Da un momento all’altro,
quel che era visibile è scomparso
dietro i suoi pugni chiusi,
come se l’uomo volesse trattenere
all’interno del cervello
l’ultima immagine colta, una luce rossa,
rotonda, a un semaforo.
Sono cieco, sono cieco, ripeteva disperato.

José Saramago, Cecità

Paucisintomatico: «Di forma morbosa che si manifesta con sintomi inferiori di numero e di minore intensità rispetto al consueto». Ma che cosa è il consueto, nella peste globale che ha segnato il 2020 e il 2021? Tutto appare oltre ciò che crediamo di conoscere. L’esistenza quotidiana senza relazioni, se non quelle mediate da uno schermo. Il divieto di spostarsi se non per necessità, definite da un’autorità certificatrice di bisogni e annotate su fogli di carta da esibire ai funzionari di pubblica sicurezza. La fame d’aria, l’anosmia, la spossatezza che sopravvive per mesi al morbo che qualcuno ha definito “poco più di un’influenza”. Questo è il diario della mia reclusione da paucisintomatico durante la terza ondata della pandemia di Covid-19.

Io sono il virus

Inizio febbraio 2021. Ce lo ripetiamo a cena, seduti a tavola con i bambini: un anno esatto da Codogno, un anno dalla chiusura delle scuole in Lombardia. I coriandoli del 2020 ancora chiusi nel cassetto. A Milano le temperature iniziano a sfondare il muro dei 10 gradi. Mia moglie ha ottenuto un appuntamento per vaccinarsi. I contagi sembrano stabili. Pare di poter iniziare a tirare il fiato. E invece. Il primo segnale arriva dalla scuola elementare dei miei due figli. Qualche caso di Covid-19, quarantena e didattica a distanza. Al settimo giorno della loro reclusione domestica, senza contatti fisici con altri compagni, pensiamo di averla scampata. E invece. Febbriciattola. Altri sintomi minori. Entrambi i bambini, a distanza di pochi giorni. Poi tocca a me. E a mia moglie. Tampone. Positivi. Isolamento fiduciario.

Nonostante abbia vissuto dodici mesi di pandemia nell’occhio del ciclone, la virulenta Lombardia, incorporare il virus cambia subito il mio punto di vista. All’improvviso non è più cosa d’altri, argomento di conversazione da social su cui si possano pontificare strategie, strali contro le scelte governative, considerazioni su quelli che non rispettano il distanziamento o sui fobici barricati in casaIo sono il virus. Palcoscenico su cui si muove scatenando i suoi particolarissimi mal di testa. Responsabile della sua propagazione qualora non osservassi le opportune misure di isolamento. Non si muove più intorno a me, ma con me. La prima reazione è di incredulità. Ma come?, mi dico, Proprio io, che ho osservato scrupolosamente ogni regola sensata, incorporato la FFP2 come un’estensione del mio volto, versato ettolitri di amuchina. Io. E infatti il virus non arriva da una cena con amici  –  e chi li vede più?  – né da qualche parente  –  i nonni sono prudentemente autoreclusi in attesa del vaccino. Il virus arriva dal posto più ovvio, la scuola.

Sintomatologia della vita pandemica

Giorno 1. I miei figli sono in DAD da una settimana. Il più piccolo, prima elementare, lamenta male alle gambe. Non ci allarmiamo subito. Non vede i compagni da una settimana, non può essere Covid. Giorno 2. Il mal di gambe diventa mal di testa. Vuoi vedere che…? Ma questa incubazione non durava 5 giorni? Giorno 3. Al mal di testa, che permane, si aggiungono poche linee di febbre. Ci siamo. Carnevale pandemico, ci mettiamo tutti in mascherina: quasi un gesto rituale, un’obbedienza formale e scaramantica ai consigli medici. So che ormai è troppo tardi. La febbre svanisce in 12 ore. Giorno 4. Mia moglie riceve la sua prima dose di AstraZeneca. Ci siamo abituati a chiamare i vaccini per marca, esprimiamo preferenze come se scegliessimo tra Huawei e Apple. Dopo poche ore ha un bicipite da superwelter e tutte, ma proprio tutte le reazioni avverse descritte come normali: febbre, emicrania, spossatezza etc. Io, forse per solidarietà, inizio ad avere mal di testa.

