Death to 2020 è l’ultimo documentario Netflix prodotto da Charlie Brooker e Annabel Jones, le due menti dietro l’universo narrativo di Black Mirror (2011). Girato da Al Campbell e Alice Mathias, scritto da Charlie Brooker insieme ad altri diciassette sceneggiatori durante il lockdown, si tratta di un prodotto cinematograficamente ibrido, che molti osservatori hanno etichettato sbrigativamente come mockumentary. Se ai nastri di partenza, infatti, il film sembra inserirsi nella lunga tradizione del falso documentario, a ridosso del traguardo sembra mancare quella capacità creativa, propria del genere, di ricostruire un mondo alternativo tramite immagini verosimili. Fortemente ancorato ai fatti del 2020, tutti rigorosamente reali, il film finisce per darne un’interpretazione bizzarra e politicamente scorretta a partire da alcuni personaggi immaginari: tra questi, un giornalista del fantomatico New Yorkerly News (Samuel L. Jackson), uno storico britannico particolarmente ottuso dai fumi dello scotch (Hugh Grant), una portavoce repubblicana e conservatrice “non ufficiale” (Lisa Kudrow), una psicologa comportamentale autrice di finti bestseller (Leslie Jones), una tipica donna bianca privilegiata e razzista americana (Cristin Milioti), persino una caricatura della regina Elisabetta (Tracey Ullman).
Le interviste ai finti “testimoni” sono alternate a immagini originali provenienti dell’archivio pubblico dell’annus horribilis appena trascorso, commentate dalla sprezzante voce narrante di Laurence Fishburne. Il film si concentra sui fatti salienti del 2020, raccontati così come sono avvenuti nel mondo occidentale, con un occhio particolare agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna. Se la crisi pandemica rappresenta un tema inevitabilmente trasversale, è soprattutto la politica a funzionare da fulcro narrativo. L’andamento segue cronologicamente i fatti che, nella seconda parte, si focalizzano sulle elezioni americane di fine mandato. Il tutto è analizzato con un tono satirico e beffardo, talvolta forzato dalla pretesa di far sorridere il pubblico su eventi non propriamente esilaranti (dall’omicidio di George Floyd per mano della polizia di Minneapolis fino ai due milioni di morti causati dal Covid-19 nel mondo). Anche per questo, la visione del film lascia alcuni dubbi non tanto sul senso, quanto sugli effetti causati da questa stravagante e ambiziosa operazione.
Il punto non è tanto se si possa ridere del 2020, e dunque di quel senso pervasivo di morte che l’immaginario dello scorso anno si porterà con sé di qui in avanti. Una volta stabilito che si può ridere persino dei genocidi, tra qualche anno accetteremo anche di divertirci a ripensare alla pandemia, alle necessità di un movimento anti-razzista globale o all’era in cui nel mondo occidentale governavano Donald Trump e Boris Johnson (magari quando pure le “varianti” saranno superate, gli afroamericani non saranno uccisi dalla polizia a causa della loro pelle, o i leader destituiti riusciranno a lasciare pacificamente la propria poltrona senza minacciare colpi di stato). È certamente difficile riuscire a ridere di un anno che non è ancora finito, i cui effetti sulle nostre vite sono ancora profondamente attuali: il film accetta la sfida, pur non riuscendo fino in fondo nel suo intento.
Il primo dubbio che si diceva è relativo alla discrasia generata tra il regime di verità dei fatti/immagini presentate e il commento scanzonato, artificioso e volutamente “falso” della voice over e dei finti testimoni, che a quei fatti/immagini, del tutto reali, si rifanno. Il senso di straniamento generato da tale disordine, che pone in questione la percezione stessa della realtà dei fatti raccontati, porta a chiederci se sia veramente successo quanto si narra nel film, se sia accaduto come lo si presenta, persino se le immagini che stiamo vedendo siano state manipolate da qualcuno. In realtà, si tratta di immagini pubbliche che illustrano fatti da poco avvenuti, di cui siamo stati noi stessi testimoni. E allora: perché costringerci a procedere, caoticamente, dentro questo 2020, insinuando in noi il dubbio che sia un racconto distopico anziché la realtà? Una volta compreso che l’obiettivo degli autori è soprattutto satirico, il film scade in un umorismo prevedibile, procedendo stancamente in una struttura ciclica e arrancando verso un finale senza alcuno slancio.
Il senso del mockumentary è, tradizionalmente, quello di far credere allo spettatore che quello che sta vedendo/ascoltando sia, anche solo per un istante, reale. Il genere gioca tradizionalmente con le credenze e con la forma stessa del documentario, fino a confondere il rapporto tra realtà e finzione con un intento auto-riflessivo (pensiamo ai casi più celebri di Zelig, 1983, di Allen o This Is Spinal Tap, 1984, di Reiner, ma anche a quelli più estremi come I’m Still Here, 2010, di Casey Affleck). Se il mockumentary, insomma, racconta in modo verosimile (falso repertorio/interviste) cose che non sono mai avvenute, prendendosi gioco del reale attraverso un patto implicito con lo spettatore, Death to 2020 pretende invece di raccontare la realtà utilizzando la finzione per rileggere il vero repertorio, generando un disallineamento quasi inevitabile tra oggetto e soggetto. È proprio in questo difficile rapporto con il genere che emerge la difficoltà del film nel ri-funzionalizzare di significato il materiale d’archivio. La presenza di personaggi immaginari interpretati da celebri attori americani e britannici non aiuta questo processo di “adattamento”.
Le immagini presentate finiscono così per essere utilizzate come illustrazioni di una raffica di sketch comici di dubbio spirito: da Hugh Grant che, da storico, confonde i fatti con gli eventi raccontati in Game of Thrones (2011) o Star Wars (1977), a Lisa Kudrow che, da perfetto stereotipo repubblicano, si contraddice continuamente negando le sue stesse affermazioni, fino a Diane Morgan, la “casalinga di Voghera” britannica che sostiene di aver passato il lockdown guardando una serie su Netflix chiamata America, sostituendo ancora una volta la realtà con la finzione. Il risvolto finale è più vicino a una stand-up collettiva/illustrata che a un mockumentary vero e proprio. Ed è proprio la mancata risoluzione di questa natura ibrida a sottolineare carenze e parzialità del film.
In aggiunta, quella riflessione politica sul mondo che solitamente caratterizza le migliori stand-up viene qui banalizzata nel voler adottare costantemente il percorso più semplice e veloce verso una risata facile e forzata. Se l’ambizione è quella di far ridere a tutti i costi per esorcizzare le ansie e le paure dell’anno appena trascorso, di criticare la stupidità umana tramite un black humour pungente e sarcastico, il risultato è quello di una satira riciclata, banale e poco ispirata che, scadendo talvolta nel cattivo gusto (e spesso nella noia) finisce per auto-emarginarsi al di fuori del reale.
Death to 2020. Regia: Al Campbell, Alice Mathias; sceneggiatura: Charlie Brooker; interpreti: Samuel L. Jackson, Hugh grant, Lisa Kudrow, Leslie Jones, Joe Keery, Kumail Nanjiani, Tracey Ullman, Cristin Milioti, Diane Morgan, Samson Kayo; produzione: Broke and Bones; distribuzione: Netflix; origine: Stati Uniti, Regno Unito; durata: 70’.