La macchina da presa di Phil Grabsky, il regista del documentario sulle ultime due grandi mostre dedicate a David Hockney dalla Royal Academy of Arts, A Bigger Picture (2012) e 82 Portraits and One Still Life (2016), sembra non poter distogliere lo sguardo dalla serie dei Woldgate Woods (2006). Le distese collinari dello Yorkshire orientale dove Hockney torna a stabilirsi nei primi anni del duemila, dopo la ventennale parentesi californiana, sono apparentemente quadri di paesaggio dalle dimensioni notevoli e dai colori brillanti, cifra stilistica dell’artista. A ben vedere, invece, sono assemblaggi di tele più piccole dipinte en plein air e semplicemente più comode da trasportare, nella spola tra lo studio e i sentieri di campagna. La serie dei Woldgate Woods è letteralmente costituita da “montaggi di quadri”. Qui, in questo espediente pratico, in questo artificio tecnico, la pittura di Hockney pare coltivare un rudimentale e artigianale sentimento del cinema.

Grabsky probabilmente non oserebbe ricondurre il proprio lavoro alla cruciale, sebbene lontana vicenda dei critofilm d’arte. Eppure, con la sua camera digitale, il regista riscrive i cataloghi delle esposizioni londinesi guidato da chiari intenti divulgativi che sembrano tuttavia permeabili alla lunga e importante lezione, informata dai principi dell’estetica crociana, tenuta da Ragghianti sull’opera come «processo spirituale», da ricostruire attraverso una critica intesa come ripercorrimento di quello stesso processo «aderente alla concretezza del suo linguaggio», infine, una critica «dinamica». I critofilm d’arte saranno il felice laboratorio sperimentale di un pensiero critico che crede nel cinema come strumento euristico, trova nei suoi codici espressivi, tecnici, linguistici chiavi di lettura e conoscenza dell’opera d’arte per restituirla come «storia del suo farsi», divenire sempre «individuato, personalizzato e storicamete esistente» (Ragghianti 1950, pp. 10-34).

Ripercorrendo i monumentali paesaggi ospitati tra le ampie gallerie della Royal Academy in occasione di A Bigger Picture e la vivida galleria di ritratti allestita tra le stesse sale per 82 Portraits and One Still Life, Grabsky prova a risalire, con una qualche sistematicità, alle origini del processo creativo. Oscillando tra il timido rigore dell’indagine critica e la disinvolta leggerezza della divulgazione, la regia pone gli strumenti linguistici del cinema al servizio delle opere esposte, dalle quali si dipanano svariate linee narrative che, arrestandosi alle soglie del biografismo, finiscono col tessere storie capaci di restituire suggestioni personali e brani di vita, rimanendo quasi sempre, soprattutto, storie d’arte.

Il riconoscimento della natura processuale dell’opera pittorica permette di indagarne, attraverso la sintassi filmica, la temporalità intrinseca,  articolata in tempo della visione e tempo di lettura, e attivata dallo sguardo dello spettatore: il cinema, continua a ricordarci Ragghianti, è arte visiva fondata su una dimensione temporale «esteriorizzata e materialmente apprezzabile», capace di estrarre e documentare il tempo segreto della pittura (Costa 1995, p. 57). Ora, Grabsky tenta di sviluppare la temporalità dell’opera pittorica documentando il consumarsi dell’esperienza della visione all’interno di spazi eterogenei, che tendono tuttavia a costituire una sorta di continuum in cui si incontrano il lavoro dell’artista e la possibilità di approfondirlo: il museo, lo studio di Bridlington, la campagna inglese, set della pittura en plein air.

Lenti movimenti di macchina, con accenti encomiastici poco dissimulati, restituiscono l’esperienza della visita alle due grandi mostre di Hockney guidando lo sguardo tra le sale, attraversando soglie, insistendo su profonde fughe prospettiche. Ampie panoramiche e lunghi carrelli rendono il senso dello spazio espositivo e di quello pittorico, provando a riproporre la sensazione di muoversi al loro interno, di attraversare l’infilata di sale fino a perdersi nei paesaggi dello Yorkshire che invadono le inquadrature di secondo e terzo grado: quadri dentro quadri che, come sconfinati trompe-l’oeil, sembrano ingannare perfino «l’inconscio tecnologico», dissolvere le quinte della Burlington House e sprofondare lo sguardo tra le colline dei Woldgate Woods (Vaccari 1979).

