Immaginiamo per un istante di ambientare un testo filosofico in un luogo concreto. Chi legge conosce bene il piacere di questa rêverie. Accade per lo più con la letteratura, ma a volte anche con qualcosa di difficilmente insituabile com’è un libro di filosofia.
Leggendo il libricino Confessare l’impossibile, appena tradotto e pubblicato da Cronopio, m’immagino Jacques Derrida a Piazzale Maslax, vicino alla Stazione di Roma Tiburtina. Me lo immagino nel luogo in cui i volontari di Baobab Experience hanno allestito negli ultimi anni un campo informale di accoglienza per migranti, distribuendo pasti, materiale per passare la notte, offrendo cure mediche, assistenza legale, proposte di lavoro, in attesa che le istituzioni trovassero soluzioni più opportune. L’unica soluzione effettiva prodotta dalle istituzioni è stata alla fine lo sgombero, anzi una sequenza di sgomberi in cui hanno finito per prevalere le modalità violente. Anche qui la retorica ufficiale dei migranti come “clandestini”, dunque come pericolosi, non tarda a produrre i suoi effetti. Le ruspe di un governo altrimenti compiacente con le occupazioni di estrema destra hanno spazzato via il campo. Sono le ruspe di una micidiale guerra contro i poveri che, con il pretesto di “farla finita”, vorrebbero diffondere il nuovo vangelo dell’intolleranza.
Non arrendendosi alla costruzione sistematica di un’emergenza da parte della politica nazionale e locale, Baobab Experience ha voluto inventare una di quelle inaudite modalità di cui oggi la politica ha bisogno più che mai per uscire dalla sua impasse strutturale. Se oggi l’appello alla necessità dell’impossibile, su cui Derrida è spesso tornato nella sua riflessione, ha un senso, lo trova proprio in un luogo come questo, in una crisi antropologica che investe un’Europa sempre più fortezza e sempre più ininfluente sul piano della politica reale. Non c’è politica, ci dice la voce di Derrida da Piazzale Maslax, senza la scommessa in un impossibile, su cui occorre puntare ogni volta. Senza questa scommessa, da cui ha avuto avvio la storia della democrazia, oggi rischia di scomparire l’esistenza stessa di uno spazio politico, chiuso dentro una gestione securitaria fatta di regole e di controlli, mummificato dalla militarizzazione del territorio e dalla censura preventiva. A chi scommette sull’impossibile non appartiene certo una vita facile, ma forse la capacità di vedere come il presente non offra solo un mondo di rovine e di paure, ma la fioritura di iniziative, sensibilità, linguaggi e operazioni, che le nuove generazioni non hanno sicuramente ereditato da quelle che le hanno precedute.
Con tutta evidenza le istituzioni nazionali ed europee faticano anche solo a porre e a porsi la questione fondamentale: “Come vivere insieme?”. È evidente che, con la forza della loro brutalità, le ruspe non pongono fine a questa domanda. Bastasse la distruzione – qui come a Calais o lungo le numerose frontiere della rotta balcanica – non assisteremo all’involuzione dell’Europa. Chi invoca il principio identitario come salvaguardia dello spazio politico, esprime inconsapevolmente l’evidenza sintomatica della difficoltà di “quell’insieme”. Se la convivenza è difficile, almeno le somiglianze – vere o presunte – ci salveranno. In questa ontologia dei rapporti il simile sarebbe meno problematico del dissimile, il prossimo andrebbe considerato più pacifico del lontano, sempre portatore di ostilità e di tensioni.
Evidentemente questa logica che privilegia l’analogo contro il differente non ha niente di evidente. E invece registriamo come la crescente difficoltà di vivere insieme riguardi tanto la dimensione pubblica – pensiamo alla domanda di Hobbes: come far vivere insieme i molti corpi irriducibili, se non riconducendoli a qualsiasi prezzo all’unità del corpo unico del sovrano? – quanto la dimensione dei rapporti personali. Nonostante le apparenze, il buon esito di questo vivere insieme non è mai assicurato dal contratto, dunque dall’ordine giuridico-politico. Non trova la sua garanzia neppure in una lingua, né nella presunta continuità biologica del “sangue”. Ciò implica che le soluzioni, i modi, le decisioni, che l’esperienza del “vivere insieme” impone, non sono già dati, né esistono norme che regolino preliminarmente le situazioni di crisi, di stallo politico, di incertezza, che il nostro tempo vive.
