Nelle sue lezioni su Spinoza, Gilles Deleuze si domanda:

[…] Che cosa può un corpo? Noi che sproloquiamo sull’anima e sullo spirito non sappiamo per niente cosa può un corpo. Il corpo è definito dall’insieme dei rapporti che lo compongono, o, stessa cosa, dal suo potere di essere affetto. Finché non conosceremo il potere di essere affetto del nostro corpo, finché questo sapere sarà alla ventura della casualità degli incontri, non potremo vivere una vita saggia, non raggiungeremo la saggezza (Deleuze 2013, p. 55).

Se vale il monito a interrogarsi su un corpo rispetto alla sua potenza, a ciò che esso può effettivamente agire e patire, non sarà inopportuno valutare il pensiero filosofico di un autore – la sua singolare “creazione” di concetti (Deleuze, Guattari 2002, p. 8) – con lo stesso metro, chiedendosi “cosa può un concetto?”. E rispetto allo stesso Deleuze, infaticabile creatore di lemmi filosofici – dal piano d’immanenza all’agencement, dalla coppia territorializzazione/deterritorializzazione al divenire-minore, solo per citare alcuni dei termini più emblematici –, domandarsi “cosa possa” il suo pensiero non significa arrestarsi a un’analisi filologica dei testi, né tracciare una giudiziosa “storia degli effetti”, ma immaginare nuovi usi possibili e inedite applicazioni del suo apparato concettuale.

In quest’ottica assume una particolare rilevanza la recente pubblicazione del volume Deleuze in Italy, a cura di Daniela Angelucci, una raccolta di saggi in cui viene esplorato il rapporto tra il filosofo francese e il pensiero italiano contemporaneo a partire proprio dagli sviluppi inediti e imprevedibili di quello che, spinozianamente, possiamo definire un “buon incontro”.

Qual è il luogo in cui il pensiero italiano e la filosofia di Deleuze si danno appuntamento? Come mostra Felice Cimatti nel suo contributo, questo punto d’incontro va rintracciato nel concetto di immanenza (Cimatti in Angelucci 2019, p. 498), non da intendersi come opposto della trascendenza bensì, stando alle parole di Deleuze, come immanenza assoluta, pura affermazione priva di contraddizione. Una simile posizione antidualista, attenta ai processi più che ai punti d’arrivo, al “divenire” più che alle sostanze, sarebbe condivisa dalla tradizione italiana (Cimatti cita l’esempio di un “divenire-animale” ante litteram, l’Elogio degli uccelli di Leopardi) e troverebbe preciso riscontro nel pensiero di autori contemporanei come Toni Negri, Giorgio Agamben e Roberto Esposito. Il saggio di Elettra Stimilli mostra come proprio in questi filosofi la questione sollevata dal “piano d’immanenza” deleuziano, inteso come piano di lavoro pre-filosofico della filosofia, entri in risonanza con i concetti di “potere costituente” (Negri), “impersonale” (Esposito) e “potenza” (Agamben).

Il richiamo al concetto d’immanenza assoluta comporta il delinearsi di un’etica affermativa, cui troppo spesso viene mossa la critica di risolversi in un’accettazione passiva dello status quo. Come a dire: il “sì” alla vita non rischia di renderci stupidamente proni alle ingiustizie attuali – a quel negativo che l’etica affermativa pare non riconoscere? Rosi Braidotti, nel saggio che apre il volume, si scaglia contro questa lettura semplicistica, sostenendo la natura “critica e clinica” dell’etica affermativa, che costantemente si propone di andare oltre tutto ciò che limita la potenza dei nostri corpi, attualizzando quanto è ancora virtuale e «coltivando la gioia come una sorta di esercizio di accrescimento delle nostre capacità ontologiche» (Braidotti in Angelucci 2019, p. 475, trad. mia).

La stessa gioia – «For me it was a great pleasure to write this lecture: it made me happy» (Perniola in Angelucci 2019, p. 493) – su cui si conclude il saggio di Mario Perniola, recentemente scomparso e alla cui memoria il volume è dedicato. Analizzando tre concetti-chiave della filosofia di Deleuze – agencement, “divenire” e “piano di consistenza” –, Perniola si interroga sul suo rapporto con il filosofo francese, sui comuni riferimenti allo Stoicismo e al Surrealismo, e sul senso possibile di un “divenire-deleuziano” che non si risolva in una mera imitazione o, peggio, in una forma di commento scolastico. È qui che occorre ricordare, come fa Paolo Vignola nel suo contributo sul nesso tra l’influenza nietzschiana e il tema del “divenire-minore”, come per Deleuze l’interpretazione del pensiero di un filosofo confini con lo stupro, dal momento che si costringe l’autore a partorire un “figlio” che sia suo e tuttavia “mostruoso”.

Emerge così un’immagine per nulla pacifica del pensiero deleuziano, in cui l’affermazione dell’immanenza assoluta non dispensa dall’opposizione al negativo ma anzi esige una sorta di lotta contro tutto ciò che pretende di limitare quel che “può un corpo”. Nel contributo di Tiziana Villani è il concetto di “nomadismo” a offrire il punto di rottura a partire dal quale costruire agencements che oppongano resistenza al presente; nel saggio di Claudia Landolfi sono gli “affetti” che, nella loro connessione con le immagini e con la capacità d’azione, costituiscono un’alternativa al modello psicologico predominante dell’emozione, cui è legato il giudizio, inteso oggi (si pensi alle dinamiche like/dislike sui social) come norma soggettiva interiorizzata. O ancora, nel contributo di Ubaldo Fadini, la nozione di istituzione – elastica, temporanea, revocabile – proposta da Deleuze si contrappone a una più abituale idea statuale, finalizzata alla governance.

In questa prospettiva, non aliena dal conflitto, si può comprendere l’idea di arte come resistenza, proposta da Daniela Angelucci nel saggio che conclude il volume. L’opera d’arte, blocco di percetti e affetti, resiste a una riduzione soggettivistica, così come la sua strutturale ambiguità resiste a ogni spiegazione in termini contenutistici. In essa vi è dunque un nucleo di virtualità sempre ancora da esprimere (e dunque inespresso), una potenza-di-non – nei termini di Agamben – che si oppone all’efficacia dell’azione finalizzata a uno scopo. L’immagine cinematografica, e in particolare quella offerta dal cinema neorealista italiano, lavora nella direzione dell’inoperosità, disattivando i nessi causali che nel cinema classico scandiscono il ritmo dell’azione e rendendo visibile il tempo in se stesso. Con i suoi personaggi, “più veggenti che attanti”, il cinema neorealista re-siste in senso etimologico, cioè si arresta e torna indietro, sottraendosi agli automatismi narrativi.

La resistenza che si può pensare a partire da Deleuze – vera cifra della ricezione italiana del filosofo francese – è dunque l’antagonismo di un’etica affermativa che non si risolve in una passiva accettazione del presente ma, eludendo i dualismi, mira a dar spazio a quanto vi è di virtuale e inattuato (alla potenza), in un continuo e paradossale “esercizio della gioia”, che determina essenzialmente l’innocenza e la mancanza di sensi di colpa del filosofo che lo pratica.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombre Corte, Verona 2013.
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2002.

Daniela Angelucci, a cura di, Deleuze in Italy, «Deleuze and Guattari Studies», volume 13, numero 4, 2019.

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