Per Deleuze le potenze del falso sono in primo luogo strumenti di cui si serve la creazione artistica. Ma sono anche i mezzi di una creazione concettuale che utilizza i propri riferimenti teorici come altrettanti “intercessori” di un pensiero che li trasforma profondamente, che li altera pur fingendo di rispettarne la lettera. Le considerazioni di Andrew Culp esposte nel breve libro da lui dedicato al filosofo francese (uscito nel 2016 per la University of Minnesota Press) partono dalla constatazione di questo metodo della falsificazione creatrice, la cui origine è da ricercare nella meditazione deleuziana intorno ad alcuni concetti di Nietzsche e il cui esito è la produzione di un “personaggio concettuale” che non può che essere “mostruoso”.

Se da un lato questa disinvoltura metodologica costituisce uno dei motivi del destino contrastato cui l’opera di Deleuze è andata incontro nel mondo accademico, dall’altro è stata alla base del dilagare di una moda filosofica che non ha quasi registrato flessioni dopo la morte dell’autore di Differenza e ripetizione, avvenuta venticinque anni fa. Libri come L’anti-Edipo e Mille piani, scritti con Fèlix Guattari, hanno prodotto schiere di epigoni dagli orientamenti più disparati e trovato estimatori in ogni campo (dagli adepti del new materialism alla musica elettronica, dal fondatore di BuzzFeed alle forze di difesa israeliane). Culp – che insegna “Media History and Theory” al California Institute of the Arts di Los Angeles – non si oppone a questa folla di discendenti più o meno legittimi, anzi dichiara dall’inizio di farne parte e di voler aggiungere a questa covata un ennesimo figlio, il cui nome dà il titolo a questo primo suo libro, Dark Deleuze, da poco uscito in traduzione italiana a cura di Francesco Di Maio (Mimesis, Milano 2020).

Un giorno il secolo sarà deleuziano: la profezia foucaultiana, detta «un po’ per battuta» (Culp 2020, p. 34), sarebbe stata citata infinite volte in seguito dai tifosi di Deleuze. A distanza di mezzo secolo Culp può chiedersi se non si trattasse di un attacco che Foucault, tra le righe, rivolgeva all’amico: non lo stava in qualche modo accusando di essere troppo “storicamente adeguato” alla sua epoca, troppo attuale? In quegli anni, sulla scia della Nietzsche-Renaissance cui entrambi avevano contribuito, Deleuze rivendicava una posizione di pensatore che parla contro il proprio tempo, insegnando innanzitutto a diffidare dell’uso perverso delle parole (e sostenendo talora la necessità di abbandonare quelle che hanno troppo successo). Ma ora Deleuze incontra, suo malgrado, il favore di quel tempo contro cui diceva di parlare. La sua resistenza al presente sarebbe stata accolta da un presente che non oppone resistenza alcuna, e che anzi trova in lui un punto di riferimento e perfino un modo per legittimarsi.

La nascita di una vulgata e, ancor di più, di un’ortodossia deleuziana avrebbe segnato un passo ulteriore in questa direzione. Il filosofo della deterritorializzazione ha visto come pochi altri il proprio armamentario “riterritorializzarsi” in una forma stereotipata: lo svilimento del già menzionato “metodo” della falsificazione creatrice ha portato le nozioni da lui elaborate a irrigidirsi in slogan e a cristallizzarsi in parole d’ordine innalzate come vessilli (desiderio, rizoma, corpo senz’organi, ecc.), mortificando così la plasticità della creazione concettuale.

L’autore di cui qui ci occupiamo rigetta innanzitutto quest’idea di creazione, ritenuta responsabile di un’interpretazione “gioiosa” del pensiero del filosofo francese, che ne occulterebbe alcune delle istanze più profonde. Nella ricezione che di esso si è avuta nelle università nordamericane, a partire dagli anni settanta, l’immagine di Deleuze è andata infatti consolidandosi per lo più come quella del rappresentante di una filosofia dell’affermazione, di un’ontologia realista e di una metafisica della positività, al punto da venire utilizzata per stabilire un vero e proprio «canone della gioia» (ivi, p. 33). In aperta polemica con questo tipo di approccio, Culp intende riabilitare il polo “oscuro” di quest’opera, resuscitando la potenza del negativo insita nei concetti deleuziani.

