L’antropologia del tabù è la storia dell’umanizzazione dell’uomo. Almeno questo sembra suggerire il Freud di Totem e tabù (1913), secondo cui all’origine delle organizzazioni sociali e dei divieti morali andrebbe situata la vicenda mitica della rivolta della fratellanza ordalica, ribellatasi contro il padre e il suo “monopolio” sulle donne del clan, fino ad abbatterne il potere con smania omicida e a sbranarne infine le spoglie. Il gesto parricida induce però un rimorso “depressivo”, per usare una terminologia kleiniana, nei fratelli dell’orda, e li spinge a proibire il godimento dell’animale totem associato al padre assassinato e, di conserva, a interdire l’unione incestuosa con le donne sottratte al padre. Dunque, il tabù sarebbe legato, nella prospettiva freudiana, all’interdizione del godimento, al porre un freno rispetto a una spinta divorante: ciò che è più desiderabile è allo stesso tempo temuto in massimo grado (Freud 1975, p. 44), proprio per il carattere ingovernabile del Reale della pulsione.

Sulla scia dell’insegnamento freudiano, Jacques Lacan identifica nel padre della Legge di castrazione – il padre spodestato e “riparato” – l’argine simbolico al tratto illimitato della pulsione, il garante del patto (Lacan 2010) tra generazioni che impedisce la caduta nel vortice schizofrenizzante del godimento incestuoso della Cosa. È in questa cornice freudo-lacaniana che si inscrivono gli interventi raccolti da Massimo Recalcati nell’agile volume I tabù del mondo (2017), pubblicato per i tipi di Einaudi. Gli articoli che compongono il libro, originariamente pubblicati su “la Repubblica” nell’omonima rubrica, offrono al lettore un “compendio” dell’articolazione lacaniana della tensione vivificante tra Legge e desiderio.

Il tabù, nella sua accezione di limite all’azione umana, viene infatti spogliato da Recalcati della sua veste di residuo nostalgico di un’epoca repressiva e ripensato criticamente alla luce della dialettica Legge-desiderio. Saltare un ostacolo senza abbattere l’asta del tabù, per elevarsi nel confronto col senso del limite: è questa la lezione fondamentale dello scritto di Recalcati. Nel Seminario VII del 1959-1960 su L’etica della psicoanalisi, riprendendo la Lettera ai Romani di San Paolo, senza affermare la coincidenza tra Legge e Cosa, Lacan arriva però a stabilire un nesso ineludibile tra di esse: «La Legge è forse la Cosa? Questo no. Tuttavia io non ho potuto prender conoscenza della Cosa se non attraverso la Legge» (Lacan 2008, p. 98).

È la (trasgressione della) Legge, quindi, che permette l’accesso al desiderio: «Dove non c’è legge, non c’è nemmeno trasgressione» (Rom 4, 15), e su questo interdetto si innesta nel soggetto la tensione all’oltrepassamento del limite, poiché «il desiderio si costituisce in quanto trasgressione […] si tratta solo di una questione di frontiera, di limite tracciato; è al di là della frontiera oltrepassata che comincia il desiderio» (Lacan 2000, p. 289).

Il punto è allora il rapporto con la soglia, la declinazione dell’oltrepassamento in termini di sovversione o di perversione. La postmodernità è infatti, secondo Recalcati, improntata alla versione narcisistica dell’investimento pulsionale: «L’epoca ipermoderna, quella in cui viviamo, non ha forse trasformato l’Io stesso in un nuovo idolo pagano […]?» (Recalcati 2017, p. 17). Il narcisismo “egolatrico” che lo stesso Lacan identifica come cifra della contemporaneità prende la piega perversa di una pretesa autosufficienza volta ad annullare ogni ammissione di dipendenza dall’Altro. La “mancanza a essere” costitutiva del soggetto, il fallimento come dimensione destinale dell’esistenza, nell’altalena vitale tra resistenza e resa (ivi, p. 151) di fronte alla sfida ineludibile lanciata dalla morte, sembra non trovare cittadinanza nella società della performance, del successo a tutti i costi (ivi, p. 140) e dell’esibizionismo di un ego ipertrofico.