Il film di Grabsky finisce così per configurarsi come un’architettura di rimandi ipertestuali che, associando il potere divulgativo delle suggestioni visive a quello dell’oralità, custodisce la memoria delle esposizioni arricchendola di nuovi momenti di approfondimento differito, documenti e materiali d’archivio che illustrano il lavoro dell’artista insistendo su vecchi e nuovi spunti critici.

La riflessione polifonica intorno all’opera di Hockney è scandita dall’intervento di Edith Devaney, curatrice della sezione di arte contemporanea della Royal Academy, dalle due interviste all’artista condotte dal direttore artistico Tim Marlow e dai contributi critici di Martin Gayford e Jonathan Jones. Emergono così temi e luoghi della poetica di Hockney spesso già esplorati, ma una nuova emergenza del suo lavoro lascia trasparire una vocazione quasi metalinguistica del documentario d’arte, imponendosi tra le altre: il ruolo rivestito dalla tecnologia e dai nuovi media delle immagini digitali nella propria ricerca è al centro della conversazione intrattenuta dall’artista con Marlow.

Negli anni ottanta, Hockney si serviva di collage di Polaroid per esplorare i limiti della fotografia, il tempo e la prospettiva, e Pearblossom Highway (1986) scorre sullo schermo a ricordarcelo: una proliferazione di punti di vista corrispondenti a una molteplicità di scatti giustapposti. Se è vero che Hockney continua a considerare la fotografia penalizzata dal suo cogliere tutto in un colpo solo, da un unico punto di vista, perché «è il tempo che impieghiamo per vedere che costituisce lo spazio», nel corso degli ultimi anni, per il  monitoraggio costante e immediato delle sue opere multitela, l’artista si è avvalso dell’ausilio della fotografia e della stampa digitali (Gayford 2012, p. 144). Manifestando un interesse critico per la tecnologia connessa alla creazione di immagini, a proposito dei diari di schizzi redatti con iPhone e iPad, dice a Marlow, con rigoroso entusiasmo: «Il vantaggio di questo genere di strumenti è la velocità, tutti i colori e le sfumature sono immediatamente disponibili, ma disegnare velocemente significa perdere una certa quantità di dettagli. Manca ogni forma di attrito, non c’è la resistenza della carta ed è come disegnare sul vetro».

Nell’era dell’autoritratto digitale, 82 Portraits and One Still Life sembra una provocazione. L’umanità raccolta da Hockney nel suo suo studio di Los Angeles, nel corso di oltre due anni, è costituita da familiari, amici, collaboratori, e conoscenti. Ogni ritratto è stato realizzato entro un tempo prederminato di due o tre giorni perché l’osservazione fosse sempre stemperata dal potere dell’impressione, nel rispetto di un formato omogeneo, secondo codici prestabiliti e rigorosamente rispettati, e concepito precisa Tim Barringer come parte di un «progetto artistico dalla valenza scientifica» (Barringer, Devaney 2017, p. 14).

Hockney insiste sui grandi generi della tradizione pittorica, torna alla ritrattistica che ha esplorato, con pause più o meno prolungate, per tutta la sua ricerca. Ora osserva i suoi modelli per ritrarre individui: pur adottando l’atteggiamento analitico apparentemente imparziale riservato al paesaggio, tradisce una cura, una compromissione affettiva col soggetto ritratto non necessariamente dettata da una reale intimità biografica, ma da un interesse incoercibile per il volto e la figura umani, espressione di una soggettività individuale che, pur nella omogeneità della rappresentazione, Hockney tende disperatamente a custodire. Lo sguardo della macchina da presa, dal canto suo, tenta ancora di indagare l’opera come processo, ispezionare lo studio dell’artista, il luogo di questa relazione insondabile intrattenuta da Hockney con i suoi modelli nello spazio della creazione, ma, dovendo documentare un progetto espositivo, torna alla Royal Academy: Edith Devaney, tra i soggetti ritratti, osserva il proprio alter ego e ha la sensazione che l’artista le abbia restituito un’immagine di sé filtrata da «un’intelligenza profondissima».

Riferimenti bibliografici
T. Barringer, E. Devaney, David Hockney: 82 ritratti e 1 natura morta, Skira, Milano 2017.
A. Costa, a cura di, Carlo L. Ragghianti – I critofilm d’arte, Campanotto Editore, Udine 1995.
M. Gayford, A bigger message. Conversazioni con David Hockney, Einaudi, Torino 2012.
C.L. Ragghianti,
Connessioni e problemi: discorso estetico, in “Bianco e Nero”, n. 8-9, 1950.
F. Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico, Edizioni Punto e Virgola, Modena 1979.
     

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