Per farlo si richiama proprio a Nietzsche, rispetto ai cui assunti smaschera l’artificio retorico messo in atto da Deleuze: alla necessità di creare per distruggere, o di distruggere creando, che è propria del filosofo tedesco, Deleuze sostituisce infatti, con un’inversione logica dei termini della frase, l’esigenza di distruggere per creare, facendo dunque della creazione il fine, e non il mezzo, della filosofia. L’eco – del tutto distorta – di quest’idea si è tradotta nell’immagine di un pensiero che, celebrando i processi di differenziazione e i concatenamenti fra le cose, dice sì alla vita e benedice il mondo così com’è. È accaduto, così, che tanti abbiano «ridotto la sua rigorosa filosofia a un apprezzamento reciproco della differenza, dell’apertura agli incontri in un mondo intricato e delle capacità accresciute attraverso la sinergia» (ivi, p. 37).

Emblematico in tal senso è il dibattito che si è sviluppato intorno al concetto di immanenza, che si è prestato a voluttuose derive vitalistiche e fraintendimenti di ogni sorta. Va detto che Deleuze non ha mai fatto molto per scongiurare gli equivoci; lui stesso (nell’Abécédaire) osservava come il suo concetto di desiderio si fosse rapidamente pervertito in un elogio dello spontaneismo, dell’happening e della festa. Valorizzando ora il polo negativo della sua speculazione, Culp individua «l’errore di Deleuze» nel non aver coltivato piuttosto «un odio per questo mondo» (ivi, p. 42).

Già Alain Badiou invitava a non dare troppo credito all’immagine di un Deleuze gioioso pensatore della confusione del mondo: «C’è in verità nel pensiero di Deleuze un dolore terribile che è la condizione antidialettica della gioia» (Badiou 2007, p. 68). Culp sa che il suo concetto di negatività rischia di essere troppo compromesso con un’idea di negazione per non richiamare alla mente i ribaltamenti della dialettica. A quest’altezza è il principale ostacolo teorico che il suo programma deve in qualche modo aggirare: da qui l’elaborazione di un metodo – quello dei “contrari” – che elude la logica della contraddizione e dell’opposizione frontale dei termini. Dark Deleuze si struttura attorno a una serie di compiti; come risposta possibile a ciascuno di essi, Culp istituisce un’alternativa tra due approcci contrari, uno gioioso (joyous) e uno oscuro (dark), e in maniera abbastanza sconcertante aggiunge che «[l]’associazione che ogni termine ha con il suo contrario è puramente accidentale» (Culp 2020, p. 47). Ciò che ne scaturisce, infatti, è una serie di binomi che l’autore, alla fine dell’introduzione, schematizza in una tabella, coppie concettuali che non formano delle antinomie, ma piuttosto delle divergenze, in cui la regola che definisce il rapporto tra i termini in gioco non è data in partenza.

Nel rivoltare dall’interno il pensiero di Deleuze, Culp traduce in modo rigoroso una delle sue principali ingiunzioni epistemologiche. Il suo atomismo, infatti, fa sì che la relazione tra due termini implichi per lui la produzione di un terzo termine indipendente dai primi due. Ma quest’ultimo non è un termine “mediano”, come spesso si è equivocato (e come sostiene anche Badiou), ma un termine «che arriva dal di fuori»: un’esteriorità radicale che erode ogni dualismo. «Questo è il motivo per cui Dark Deleuze oppone l’oscuro al gioioso e non l’oscuro al luminoso o il gioioso al triste». Ed è questa la ragione per cui ogni alternativa non potrà che essere strutturalmente asimmetrica. Come avrebbe detto Deleuze, la regola del rapporto è data dalla “differenza di potenziale” che si produce tra i termini posti all’inizio, o, il che è lo stesso, «solo le differenze si somigliano» (ibidem).

