Sono passati sette anni da Stray Dogs (2013), film vincitore del Gran premio della giuria a Venezia con cui Tsai Ming-liang dava l’addio al formato film inteso nella sua forma più canonica. Ma in questi anni il cineasta taiwanese non ha mai smesso di comporre inquadrature, immagini che valgano la pena di essere guardate, elementi discordi in un panorama mediale in cui le immagini si affastellano senza posa: già viste e “filtrate”, esangui, banali, dalla profondità posticcia. Desideroso di sondare le possibilità del film intervista (Afternoon, 2015) della VR (The Deserted, 2017) e del “documentario” (Your Face, 2018), Tsai ha proseguito il proprio discorso autoriale, interrogandosi in maniera intertestuale sulla propria opera e, in maniera trans-storica, sullo statuto dell’immagine cinematografica dagli albori alla contemporaneità.
Days (2020), presentato alla scorsa Berlinale e in anteprima nazionale alla decima edizione del Sicilia Queer Filmfest, propone un’ulteriore radicalizzazione espressiva che permette di fare a meno dei dialoghi e, parallelamente, di rimarcare al massimo grado la carezzevole prossimità di quel silenzio che mira al cuore delle cose. In Days emerge perentoria la natura duplice e fermamente restia alla “sintesi” del cinema di Tsai che rifugge sia dai modelli temporali (e dunque narrativi) progressivi sia dal feticismo d’accatto dell’immagine patinata. La «quiete contemplativa» che si respira nel suo cinema non implica «una sospensione di ogni movimento e attività» (Han 2017, pp. 116-17).
Il silenzio, così come la “lentezza”, si rivelano veri e propri punti di vista – non necessariamente umani, come nel caso della sala in Goodbye, Dragon Inn (2003) – atti di «rinuncia a rimuovere la distanza, a incorporare» (ivi, p. 90). Perché se il cinema ha bisogno di corpi, è altrettanto vero che la loro “fisicità” non impedisce al «realismo temporale» (Lim 2014, p. 21) di Tsai di mostrare non soltanto la vita di quei tempi apparentemente morti, ma anche la capacità potenziale dei corpi di giungere in prossimità, salvaguardando la distanza dalle altre persone, dalle cose e dalle immagini cinematografiche stesse.
Due uomini (Lee Kang-sheng e Anong Houngheuangsy) ciascuno nella sua monade, ciascuno nel suo ambiente, inquadratura, scena. E non sappiamo, per un tempo piuttosto considerevole nell’economia complessiva del film, perché ci si mostrino l’uno dopo l’altro, quale sia il principio, il senso, che presiede all’alternanza delle immagini della quotidianità dei due. Uno, il più maturo, affetto da un qualche male alla spina dorsale, curata con agopunture, l’altro più giovane, a prepararsi da mangiare. Svincolato il quotidiano dell’uno da quello dell’altro, assolutamente nulla li lega, se non la semplice successione di scene che li riguardano. Finché, senza che qualcosa ne lasciasse presagire le possibilità, li si scopre insieme, nella stanza di un albergo, a condividere un’intimità. E forse qualcosa che, per fugace che sia, somiglia a un affetto. Ma al tempo stesso (solo) lì ci si rivela che i due, già dapprima in fondo condividevano un corpo comunque: quello del film stesso, come se, prima di loro e dei loro corpi, fossero state le loro immagini a toccarsi. A insaputa loro e nostra.
Ecco, il cinema di Tsai Ming-liang è sempre stato (anche) questo: un cinema di individui che a loro stessa insaputa si cercano, s’avvicinano, che magari s’incrociano e si intravedono condividendo gli stessi spazi e a lungo s’ignorano. O le cui vicende entrano curiosamente in risonanza le une con le altre. Come in I Don’t Want to Sleep Alone (2006), dove un muratore accudiva uno sconosciuto dopo un pestaggio, e parallelamente una ragazza assisteva un altro uomo in stato comatoso (ed entrambi i “degenti” erano interpretati da Lee Kang-sheng). O come in Journey to the West (2014), dove il passo lento del monaco Lee veniva assimilato, “replicato” da Denis Levant.
Un cinema di distanze che paiono o sono davvero incolmabili, tanto quanto lo sono i quadri – stanze, corridoi, interni o esterni – in una profondità di campo estesa a perdita d’occhio. Un cinema di corpi che, sebbene convivano, sebbene coabitino, per pudore o indifferenza, stretti nelle proprie solitudini, sembrano incapaci di entrare in relazione diretta anche desiderandosi. Come quando, da una posizione defilata, nascosti, da una distanza, partecipano come sanno e possono, di un qualche contatto, relazione, affetti, intimità che non sanno esperire in prima persona. In Vive l’amour (1994), Lee Kang-sheng restava sotto il letto dove si consumava l’amplesso tra Yang Kuei-mei e Ah-jung, e ciascuno dei tre “usava” lo stesso appartamento sostanzialmente nascondendosi all’altro.
Un cinema di distanze non può forse che essere un cinema della lentezza (slowness) capace di creare uno «spazio per la riflessione filosofica ed estetica all’interno del film» (ivi, p. 78). Un cinema in cui viene meno la competitività, e in cui, ad esempio, i triangoli amorosi non precipitano nel tragico-melodrammatico, ma sondano la possibile esistenza di nuove forme del vivere e dell’abitare spazi e tempi altri, verso un melodramma della quiete im-mobile. Days prova in modo ancora più radicale a fare della lentezza una tendenza tramite cui erodere la perfezione del quadro (cadre) che, come i personaggi che lo popolano, potrebbe cedere alla tracotanza del credersi autosufficiente.