È questo il portato (o, meglio, il fraintendimento) dell’interpretazione anedipica (deleuziano-guattariana) del desiderio come non mancante di nulla, il credo della contestazione del ’68 e del ’77 poi convertito in culto edonistico dell’Io, in «negazione di ogni forma di debito simbolico nei confronti dell’Altro» (ivi, p. 16). L’egolatria ipermoderna, con la conseguente rottura dei legami solidaristici e comunitari, è la realizzazione compiuta della “mutazione antropologica” preconizzata da Pasolini: la dipendenza dal segno d’amore dell’Altro assente è stata barattata con la dipendenza dal godimento anedonico dell’oggetto presente – principalmente dell’oggetto(-feticcio) tecnologico.

La vita stessa diventa protesi dell’oggetto (ivi, p. 111), consegnandosi a un’angoscia che non è più causata dal lacerante senso di colpa di fronte alla Legge, mirabilmente raccontato da Dostoevskij, ma dalla interiorizzazione della “morte di Dio”, che ha volatilizzato la Legge rendendo tutto “maledettamente” possibile. Di fronte a un tale quadro psico-antropologico, Recalcati propone al lettore una galleria di parole e soprattutto di figure universali associate alla soglia del tabù, vuoi per la loro capacità di mettere in crisi produttivamente il senso del limite, vuoi per la sterilità perversa della loro infrazione del divieto.

La hybris che sorpassa la Legge può prendere la forma della volontà inflessibile di non cedere sul proprio desiderio, plasticamente rappresentata da Antigone: Recalcati mette bene in evidenza come l’oltrepassamento del tabù (quello della Legge dello Stato e quello della morte) assuma in Antigone un significato radicalmente emancipatorio. Antigone rinuncia alla vita pur di non rinunciare al desiderio, alla testimonianza dell’amore verso il fratello (ivi, p. 24). La Legge può essere sovvertita anche attraverso il ripensamento della sua rigidità, cosicché prevalga l’altro comandamento, la Legge dell’amore: è il caso della parabola evangelica del figliol prodigo: «Il padre della parabola è un padre capace di amare perché capace di perdonare, ovvero di sospendere l’applicazione automatica della Legge, nel nome dell’esistenza di un’altra Legge» (ivi, p. 58). Il padre del figliol prodigo accoglie quest’ultimo perdonando il suo smarrimento, la sua frenesia di raccogliere l’eredità paterna per poi dilapidarla miseramente. Il suo comportamento, paradossale agli occhi dell’altro figlio, ubbidiente e risentito, testimonia del fatto che solo ciò che è perduto può essere ritrovato. La fuga trasgressiva del figlio, la ribellione “isterica” al discorso del padre, si rivela sì velleitaria, ma allo stesso tempo trasformativa del legame generazionale.

Il superamento del limite, tuttavia, può presentarsi nella forma perversa della Legge calpestata, offesa, stracciata. È il caso dell’invidia di Caino, del suo odio verso il fratello – quell’odio come “passione dell’essere” che mi spinge a detestare l’Altro come icona vivente del mio carattere deficitario, mancante. L’Altro, per un meccanismo di proiezione, mi ricorda che non sono perfetto, di conseguenza, nell’ottica perversa, va annientato. È questo il legame di Narciso con Caino: la mia immagine imperfetta mi risulta insopportabile (ivi, p. 21).

A spingere alla rottura dei tabù più sacri è l’incontrollabilità dell’Altro o il suo tentativo di limitare il mio godimento, come nel caso di Medea, la donna che si spinge sino ad uccidere la propria stessa prole pur di vendicare il tradimento dell’amato. Medea rifiuta di veder ridotta la propria femminilità al tratto “borghese” della madre, reclama per sé il carattere eccedente del desiderio e dell’amore femminile (ivi, p. 73). La torsione perversa del desiderio oltre la Legge si riflette tragicamente nella figura della mantide, emblema dell’angoscia del soggetto ridotto ad oggetto del desiderio dell’Altro: Che vuoi?. Come nel film di Jonathan Glazer Under the Skin (2013), «creature demoniache che hanno solitamente l’aspetto di donne di estrema bellezza […] seducono le loro vittime prima di nutrirsi del loro corpo» (ivi, p. 123). Il messaggio lacaniano, attraverso la figura della mantide, è una rilettura dell’idea di angoscia. Quest’ultima non compare infatti di fronte alla mancanza dell’oggetto, di fronte alla libertà dello spazio aperto, ma piuttosto davanti alla presenza ingombrante dell’Altro e del suo desiderio. Il soggetto è così ridotto a oggetto, privato della sua libertà e gettato in pasto all’enigma del desiderio dell’Altro, che nella società ipermoderna può prendere le forme macchiniche del dispositivo digitale.

