Smarginando dalla prima metà del Novecento, l’eredità intellettuale e scientifica di Ernesto De Martino (1908-1965) continua ad essere viva e presente negli studi etno-antropologici (italiani e francesi, soprattutto) e, più in generale, nella produzione culturale in seno alla sinistra marxista e radicale. In quest’ultimo ambito, l’attività è stata spesso coordinata dall’Istituto Ernesto De Martino, creato già nel gennaio 1966 da Gianni Bosio e Alberto Maria Cirese; ad esso si è affiancata la lunga esperienza della rivista Il De Martino, che è giunta nel 2021 al numero 32, dedicato a “Storie Voci Suoni”, con straordinaria prossimità agli interessi di questo nuovo volume, De Martino e la letteratura. Fonti, confronti e prospettive, curato da Paolo Desogus, Riccardo Gasperina Geroni e Gian Luca Picconi.
Se si guarda agli orizzonti di ricerca di questi ricercatori e docenti universitari – nei quali compaiono, a vario titolo, indagini sull’opera di Gramsci, Pasolini, Carlo Levi, Cesare Pavese, Gianni Celati e incursioni nelle scritture di ricerca contemporanee – si capirà subito come l’approccio al tema “De Martino e la letteratura” possa coprire tutto il secondo Novecento, fino a lambire la contemporaneità. Uno sguardo strutturato e complessamente articolato, dunque, che prende avvio da alcune recenti pubblicazioni monografiche – Tra crisi e riscatto. Elsa Morante legge Ernesto De Martino (2017) di Angela Di Fazio e Letteratura e mutazione. Pier Paolo Pasolini, Ernesto De Martino e Franco Fortini (2018) di Daniele Balicco – nonché da un saggio di una ventina d’anni fa di Renato Nisticò, Apocalisse e presenza. L’apporto di Ernesto Martino alla teoria antropologica della letteratura (2001).
Il saggio di Nisticò – bibliotecario della Scuola Normale di Pisa, studioso e poeta, scomparso pochi anni fa – è posto anche a suggello della presente antologia, perché effettivamente fornisce, per usare le parole dei curatori, «un rimando rigoroso e organico alla teoria letteraria» (Desogus, Geroni, Picconi 2022, p. 12). Tuttavia, non è solo, né principalmente, in direzione di una “teoria antropologica della letteratura” che si muove il libro: a tratti prevale, anzi, un orientamento teorico analogo a quello di Balicco, pur con le opportune sfaccettature di un intervento plurale come quello di un’antologia di saggi, e comunque teso a restituire la caratura intellettuale di De Martino in un frangente storico, culturale e politico che ha riverberato a lungo nella storia della cultura italiana del secondo Novecento.
Ciò è particolarmente evidente nella prima e nella seconda sezione del volume, dedicate, rispettivamente alle “Fonti” e ai “Confronti” dell’opera demartiniana. Apre le danze il contributo di Paolo Zublena, la cui ricca prosa saggistica ci introduce al problema, in prima battuta filologico e in realtà di più ampio respiro, del sintagma “Cristo magico” nel Mondo magico (1948) di De Martino. Questione approfondita – in direzione, precisamente, di una «teoria del sacro» (ivi, pp. 31-34) – da Fabio Moliterni, che confronta l’opera di De Martino e Carlo Levi sulla base del loro diverso approccio alla questione meridionale: se quello che De Martino rimproverava all’autore di Cristo si è fermato a Eboli è una critica diventata nel tempo ben nota – la costruzione di un Sud contadino che porta con sé un’alterità assoluta, con la quale l’esercizio di empatia risulta viziato da un’impronta ideologica a tratti soverchiante – e al tempo stesso rivedibile, anche la posizione di De Martino contiene una certa «ambivalenza dialettica tra la partecipazione esistenziale e il distacco tipico dello storico» (ivi, p. 40) o dell’antropologo, come scrive Moliterni, rinviando a precedenti riflessioni di Diego Carpitella. Echi di questo dibattito si ritrovano, mutatis mutandis, in un altro contributo della prima sezione, firmato da Antonio Fanelli, direttore della rivista Il De Martino: Fanelli risale ad un articolo del 1953, “Intorno all’arte cosiddetta popolare”, e alla coeva attività radiofonica di De Martino, per sottolineare come il suo interesse per le forme culturali popolari fosse adeguatamente allertato contro le «pericolose infatuazioni» del caso e alla ricerca di una metodologia che approfondisse e storicizzasse opportunamente tali «sopravvivenze».
