Nel volume Democrazia e anarchia. Il potere nella polis (Einaudi, 2024), Donatella Di Cesare getta luce su una contraddizione che è alla base della tradizione occidentale. Non la sola, ma forse quella in cui confluiscono molte delle questioni oggi all’ordine del giorno. Da un lato, la nostra cultura e la nostra storia si fondano su quelle che sono state definite e tramandate come origini greche della democrazia occidentale. Dall’altro, i maggiori pensatori della Grecia antica, come Platone e Aristotele, hanno sempre assunto una posizione fortemente critica nei confronti della democrazia. Come è stato possibile? Non che questa contraddizione non sia stata precedentemente rilevata in studi di storia o di filologia classica, oppure in ricerca di storia o teoria della politica. Credo, però, che uno dei maggiori meriti del libro di Di Cesare sia proprio quello di affrontare in maniera del tutto originale questa contraddizione da un punto di vista eminentemente filosofico, attraverso un’analisi ricca anche di un’interessante bibliografia, che viene utilizzata con grande efficacia.

La sua indagine sorge da una semplice costatazione. Fra le forme politiche che si profilano nel mondo antico solo la democrazia non designa un sovrano nel ruolo supremo del comando. È il demos, il popolo che entra nella scena della storia. Ma la parola stessa “democrazia” contiene un’ulteriore anomalia, indice della questione filosofica su cui Di Cesare si concentra. In gioco qui non è una demarchia, ovverosia il comando del popolo, coerentemente con le altre forme politiche conosciute nell’antichità, come la monarchia, l’oligarchia. In gioco piuttosto è un kratos, un potere, una forza, che non necessariamente deve diventare anche dominio e quindi comando. Di qui l’intima connessione tra democrazia e anarchia analizzata in questo lavoro. Ma in che senso si può dire che si tratti di un’analisi originale e persino, necessaria da un punto di vista filosofico? Proprio perché in questione è l’arché. Com’è noto, l’arché, in quanto origine, principio, è una delle parole fondamentali del discorso filosofico. La sua mancanza all’interno della parola greca che sta a indicare l’invenzione di una nuova forma politica nel mondo antico e che testimonia “l’origine greca della democrazia” non può non far pensare. La mancanza dell’arché nella parola democrazia non è una semplice lacuna casuale; è piuttosto un gesto politico, che prende forma proprio attraverso l’invenzione di una parola che esprime la critica interna al fondamento, a quel principio che la filosofia stava elaborando: una destituzione dell’arché contemporanea potremmo dire alla sua stessa istituzione.

Il fatto che Platone e Aristotele abbiano criticato la democrazia proprio perché espressione di anarchia è indicativo del nesso profondo tra ontologia e politica, quel nesso che Di Cesare indaga: un’ontologia che, attraverso il loro pensiero, si elabora nella forma di una ricerca del principio, dell’arché, appunto; e una politica che, dal punto di vista espresso in entrambi, non può non assumere la conformazione di un dominio in grado di far fronte alla contingenza di ogni governo, che l’anarchia democratica mette invece allo scoperto. È proprio contro la forza dell’anarchia che, nella Repubblica, Platone articola una struttura archica della polis. D’altra parte, non è difficile ritrovare nell’ontologia di Aristotele l’individuazione di un principio sovranamente unificante, che opera nei differenti modi in cui si dice l’essere e che istituisce un modello sostanzialistico della metafisica, ripreso e proiettato nella politica moderna, a dimostrazione dell’istanza politica che dà corpo all’ontologia.

Di qui, allora, l’interessante indagine messa in atto da Di Cesare, alla ricerca di altre fonti, di altre testimonianza che facciano emergere una differente origine della politica dalla democrazia, un’origine che è tragica nella misura in cui in gioco è la tragicità stessa della contingenza della forma politica, che sorge dalla deposizione del potere, dalla detronizzazione dell’arché, dal suo non essere mai statico; ma fragile superficie, che emerge dall’elaborazione di una rimozione, della rimozione di ciò che resta di un contrasto che non può essere sopito; dall’allontanamento della stasis, di quell’ineliminabile conflitto su cui ogni comunità politica prende forma (come emerge dai fondamentali studi di Nicole Loraux, che Di Cesare utilizza). Con un gesto in qualche modo nietzschiano, questo lavoro mostra come sia in particolare la tragedia a testimoniare la capacità di dar forma a una comunità a partire da un vuoto di potere. Se l’autocreazione della polis sorge da un vuoto di potere, se in essa mancano argini e confini a definire un perimetro stabile, si comprende la necessità dell’interrogazione illimitata, da cui nasce la filosofia; almeno quella filosofia che non teme di non poter ricorrere in maniera stabile a un principio che si faccia comando: un’interrogazione, dunque, che non può che essere tragica. Di qui il nesso tra politica, filosofia e tragedia, successivamente tradito dalla stessa filosofia.