Giorno 5. Tutti a tampone. Mio figlio maggiore, quinta elementare, ha qualche linea di febbre e stanchezza. Anche per lui un decorso di mezza giornata. Il mio mal di testa evolve verso sensazioni sconosciute: quel dolore dietro gli occhi, che mi era stato descritto da molti amici e colleghi contagiati prima di me. Una stanchezza pervasiva. Non c’è dubbio, ci siamo: tocca a me.
Giorno 6. Compare la febbre. Poche ore dopo abbiamo l’esito del tampone: sono positivo, così come altri due dei miei congiunti  –  per usare la neolingua del Ministero della Pandemia. Uno dei miei figli, sintomatico, è evidentemente un falso negativo. Famiglia in isolamento fiduciario. Ci eravamo preparati all’evenienza assaltando supermercato e farmacia. Dovrei essere preoccupato: so che nei prossimi giorni starò peggio. Lo so dai racconti di amici e conoscenti colpiti dalla Covid-19. So che i sintomi andranno e verranno, so che potrei essere fortunato e paucisintomatico, oppure meno, imbottito di eparina e cortisone. Eppure sono molto lucido e mi vengono in mente le parole con cui Kundera parla dello stato d’animo di Tomáš ne L’insostenibile leggerezza dellessere, quando il medico perde il suo prestigioso lavoro per essere declassato a lavavetri (cito a memoria, dunque in modo impreciso): «Io credo che già da tempo Tomáš sentisse il desiderio di trasformare il pesante in leggero».

Mi sento improvvisamente leggero. Essere visitato dal virus significa guadagnare quella patente di immunità che non ho potuto ottenere grazie al vaccino. Significa, quando tutto sarà finito (due settimane? tre? un mese?), tornare alle più che dignitose norme igieniche pre-pandemiche; bere un caffé al bar senza guardare con sospetto gli avventori con la mascherina abbassata sul mento; smettere di vedere nell’altro un nemico, un untore, uscire dall’ansia costruita a colpi di DPCM e panico morale sui media. Non essere più, a mia volta, un pericolo per gli altri, e per i miei vecchi in particolare, con cui abbiamo interrotto i contatti da lungo tempo. Non è un momento razionale: è pura liberazione, concentrato di egoismo virale. L’idea che presto io e la mia famiglia, pur vincolati dal semaforo giallo-arancio-rosso dei decreti, saremo liberi dalla paura. Non mi stupisce che mio figlio maggiore, risultato negativo, sia quasi deluso dall’esito del tampone: con ogni evidenza ha contratto anche lui la Covid-19, ma è come se la mancanza del “patentino” gli sottraesse parte di quella dignità riservata ai reduci del virus. Inizia la parte organizzativa. Telefonate a medico curante e pediatra. Sospensione della mia lezione in presenza del giorno dopo  –  non una lezione qualsiasi: la mia prima lezione nel mio nuovo ateneo. L’idea mi crea più dolore che non il male nel frattempo esploso sulla mia schiena. Comunicazioni agli studenti  – qualcuno mi risponde promettendomi arance durante il mio isolamento.

Dopo pranzo mi accascio, sfinito, sul divano. I miei figli sono ormai così autonomi che iniziano le loro rispettive DAD senza che io debba muovere un dito. Dormo per mezzora, come mi capita solo d’estate dopo un pranzo luculliano in riva al mare. Rifletto. Perché molte persone che conosco hanno nascosto la malattia? Perché hanno mandato i figli a scuola, pur nell’evidenza dei loro sintomi? Perché tacciono, rendendosi invisibili agli occhi di medici e autorità sanitarie? Tacciono per paura dello stigma: il positivo è oggetto di curiosità morbosa. Lo si vede nelle pestilenziali chat di classe, dove si fanno supposizioni sull’origine del contagio: quello è uno che va sempre al bar senza mascherina, poi manda i figli infetti a scuola! Si addita l’untore: tuo figlio ha contagiato lintera classe! Ma tacciono anche per necessità: negozianti e partite iva che si vedrebbero costretti a sospendere l’attività, ad esempio. Non li giustifico. Ma mi sforzo di capire che con l’evidenza della malattia inizia la discesa nella gabbia d’acciaio dell’irrazionalità burocratica, fatta di tamponi, tempi di isolamento, tamponi di controllo da cui discendono altri tempi di attesa, classificazioni in congiunti, contatti diretti, contatti indiretti. Per chi voglia, non è impossibile aggirare la norma: basta tacere. Ed è forse qui che è fallita la strategia di contenimento: nel calare sui cittadini un apparato di controllo senza, parallelamente, lavorare sulla costruzione di un senso di responsabilità collettiva. Mi ridesto, incredulo che due sole lineette di febbre possano corrispondere a un torpore che, in precedenti influenze, ho provato solo sopra i 39°.

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