Roberto Dainotto prosegue nella scia di questo approccio critico, per nulla devozionale, all’eredità culturale e politica di De Martino, ritornando ad un’altra contrapposizione fondante istituita da De Martino, stavolta nella Fine del mondo (1977): la “crisi della presenza”, apparentemente irredimibile, nella cultura occidentale – già paradigmaticamente rappresentata dall’opera di Proust – versus il “risveglio dei popoli coloniali”. In questo senso, Dainotto ha buon gioco nel ricordare il «filtro di Enzo Paci» (ivi, p. 47), come catalizzatore plausibile di quell’incontro tra marxismo e pensiero heideggeriano, particolarmente evidente nella Fine del mondo, che tanto sconcerto ha causato nei primi commentatori dell’opera di De Martino. Più ancora, Dainotto mostra come la dicotomia istituita da De Martino non sia da leggere entro quel binarismo, quasi assiologico, recentemente introdotto da una certa vulgata degli studi postcoloniali – colonizzatore/cattivo versus colonizzato/buono – bensì all’interno di una più generale metodologia, orientata, ancora una volta, alla storicizzazione del dato culturale, che non di rado può trarre d’impaccio.
Lo fa anche nei confronti del volume stesso, che si apre all’insegna delle preoccupazioni dei curatori per le lacune dell’antologia (che non poteva essere, in ogni caso, onnicomprensiva): «Alcune lacune sono certamente individuabili nell’assenza di saggi su autori come Italo Calvino, Paolo Volponi e Edoardo Sanguineti, tutti attenti lettori di de Martino. Allo stesso modo un più significativo approfondimento della ricezione dell’etnografo napoletano nell’area degli studi culturali e postcoloniali» (ivi, p. 12). Come si accennava, la profondità dell’intervento di Roberto Dainotto contribuisce a riempire parzialmente questa lacuna nei confronti degli studi postcoloniali (anche se resta aperto l’interrogativo più generale, riguardante una lettura transnazionale di un’opera ancora molto ancorata al dibattito italo-francese); inoltre, i contributi della seconda sezione, intitolata “Confronti”, sono sicuramente un viatico al confronto dell’opera demartiniana con la letteratura italiana del secondo Novecento e contemporanea, a prescindere dall’inclusione più o meno puntuale degli autori appena citati.
Se, infatti, i nomi di Calvino, Volponi e Sanguineti compaiono soltanto fuggevolmente nel volume, gli altri autori e autrici oggetto di inclusione sono certamente esemplari nel loro rapporto, talvolta molto stretto, con De Martino. Ad aprire la seconda parte è, ad esempio, un saggio di Riccardo Gasperina Geroni che ripercorre un altro dualismo che può emergere nella rilettura contemporanea di De Martino, e cioè quello con Cesare Pavese, condirettore, con l’etnografo napoletano, della “collana viola” di Einaudi, dedicata agli “studi religiosi, etnologici e psicologici”; si può, tra l’altro, considerare il saggio di Gasperina Geroni come utilissimo preludio alla lettura dell’epistolario tra Pavese e De Martino, curato da Pietro Angelini nel 1991 e che sarà a breve riedito da Bollati Boringhieri.
Altro rapporto costellato di possibilità conflittuali è quello di De Martino con Pasolini, secondo la ricostruzione di Paolo Desogus, che a Pasolini ha dedicato qualche anno fa l’importante monografia Laboratorio Pasolini. Teoria del segno e del cinema (Quodlibet, 2018). Non di rado, Desogus è capace di triangolare il binomio Pasolini-De Martino con l’eredità gramsciana, richiamata anche da Marco Gatto in un contributo che ripercorre la stretta relazione di De Martino con Rocco Scotellaro, a partire dalla nota analisi demartiniana del lamento funebre in morte del poeta e politico lucano da parte della madre. A questo saggio si aggancia un successivo contributo di Chiara Carpita sul rapporto tra De Martino e Amelia Rosselli, con una convincente analisi di quegli “Spazi metrici” (1962) che Rosselli include in un suo libro capitale come Variazioni belliche, ma che spesso non ha goduto di adeguata fortuna, non tanto nella ricezione critica, quanto in quella poetica dell’autrice.