Molto efficace è il capitolo dedicato al ruolo delle donne, che emerge nella tragedia, come rimosso anarchico alla fonte della polis, perché, come sostiene Di Cesare in queste pagine, è una stasis di donne a far emergere la democrazia. Si pensi, in particolare alle Supplici di Eschilo, che viene lungamente analizzata nel libro, straniere residenti che, bussando alle porte della polis, ne fanno emergere la democrazia. Ma la cosa ancor più rilevante è il fatto che, prima ancora di chiedere accoglienza, le donne, descritte nei testi dei tragici, irrompono nello spazio pubblico della polis per chiedere giustizia. E la città democratica può compiere giustizia, proprio in quanto fa della vicissitudine privata di cui le donne sono portatrici una questione pubblica. Ed è proprio nella tragedia che emerge il nesso tra giustizia, legame politico e rottura del vincolo parentale patriarcale.

Donatella Di Cesare fa giustamente appello, a questo proposito, al gesto di Hannah Arendt, che ha riconosciuto nella polis greca uno di quei grandi colpi di fortuna della storia. Sopravvissuta agli effetti di una politica degradata a dominio assoluto dell’arché, affermata come totale sopraffazione (totale Herrschaft), si muove nella polis in cerca dello spazio an-archico della politica. Perché l’arché in quanto dominio non è politica. Ed è da questo punto di vista che Arendt interpreta la distinzione tra oikos e polis, tra privato e pubblico, per un potenziamento del legame politico che connette la città. Un potenziamento che Di Cesare individua nel kratos, nella forza propria che la parola democrazia contiene come potenziamento dello spazio pubblico, come capacità collettiva di effettuare cambiamenti nello spazio comune. La demarcazione tra l’ambito privato e quello pubblico, tra il proprio e il comune, tra il familiare e il politico implica, per i cittadini della polis, una netta distinzione tra ciò che è proprio e ciò che è comune, tra ciò che è radicato nell’ethos dell’autoctonia, nell’identificazione tra il sangue e il suolo, e ciò che invece è libero e solo così appartiene alla vita politica. Come afferma Di Cesare, implica una radicale presa di distanza dai legami parentali fondati sul comando patriarcale.

Resta, però, dal mio punto di vista, un punto critico nell’analisi di Arendt: e cioè il fatto che, pur essendo interessata a riflettere in modo nuovo sulla condizione umana dopo la tragedia del totalitarismo e pur impegnandosi a ripensare i legami della politica prendendo le distanze da quelli fondati sul comando, pur essendo, dunque, impegnata nella ridefinizione della politica oltre qualsiasi fondazione metafisica, Arendt non manca tuttavia di riprendere quasi alla lettera la visione aristotelica della vita politica, del bios politikos, che risulta essere politico, appunto, solo in quanto liberato dai bisogni primari connessi al dominio della riproduzione e confinati nella nuda realtà delle necessità biologiche, di cui può occuparsi in maniera esclusiva il dominio privato della casa o il lavoro (che in questo senso è sempre di altri, in particolare, degli schiavi e delle donne). Una ri-politicizzazione della democrazia, allora, oltre a una radicale presa di distanze dai legami parentali patriarcali, che unicamente consente una chiara definizione dello spazio pubblico, non può non richiedere anche un rivolgimento dello stesso spazio privato e dei suoi rapporti di potere.

Se nella polis è iscritta la stasis come punto di insorgenza delle istituzioni, non basta per le donne e per gli esclusi dalla cittadinanza partecipare a una lotta contro il potere vigente, che resta fratricida, lasciando immutati i legami del privato e familiari – come in definitiva emerge nel discorso radicale, ma pur sempre maschile, dei tragici, per quanto siano essi rari e fondamentali testimoni di un’ingiustizia perpetrata. Ripensare la democrazia implica dunque ripensare anche la politica in rapporto a quelle dimensioni della vita legate alla riproduzione sociale, senza di cui nessuna forma di convivenza democratica può, oggi, riconoscersi compiuta. Deporre l’arché non può non voler dire, dunque, deporre anche la naturalizzazione della vita, che la metafisica ha attuato e che il pensiero post-metafisico non può continuare a perpetuare.

Donatella Di Cesare, Democrazia e anarchia. Il potere nella polis, Einaudi, Torino 2024.

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