avviene solo attraverso la dilazione di quest’ultimo nello spazio e nel tempo.

Un taccuino con centinaia di note scritte nel riguardare queste immagini danno forma ad una voce narrante costruita come un montaggio di pensieri ora liberi di esistere, slegati dall’obiettivo, un continuum lirico-emozionale pronunciato da un timbro solo in apparenza freddo e atonale, e in realtà tanto soggiogato dai ricordi rappresentati da volerli riacquisire con rispetto e quasi soggezione, rendendo palpabile una parola distante perché è soltanto a distanza di tempo che ha potuto prendere forma. Ricorda a tratti quella di un altro cineasta, Peter Forgács, nella sua serie (anche questa ad episodi) intitolata Private Hungary (1988), che in modo simile, parlando su immagini di famiglia, coglie il “non detto” della rappresentazione. Con la differenza che Forgács ha di fronte immagini altrui, mentre Perlov tenta un differimento a proposito di scene che ha vissuto tutte di persona, una per una, da dietro l’obiettivo.

Anche le voci degli altri sono spesso montate in asincronia con le immagini: la voce di Naomi che sfoga la sua gelosia per Jean-Marc sovrapposta ad una scena che la vede in disparte mentre lo guarda flirtare con un’altra, quella di un amico d’infanzia di David che il regista ha quasi il riserbo di montare sulle inquadrature di strade di São Paulo, tenendo per sé il viso commosso di un uomo che non vede da anni. Un delay che si riflette in un sonoro tutto aggiunto in post-produzione: dal synch artificiale del rumore dei tacchi in strada, passando per scene di ballo in cui evidentemente la musica originale danzata è un’altra da quella montata e il regista si è divertito a sfalsare il ritmo dei gesti da quello musicale, arrivando ad una lavorazione quasi sperimentale del suono e della sua incalzante percussività – come nella sequenza in cui il regista ci mostra, solo in casa, le fotografie di famiglia, i disegni e i quadri appesi alle pareti.

Un’armonia del differimento, potremmo chiamarla, in cui tutte le componenti dell’opera si ritrovano solo nella distanza. “Faccio film di famiglia, quindi vivo. Vivo, quindi faccio film di famiglia”. Il “cogito” di Mekas per Perlov non funziona. Se il regista lituano disegna schizzi sensazionalistici da avanguardia di primo Novecento, montando direttamente in macchina un’inquadratura con l’altra, Perlov si impone una precisa grammatica di visione che si distanza dalla vita per ritrovarla vicina a sé solo nella riconfigurazione successiva dei materiali. Non tanto un’autobiografia come «scrittura della vita presa in esame», quanto un «autobiografismo» in cui le vicende vengono successivamente personalizzate (Pulsoni 2020).

“Voglio tornare in Brasile, ma continuo a rimandare la partenza”. Il regista fa fare al tassista più giri intorno al terminal dell’aeroporto persino quando arriva la mattina, nell’ultimo capitolo, del tanto agognato viaggio. Un “costant delay” anche nel recupero delle proprie origini, fino a che il regista si decide a partire per Rio de Janeiro e a tornare sulla tomba della madre “analfabeta”, a cui in esergo dedicava il film.

Riferimenti bibliografici
R. Odin, How to Make History Perceptible. The Bartos Family and the Private Hungary Series, in B. Nichols, M. Renov, a cura di, Cinema’s Alchemist. The films of Peter Forgács, University of Minnesota Press, 2011.
G. Pulsoni, Il cinema diaristico di David Perlov, in “Il Manifesto” (Alias), 31.10.2020.
G. Simi, Jonas Mekas: pratiche di spostamento dai diari scritti ai diari filmati, in “Arabeschi”, n. 1, gennaio-giugno 2013.
Conversazione di G. Simi con Y. Perlov, Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia (diretta fb).

Diary. Regia: David Perlov; montaggio: Dan Arav, Noga Darevski, Jacques Ehrlich,. Boaz Leon, Yael Perlov, Shalev Vines, Levi Zini, Yosef Greenfield, Bat Sheva Yancu, Liran Atzmor, Dan Muggia; musiche: Shem Tov Levi; produzione Channel 4, Keshet Media Group, JCS Productions, Belfilms Ltd., Channel 8, The Israeli Film Service, Telemedia Productions; origine: Israele; anno: 1983; durata: 630′.

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