Derrida lo ha sostenuto più volte, lo fa anche in questo libricino: la ricerca dei modi e delle forme della responsabilità e dell’accoglienza, dell’ospitalità e della cura, accade “ogni volta in un modo unico”. Ciascuno è convocato nella singolarità del suo tempo, del suo luogo e delle sue condizioni di vita, a inventare le forme, i modi, i tempi per la propria responsabilità. Non c’è mai un “come” già deciso, un trascendentale etico che preannunci le decisioni “giuste” e come esse debbano venire a prese. Il nostro tempo è il tempo di piazzale Maslax, il tempo della meraviglia e della rovina. Ma è anche il tempo dell’assenza di criteri preliminari forniti da un sapere, che indichino in anticipo come occorra comportarsi.
Da esigenza il “vivere insieme” diventa allora una sfida, anzi: diventa la vera sfida politica di quest’epoca. Accoglierla significa riconoscere l’indisponibilità di un sapere preliminare che con i suoi criteri-guida indichi la strada da percorrere. Il delirio di padronanza che si appella all’inesistente popolo del “noi”, a una lingua, a un luogo, a una casa già dati e assunti come propri, si appella a un’idea di appartenenza che viene confusa con il possesso: la mia terra, la mia lingua, ecc. Ma l’appartenere – argomenta Derrida – esclude qualsiasi appropriazione: ci si potrà anche sentire appartenenti a un luogo, ma diversamente da quanto predicano i nazionalismi questo luogo non ci apparterrà mai. È piuttosto il punto di insorgenza di un debito radicale, in cui il soggetto non coincide mai con i propri oggetti.
Leggendo Derrida al margine di Piazzale Maslax impongo una stortura al testo, che parla della convivenza tra israeliani e palestinesi, del suo difficile rapporto con il “comunitarismo esclusivo, perfino fusionale” di un certo mondo ebraico ed anche del suo complesso legame con la cultura francese e con le sue istituzioni. La necessità di questa forzatura fa segno all’esigenza di scrivere un diritto fattuale – fatto di vite, di situazioni, di invenzioni – al di là del puro e semplice diritto giuridico, verso l’invenzione che sola permette il vivere insieme. Durasse anche solo un tempo che sembra irrimediabilmente breve, tuttavia la stagione di una simile esperienza – come quella del Baobab – contiene il segreto del vivere insieme. Come uno straniero al bordo di questa scena, lo sguardo di Derrida in questo testo ci invita alla necessità di inventare le forme di quell’ospitalità a cui possiamo dar vita solo in quanto ci riconosciamo stranieri.
Riferimenti bibliografici
J. Derrida, Confessare l’impossibile. “Ritorni”, pentimento e riconciliazione, a cura di F. Ferrari, Cronopio, Napoli 2018.
*Maslax Moxamed arriva in Italia dalla Somalia nell’estate del 2016 e trascorre due mesi a Roma presso il Baobab Experience (nel quartiere di San Lorenzo). Dopo aver provato a raggiungere il Belgio, viene rimandato in Italia in nome degli accordi di Dublino, che prevedono che un migrante venga respinto nel paese europeo d’arrivo.Muore suicida a 19 anni il 15 marzo 2017, impiccandosi in un parco nei pressi del CAS di Santa Palomba (Pomezia). Piazzale Maslax è la denominazione non ufficiale dell’area utilizzata sino a prima dello sgombero dal Baobab Experience, nei pressi della Stazione Tiburtina di Roma. Una toponomastica a venire saprà ispirarsi a questo gesto inaugurale.