Una volta fissati gli obiettivi e i modi del suo discorso, si pone all’autore l’esigenza di definire dapprima il compito principale fra tutti, quello da assegnare alla filosofia stessa. Non potendo più trattarsi di una creazione di concetti, essa deve rispondere a un nuovo imperativo, che secondo Culp è quello di «distruggere mondi» (ivi, p. 49). In particolare, Dark Deleuze si prefigge di uccidere questo mondo: dopo la morte di Dio (Nietzsche) e la morte dell’uomo (Foucault), una terza morte, quella di questo mondo, viene prospettata in toni apocalittici, come un evento che dovrà imporsi per mezzo di un complotto e di un’azione rivoluzionaria. Si tratta di un «progetto negativo» che, a detta dell’autore, l’opera di Deleuze «introduce ma non sostiene», e che è giunto il momento di rilanciare in nome di «una nuova inattualità» (ivi, p. 87). L’idea di creazione, ricondotta alla sua primitiva radice nietzschiana, media ora una distruzione di mondi.

Con la sua operazione di “restauro” (così la definisce lui stesso) della filosofia deleuziana,  Culp intende formare un contro-canone o un canone inverso (counter canon) della negatività e declinare il paradigma di un Deleuze rivoluzionario. Ma in che modo l’opposizione tra creazione e distruzione può risolversi nello slittamento dalla sfera del concetto a un’idea di mondo? Detto altrimenti, in che senso il mondo, l’assenza di mondo, diventa il “contrario” della costruzione concettuale? L’ipotesi dell’autore è che, nei pochi lustri che ci separano dalla morte di Deleuze, lo scenario si sia modificato a tal punto da rendere impraticabile il compito che lui e Guattari assegnavano al lavoro filosofico. Soprattutto pare essersi ormai definitivamente compiuto quel processo di conversione del mondo in un simulacro, di cui Deleuze aveva potuto soltanto scorgere (con sgomento) le premesse. Un orizzonte mediale divenuto ipertrofico, popolato di immagini audiovisive che sono altrettanti simulacri, ha destituito il pensiero del suo fondamento primario: l’essere è stato abolito a vantaggio di una pura apparenza immateriale, di un’allucinazione senza corpo. È il superamento dell’antinomia metafisica tra apparenza (mondo dell’esperienza) ed essenza (mondo vero): «Il “mondo vero” non esiste», e anche se esistesse, «sarebbe inaccessibile, inevocabile e, se fosse evocabile, sarebbe inutile, superfluo» (ivi, p. 83), scrive Culp riprendendo le analisi deleuziane dell’opera di Orson Welles, svolte ancora nel segno di Nietzsche.

Se c’è qualcosa che questa filosofia afferma, è il primato del vuoto, dell’interstizio e della lacuna su ogni pienezza dell’essere. Si è molto parlato dell’antiessenzialismo di Deleuze, per cui il concetto deve dire l’evento, e non più l’essenza. È, questa, un’istanza che qui l’autore fa interamente propria. Per Culp non è più, ormai, questione di metafisica né di ontologia, ma esclusivamente di politica. E il torto che egli imputa a molti di coloro che si professano deleuziani è appunto l’aver fatto spesso confusione tra le due cose. Dark Deleuze è un Deleuze che si è definitivamente sbarazzato dell’ontologia, un Deleuze integralmente politico. Un piccolo gruppo di allievi “dissidenti” di Deleuze, tra i quali François Zourabichvili, aveva già pronosticato l’estinzione del termine “essere” e pertanto dell’ontologia stessa; commentando l’orientamento assunto da questi che ribattezza “pessimisti gioiosi”, di cui pure condivide l’opzione de-ontologizzante, Culp afferma di non accontentarsi per il suo Dark Deleuze di alcuna posizione intermedia, rivendicando piuttosto di perseguire «un feroce pessimismo che frantuma il cosmo» (ivi, p. 52).

