Due donne ballano in una piazza di Mosca, ci sono anche altre coppie, sono tutte donne; è un momento di distensione nel clima plumbeo della ricostruzione, ma loro non sorridono, stanno interpretando un ruolo. In Russia le fotocamere di Robert Capa si rifiutano di fotografare, nessuno collabora, ma lui doveva essere soddisfatto di questo scatto, forse un’eccezione capace di estendere il cerchio della nostra interpretazione: queste donne hanno conosciuto il terrore staliniano e la guerra nazista e sanno che non è ancora finita, sospettano di ogni sguardo, lo dicono inconsapevolmente gli occhi di una di loro rivolgendosi al fotografo.
Il fotogiornalismo storico è stato certamente il contesto ideale, una terra di mezzo di elezione, per un fruttuoso incontro tra talenti fotografici e letterari. Erano i suoi stessi obiettivi a richiederlo: dagli anni trenta ai settanta i settimanali ebbero il compito, prima di cedere alla concorrenza televisiva, non solo di informare ma di proporre ai lettori un approfondimento di qualità; a differenza dei quotidiani potevano riflettere distesamente sugli eventi, anche raccontando storie esemplari di individui comuni, che ricevevano lo stesso rilievo delle famiglie reali o dei primi ministri. Per questo ci volevano sia fotografi in grado di realizzare ampi racconti per immagini, sia giornalisti-narratori o meglio ancora scrittori affermati capaci di scolpire vividamente, proprio grazie al supporto della fotografia, realtà a quei tempi spesso del tutto ignote ai lettori. Scrittori capaci di confrontarsi con il reale, come John Steinbeck, un instancabile osservatore, che, come disse Gore Vidal, non «inventa» cose ma le «trova» (Whitt 2006, p. 41).
Quando Steinbeck incontra Robert Capa perso davanti a un drink al Bedford Hotel di Manhattan, trova un uomo irrequieto come lui. È il marzo del 1947, la guerra ha segnato tutti ed è ancora un fantasma: insoddisfazioni personali e professionali hanno fatto perdere allo scrittore l’abituale idealismo, così il suo editore gli suggerisce di rispondere alla proposta del “New York Herald Tribune” di sponsorizzare un viaggio in Russia con Capa, che può diventare un’occasione per liberarsi della depressione e ritrovare i valori che hanno ispirato i suoi romanzi. Per Steinbeck l’America del dopoguerra ha perso autenticità, che forse è ancora rintracciabile tra le genti lontane e misteriose delle repubbliche sovietiche. Capa è altrettanto curioso: ha appena fondato la Magnum, l’agenzia che dovrà sottrarre i fotografi alla tirannia delle redazioni, e vede la Russia come un soggetto perfetto per un ampio reportage.
Un viaggio dunque di ricerca dei valori che la modernità industriale non è in grado di garantire, e il cui stesso itinerario si può leggere come una progressiva rivelazione, dalla cupa capitale sovietica profanata dai tedeschi, alla solare Ucraina, fino alla mitica Georgia. Ne risulteranno centinaia di negativi e centinaia di pagine di appunti, e un libro che è stato definito significativamente un «sermone antimoderno» (Jacobson 2016, p. 52).
La Russia di Stalin è un paese chiuso e sospettoso verso il mondo occidentale almeno quanto lo è l’America verso la culla del comunismo. Mentre imperversa la battaglia delle rispettive propagande, fotografo e scrittore si propongono allora di scoprire e raccontare quello che i media ignorano: come vivono i russi, come mangiano e come fanno l’amore. I due sembrano voler combattere la loro personale guerra contro l’incombente cortina di ferro, che ad appena due anni dalla fine del conflitto mondiale rischia di far ripiombare l’intero pianeta in una nuova micidiale contrapposizione armata. Per un compito così difficile serve non solo un grande narratore, ma anche – più che una poesia – una “prosa poetica” delle immagini, come quella di Capa. La macchina fotografica peraltro viene ancora da molti associata alla guerra, è stata protagonista di due apocalissi mondiali e complice crudele dei totalitarismi; dove compare sembra annunciare catastrofi, è un «presagio di distruzione, e come tale tenuto in grande sospetto, e giustamente», rimarca Steinbeck. La percezione dei fenomeni va sempre restituita al suo contesto, la considerazione della fotografia in quegli anni non è la nostra, e forse anche per smentire questa cattiva fama molti reporter nel dopoguerra si incaricarono di raccontare un nuovo “umanesimo”, quello di chi di guerra non ne vuole più sentir parlare e preferisce baciare la propria fidanzata per le strade di Parigi o godersi una giornata di sole sul fiume. E anche Capa e Steinbeck sbarcano in Russia con uno spirito umanista.