Similmente, ma su un altro fronte, si muovono le considerazioni di Andrea Agliozzo su «Metrica, ritualità e ri-uso» (ivi, p. 118) in De Martino e Franco Fortini, altro momento di confronto ineludibile per asseverare con più certezza il peso dell’opera demartiniana nel secondo Novecento italiano. La sezione è completata dai saggi di Alessandra Grandelis e Angela Borghesi, dedicati, rispettivamente, all’analisi del rapporto di De Martino con Alberto Moravia e con Elsa Morante; tuttavia, la seconda sezione dell’antologia sembra avere un prolungamento anche nella terza, intitolata “Prospettive”, dove Gian Luca Picconi e Marco Antonio Bazzocchi attuano letture demartiniane, rispettivamente, dell’opera di Gianni Celati e di Rosso taranta (2006) di Angelo Morino.
Da un percorso che, nella prima parte dell’antologia, sembra rivolgersi assai di frequente verso il luogo irrisolto – irrisolto, tra l’altro, per lo stesso De Martino – del “folklore progressivo”, rinvenibile negli scritti dei primi anni cinquanta, si arriva così alle soglie dell’“estremo contemporaneo”, come ci si è spesso ritrovati a commentare le opere degli ultimi venti, trent’anni. In questo contesto, sono di particolare interesse gli ultimi saggi del volume, che precedono la già citata ripubblicazione del saggio di Nisticò sulla “teoria antropologica della letteratura”, ovvero il contributo scritto a quattro mani da Francesco De Cristofaro e Valentina Vetere sul rapporto – anche in questo caso, complesso e a tratti irrisolto – tra scrittura e immagine nelle opere di De Martino, nonché quello di Stefania Rimini, che si apre a tutt’altro ambito, analizzando l’impronta demartiniana sui documentari etnografici (peraltro ricchi di appigli e scambi con la letteratura dell’epoca) di Cecilia Mangini e Gianfranco Mingozzi.
A questo proposito, potrebbe superficialmente sembrare che ci separi ormai molto tempo da Stendalì. Suonano ancora (1959) di Mangini e La taranta (1961) di Mingozzi, ma Stefania Rimini ha buon gioco nel mostrare come queste opere non si siano soltanto adagiate nelle «violente zone d’ombra» – secondo una citazione ripresa da Rimini da un articolo di Marco Bertozzi del 2002 – della storia del documentario italiano, ma che ne abbiano aperto una fra le tante strade praticabili. D’altronde, ed è un passaggio che è sempre Rimini a ripescare da un articolo di Clara Gallini sul “documentario etnografico demartiniano” del 1981, «si può anche riconoscere agli scritti di De Martino una forza culturale considerevole, dal momento che riuscirono a fare aprire gli occhi su una realtà sino ad allora mistificata».
Un’apertura dello sguardo che si ripercuote nello sguardo cinematografico o, come nel caso del saggio di De Cristofaro e Vetere, nel rapporto con l’immagine, dopo essere stato ampiamente sfruttato nei contributi dedicati a “De Martino e la letteratura”, illuminando, di riflesso, quest’ultimo campo di indagine come ambito di fondamentale importanza per ripercorrere l’opera demartiniana. Pur con la dovuta attenzione verso la «materia problematica» (ivi, p. 11) che così spesso emerge da questi affondi critici, De Martino resta catalizzatore di possibili grandi dualismi, o conflitti, o anche solo divergenze, che anche oggi aiutano a rimettere in movimento, dialetticamente, l’analisi.
Riferimenti bibliografici
D. Balicco, Letteratura e mutazione. Pier Paolo Pasolini, Ernesto De Martino e Franco Fortini, Artemide, Roma 2018.
A. Di Fazio, Tra crisi e riscatto. Elsa Morante legge Ernesto De Martino, Pendragon, Bologna 2017.
C. Pavese. E. De Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, a cura di Pietro Angelini, Bollati Boringhieri, Torino 2022.
A. Rosselli, Variazioni belliche, a cura di Emanuela Tandello, Garzanti, Milano 2021.
Paolo Desogus, Riccardo Gasperina Geroni, Gian Luca Picconi, a cura di, De Martino e la letteratura. Fonti, confronti e prospettive, Carocci, Roma 2022.