Se consideriamo l’insieme dell’opera di Deleuze, vediamo che l’immagine di un mondo ridotto in frantumi si affaccia, significativamente, nei due libri che egli dedica al cinema, situandosi per così dire al loro incrocio, nella zona di sovrapposizione in cui si articola lo snodo tra le due ricerche. Compare dapprima, alla fine di L’immagine-movimento (1983), in ciò che Deleuze chiama “crisi dell’immagine-azione”, e successivamente, all’inizio di L’immagine-tempo (1985), nella trattazione riservata alle situazioni dispersive e lacunose del cinema neorealista. In entrambi i casi, è la spia di una frattura più profonda, che fa passare il cinema all’età adulta, facendolo diventare “moderno”: la rottura del legame tra uomo e mondo, il venir meno della loro non-indifferenza reciproca.

A buon diritto ci si è potuto chiedere se effettivamente si sia verificato nel cinema, durante gli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, qualcosa come una crisi dell’immagine-azione, in cui l’allentarsi dei nessi drammatici e narrativi avrebbe lasciato spazio all’esposizione di una realtà disgregata. Che si tratti o meno di una finzione storiografica funzionale alle strategie retoriche di Deleuze (come sostiene ad esempio Rancière), è ciò che gli consente di distillare quella nozione di otticità pura che rappresenta la chiave di volta nell’architettura dei due volumi. «Una situazione puramente ottica e sonora non si prolunga in azione più di quanto non sia indotta da un’azione. Essa fa cogliere, si presume faccia cogliere qualcosa d’intollerabile, d’insopportabile» (Deleuze 2001, p. 29).

Sospeso tra eccezionalità e banalità quotidiana delle situazioni, ciò che l’immagine filmica ora veicola risulta intollerabile, per troppa potenza o troppa ingiustizia, per un eccesso di orrore o bellezza (il sublime). «In ogni modo qualcosa, nell’immagine, è diventato troppo forte. Già il romanticismo si proponeva questo scopo: cogliere l’intollerabile o l’insopportabile, il dominio della miseria, e in tal modo divenire visionario, fare della visione pura un mezzo di conoscenza e d’azione» (ivi, p. 30). Da un libro all’altro, compare l’idea romantica e “nera” di una organizzazione della miseria, di un oscuro complotto con cui un potere anonimo, servendosi di immagini senso-motorie precostituite, ha trovato il modo di assoggettare le nostre coscienze, portandoci a “tollerare” più o meno tutto in ciò che ci circonda. Al contrario, facendo vedere qualcosa di intollerabile nella situazione, l’immagine ottica pura ripristina una funzione di “veggenza”.

Ciò che letteralmente tiene insieme questo cosmo disfatto, dice Deleuze, sono i cliché, che ci impediscono di vedere quanto non sapremmo sopportare, in noi e fuori di noi. La critica di Culp alla connettività, «il nome dato alla crescente integrazione di persone e cose attraverso la tecnologia digitale» (Culp 2020, p. 36), può articolarsi proprio attraverso la riattivazione di quest’istanza critica del progetto deleuziano, posta al centro del dittico composto da Cinema 1 e 2. «Eserciti di messaggeri invisibili striano ora i cieli, incaricati di comunicare, connettere, trasmettere e tradurre. Per quanto possano sembrare fonte di ispirazione, ci costringono anche a incorporare i loro messaggi in parole e azioni. Click, poke, like» (ivi, p. 35). L’obiettivo ultimo del connettivismo è di favorire la costruzione di un reale unitario, di un mondo unico e perfettamente integrato, che annulla tutti gli “altri” possibili.