Da diversi anni non si vedono reportage sull’URSS, Capa allora decide di portarsi dietro ben due Contax e due Rolleiflex, oltre a una attrezzatura monumentale. Tutti conoscono le sue straordinarie narrazioni del reale, ma anche lo scrittore, che si mostra risentito contro il “giornalismo moderno”, sembra animato da una poetica fotografica, come se il severo occhio di vetro della fotocamera potesse tenere a freno i pregiudizi: «Probabilmente la cosa più difficile al mondo per un uomo è la semplice osservazione e accettazione di quello che esiste. Sempre mettiamo in relazione ciò che vediamo con quello che abbiamo sperato, aspettato e temuto. In Russia vedemmo molte cose che non collimavano con ciò che c’eravamo aspettati, e perciò è una buona cosa avere delle fotografie perché una macchina fotografica non ha preconcetti e fissa semplicemente quello che vede». Naturalmente non è facile rinunciare alla propria soggettività anche in presenza dell’obiettivo; lo spiegano bene alcuni illustri precedenti: scrittori e fotografi americani si sono già incontrati in progetti ormai celebri – come You Have Seen Their Faces (1937) di Erskine Caldwell e Margaret Bourke-White o Sia lode ora a uomini di fama (1941) di James Agee e Walker Evans –, che avevano tratto origine da quell’evento fondativo di una certa idea di fotografia documentaria che fu la Grande Depressione; una storia che Steinbeck conosce bene, per essere stato autore del romanzo di maggior successo su quei temi, anche questo di forte ascendenza fotografica (Furore, 1939).
Non tutto però va per il verso giusto. La prima impressione della Russia sovietica la ricevono a Mosca: qui i russi sembrano davvero poco fotogenici, anche a prescindere da Stalin, scivolano per le strade a testa bassa e senza alcuna allegria, forse troppo impegnati nell’opera epica e immane della ricostruzione. La distanza tra le risorse della scrittura e quelle dell’immagine si rivela subito: rispetto alle aspettative, a Steinbeck i moscoviti comunicano un senso di vuoto, ma la penna può più facilmente muoversi tra i contesti o la descrizione di atmosfere e sensazioni; Capa ha più difficoltà ad esercitare il suo spirito indagatore in tutta libertà: «I centonovanta milioni di russi sono contro di me. Non fanno incontri spaventosi agli angoli delle strade, non praticano uno spettacolare libero amore, non hanno nessun genere di novità, sono gente molto onesta, morale e laboriosa, insipida per un fotografo come una torta di mele».
Il clima in Ucraina – una terra certo sovietica ma non abbastanza russificata – è diverso, è un mondo solare e persino primitivo, dove i contadini sorridono e conoscono la leggerezza: via via che si allontanano da Mosca e fino alla magica e quasi primordiale Georgia, scrittore e fotografo trovano progressivamente ciò che sono venuti a cercare, una realtà antimoderna che rasserena lo scrittore e regala al fotografo l’indispensabile spontaneità dei soggetti. Il loro lavoro finalmente si allinea. Tutte le volte che questo è successo, il rapporto tra fotografo e scrittore è risultato più fecondo di quello tra fotografo e giornalista: alla concorrenza e ai conflitti frequenti nel mondo della stampa, ha fatto spesso riscontro un dialogo virtuoso che ha rappresentato per gli scrittori un’occasione speciale per una diversa riflessione sul reale.
Prima di partire Capa è in ansia per il destino delle sue fotografie, requisite per eventuali censure: ma a parte qualche foto di prigionieri o di luoghi sensibili, viene restituito quasi tutto, la vera gente russa nelle immagini c’è, e soprattutto coincide con quella descritta da Steinbeck: come ovunque, nella terra dei Soviet «i buoni sono la stragrande maggioranza». Nessun interesse invece viene mostrato dalle autorità per gli appunti di Steinbeck (dalla grafia peraltro incomprensibile). I russi sembrano pensare che con le parole certo si può mentire, ma sono solo parole, alle quali si può rispondere con le parole. Tutti i regimi autoritari (di ieri e di oggi) sanno che si può mentire anche con la fotografia, ma sanno anche che è difficile censurare un mezzo che è a disposizione di tutti, preferiscono cercare la complicità dell’obiettività fotografica allestendo la realtà totalitaria come una rappresentazione in cui cittadini sappiano già come comportarsi e di fronte a cui anche il più bravo reporter del mondo di senta impotente.
Riferimenti bibliografici
R. Miller, Magnum. I primi cinquant’anni della leggendaria agenzia fotografica, Contrasto, Roma 2016.
Z. Jacobson, John Steinbeck’s Quixotic Quest to the Soviet Union, “The Steinbeck Review”, Penn State University Press, Vol. 13, No. 1, 2016.
J. Jan Whitt, “To Do Some Good and No Harm”: The Literary Journalism of John Steinbeck, “The Steinbeck Review”, Penn State University Press, Vol. 3, No. 2, 2006.
John Steinbeck, Diario russo, con le fotografie di Robert Capa, Mondadori, Milano 1950.