Ciò introduce un’apparente aporia che, tuttavia, resta tale solo in termini concettuali. Come definire l’opera di Tsai? Come intendere la tendenza (neo-)realista – quasi zavattiniana nel suo seguire un uomo per novanta minuti della sua vita – delle sue immagini, così avvezze a sfruttare l’imprevisto e il contingente? E soprattutto come sussumerla all’interno di una struttura che non rinuncia mai alla predisposizione dell’inquadratura e alla sua composizione certosina? Tale forma cinematografica pressoché funambolica appare l’unica attraverso cui rendere leggibile il contingente – l’evento – continuando a parlare di “arte”. La triangolarità dei rapporti, così come la reiterazione dei gesti e la creazione di immagini esteticamente appaganti determina insomma il venir meno della linearità taylorista scandita dagli orologi.
L’amore per i generi cinematografici non ne risulta cancellato, poiché il “melodramma” della quiete si rivela altresì un melodramma del tempo out of joint, scardinato, “demeridianizzato”, enigmatico. Che ora è laggiù? (2001) è quindi più di un titolo: una dichiarazione d’intenti di un cineasta che ordisce un contrappunto di spazi eterocliti e di tempi ellittici che, proprio per questo, appare alleggerito dal peso delle distanze geografiche e dai vincoli della consecutio. Si prova a instaurare un legame ravvicinato tra soggetti ed elementi divergenti, trasformando l’(omo-)erotismo della distanza (Ma 2010, p. 110) – tra i corpi, tra le immagini – in un affetto, in un sentiero che connetta ciò che è disconnesso: tramutando insomma l’afrore felpato del cruising in una relazione “duratura”, nel suono di un carillon, sempre uguale e differente, che, come il ritornello fischiettato da un bambino, sia come «l’abbozzo, nel caos, di un centro stabile e calmo, stabilizzante e calmante» (Deleuze e Guattari 1980, cap. 11).
Così, in Days, nulla sembra legare Lee e Anong. Quel legame si produce senza necessità alcuna, così come le relazioni tra i personaggi di altri suoi film sembrano farsi al di fuori di qualsiasi possibilità già data. E, allo stesso modo che nulla giustifica a priori il loro tenersi insieme, così nulla parrebbe giustificare a priori la tenuta (il “tenersi insieme”) del loro mondo, frammentato nelle scene dell’uno e dell’altro, o quella del film stesso. Proprio perché manca o sembra a lungo mancare, tutt’altro che immediatamente evidente e intellegibile, il principio che orienta il succedersi delle scene, si è in un certo senso obbligati a riservare a tutte costante intensità di attenzione. Il senso della loro successione emerge solo poi, come differito, sia perché di fatto la percezione, la leggibilità delle singole inquadrature non solo è prolungata “in partenza” in ragione della loro durata, ma soprattutto perché l’occhio si attarda a decifrarle, a cogliere i vari elementi del quadro per quanto consegnato a una leggibilità che la loro fissità ci farebbe credere immediata.
A dispetto della temporalità lunga dei singoli piani, dunque, e di ciò che in essi sembra consegnato a un’immediata evidenza, si direbbe che non durino mai abbastanza tanto da consentire di leggerne gli elementi, da lasciarci, insomma, con la certezza, prima di staccare su un’altra inquadratura, di aver acquisito compiutamente tutto quanto era da vedere. Come non è affatto scontato che i suoi personaggi, pur condividendo gli stessi ambienti o situazioni simili, si accorgano gli uni degli altri. La cura, l’attenzione che pure – a tentoni, lentamente, delicatamente, dalle rispettive distanze, solitudini, indifferenze – arrivano a riservarsi gli uni agli altri, che era soprattutto nei loro gesti, dopo anni in cui il cineasta taiwanese ha frequentato altre forme, mostrative più che narrative, si sono riversate integralmente nelle immagini. Cure, come in I Don’t Want to Sleep Alone, o anche nella chiusura di The Hole (1998), in cui un Lee “egoista” impiegava il tempo dell’intero film per accostare la donna che viveva nell’appartamento sotto il suo, e riservare una qualche attenzione ai sintomi del virus pandemico che l’aveva colpita.
E sono ora le immagini a demandare, allo spettatore, un ulteriore e analogo esercizio di cura. Nel dedicare un’attenzione a mondi e corpi che, per quanto familiari, quotidiani, paiono in una certa misura “nuovi” allo sguardo che si attarda a “decifrarli”, prestando loro tempo e disponibilità. Gli stessi che fanno inverare incontri, affetti, premure, amori, frammezzo a impossibilità, indifferenze, solitudini. Quale possibile argine e antidoto al solipsismo come alla fretta, al disinteresse per un altro o per un’immagine, per il mondo che questa restituisce, nel “nuovo” cinema di Tsai che Days apre, guardare e darsi il tempo di farlo (far che l’occhio resti assolutamente disponibile) è un po’ guarire.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2010.
B.-C. Han, Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose, Vita e Pensiero, Milano 2017.
S.H. Lim, Tsai Ming-liang and a Cinema of Slowness, University of Hawaii Press, Honolulu 2014.
J. Ma, Melancholy Drift. Marking Time in Chinese Cinema, Hong Kong University Press, Hong Kong 2010.
Days. Regia: Tsai Ming-liang; fotografia: Chang Jhong-Yuan; montaggio: Chang Jhong-Yuan; suono: Dennis Tsao; interpreti: Lee Kang-sheng, Anong Houngheuangsy; produzione: Claude Wang; origine: Taiwan; anno: 2020; durata: 127′.