La premessa storica da cui muove Culp nel definire i punti del suo programma di distruzione è nell’insufficienza, largamente documentata dalle ricerche foucaultiane, di tutti i tentativi compiuti dalle scienze umane per salvare il mondo, tentativi che si sono rovesciati nell’istituzione di un biopotere abietto, «che paradossalmente amministra la vita attraverso “il potere di esporre una popolazione a una morte generale”» (ivi, p. 88). Ma in che rapporto si trovano le «ragioni per credere a questo mondo», delle quali abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo, con le «ragioni per salvare il mondo», cui ora deliberatamente ci si sottrae, al punto da invocarne con tanta veemenza la fine? Il nodo è cruciale quantomeno per capire se questo Deleuze negativo, pessimista e rivoluzionario sia un Deleuze plausibile e non un fantasma infantile (come sostiene invece Rocco Ronchi nell’intervento posto in conclusione del volume).

La credenza nel mondo – in questo mondo e non in un altro: Deleuze cancella lo spazio dell’utopia – non è separabile dalla percezione di ciò che di intollerabile vi è in esso. Ma Culp ci ricorda che è proprio dalla coscienza dell’intollerabile che, in un modo del tutto privo di “ragioni”, può sorgere la croyance: «Questa credenza fa dell’impensato la potenza propria del pensiero, per assurdo, in virtù dell’assurdo» (Deleuze 2001, p. 190). È all’idea di creazione, al suo pervertimento, che l’odio si oppone, non alla credenza assurda e infondata. La credenza in virtù dell’intollerabile.

Chiedendoci di esplorare «il lato oscuro della credenza», Dark Deleuze tratteggia una sua versione di questa fede nel mondo, ovviamente tutta in negativo: «Il punto non è uscire da questo luogo, ma cannibalizzarlo – possiamo essere di questo mondo, ma certo non siamo per esso. Questo essere fuori dai cardini è una distanza. E la distanza è ciò che dà inizio all’oscura immersione nei molti mondi che il vecchio ha eclissato» (Culp 2020, p. 38). È a questo livello che il concetto di “odio per questo mondo” può manifestarsi nella sua effettiva consistenza: la lezione di contrarietà che Culp trae da Deleuze «è che la negazione consiste nel trovare un modo per dire “no” a coloro che ci dicono di prendere il mondo così com’è» (ivi, p. 45).

Fare della visione pura un mezzo di conoscenza e d’azione, un atto di resistenza entro uno scenario percepito “in profondità”, nella sua ingiustizia costitutiva. Ma la coscienza di qualche cosa di intollerabile nel mondo è anche, per lo stesso motivo, ciò che introduce al virtuale, a ciò che non si lascia attualizzare in uno stato di cose determinato. Deleuze lo rende chiaro quando parla del nuovo tipo di personaggi che caratterizza questo cinema. Essi vi compaiono come dei medium, o degli “spettatori” di un’azione che non li concerne: «Poiché quel che capita loro non gli appartiene, non li riguarda che a metà, essi sanno estrarre dall’avvenimento la parte irriducibile all’accadere: quella parte di inesauribile possibilità che costituisce l’insopportabile, l’intollerabile, la parte del visionario» (Deleuze 2001, p. 31).

Come Deleuze avrà modo di ribadire in Che cos’è la filosofia? (1991), il filosofo e l’artista sono esattamente questo “visionario”. E tale, a suo modo, è anche Andrew Culp, che sceglie consapevolmente di far interpretare al suo personaggio di nome Dark Deleuze la parte di un veggente capace di distinguere la virtualità del divenire-rivoluzionario dall’attualizzarsi di ogni impresa concreta, l’infinito zampillare del possibile al di là di qualsiasi azione determinata nel processo storico. L’aver sottolineato la centralità di questo motivo – l’intollerabile nel mondo – nel pensiero di Deleuze costituisce il suo merito maggiore.

Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Oltre l’uno e il molteplice. Pensare (con) Gilles Deleuze, a cura di T. Ariemma e L. Cremonesi, Ombre Corte, Verona 2007.
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 2001.
Id., L’immagine-movimento. Cinema 1, Ubulibri, Milano 2002.

Andrew Culp, Dark Deleuze, a cura di F. Di Maio, Mimesis, Milano 2020.

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