Una menzione merita anche il Don Giovanni “isterico”, mai soddisfatto delle proprie conquiste, sempre alla ricerca impossibile de La Donna. Il rifiuto della Legge da parte di Don Giovanni fa sconfinare inevitabilmente l’isteria nella perversione, secondo il canone del libertino portato alle sue estreme conseguenze dal marchese de Sade. Tra le figure del limite, spiccano inoltre quelle collegate in qualche modo alla nevrosi ossessiva e al tratto anale, come l’avaro e il collezionista (quest’ultimo in realtà è al crocevia di tendenze ossessive, narcisistiche e feticistiche).

Se l’isteria è disposta a barattare la vita col desiderio, l’ossessione pretende di neutralizzare il desiderio per salvaguardare la vita, di espungere il carattere sempre traumatizzante della pulsione (ivi, p. 30). L’espulsione dell’Altro dell’ossessivo come dell’avaro può d’altronde sconfinare nella paranoia, nel fondamentalismo che pretende di tracciare un solco tra i normali e i “folli”, tra la ragione e il nonsense. Ciò senza tener conto del fatto che tutte «le politiche puriste e fondamentaliste di anticontaminazione portano in se stesse il germe della follia più grande» (ivi, p. 83). L’istituzionalizzazione della follia, come insegna Foucault, identifica nel “folle” il grande escluso, con un effetto schizofrenizzante sulla psiche degli stigmatizzati e un rimbalzo verso l’interno di ciò che viene proiettato all’esterno: «La Ragione che emargina la follia è la stessa che si rivela folle proprio in questa sua spinta autoaffermativa» (ibidem).

Probabilmente, la figura che meglio riesce a fare da ponte tra le due differenti spinte, quella repressiva e nostalgica rispetto al tabù da una parte e quella volta illimitatamente alla sua cancellazione dall’altra, è per Recalcati quella di Ulisse: personaggio anfibolico, Ulisse da una parte si affida all’alto mare aperto, parte per un ritorno a casa che è in realtà un continuo détour, un differimento e uno sviamento dell’approdo a Itaca; dall’altra, seguendo la lezione di Heidegger nel breve scritto Aletheia, piange in segreto nell’udire il racconto della guerra di Troia dal cantore Demodoco. La narrazione delle terribili conseguenze del suo astuto ingegno non stuzzica la sua hybris, ma lo spinge al pianto e alla vergogna. In senso contrario rispetto al narcisismo esibizionista, Ulisse si schermisce, si mette in ombra, si fa piccolo, conserva il senso del fallimento (ivi, pp. 127-128), non scorda il suo debito nei confronti dell’Altro. È la grande lezione della Klein: di fronte all’invidia, all’attacco sadico rivolto alla felicità e alla vitalità dell’Altro, l’unico contravveleno disponibile è la gratitudine, il saper dire grazie all’Altro per il solo fatto di esistere.

Riferimenti bibliografici
S. Freud, Totem e tabù (1912-1913), in Id., Opere (1912-1914), vol. 7, Bollati Boringhieri, Torino 1975. 
J. Lacan, Il Seminario. Libro III. Le psicosi (1955-1956), Einaudi, Torino 2010.
Id., Il Seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Torino 2008.
Id., L’Identification (1961-1962), seminario inedito del 9 maggio 1962, versione A.L.I., Paris 2000.
M. Recalcati, I tabù del mondo. Figure e miti del senso del limite e della sua violazione, Einaudi, Torino 2017.

Tags     filosofia, Lacan, Recalcati, tabù
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