La spazialità. Questo interessa Fulvio Risuleo sopra ogni altra cosa. Esplorare uno spazio scavando nelle sue viscere pixelate o scavalcando le sue pareti passando da un terrazzo all’altro dei palazzi romani. Non una spazialità qualsiasi, però. Uno spazio mobile, percorribile, uno spazio di ritorno che presuppone un movimento e dunque un suo tempo proprio. Quest’ultimo, nei lavori di Risuleo, si disgrega nei “contenitori” spaziali che attraversa, viene slabbrato e impastato da essi come la pasta viene plasmata dalle formine da pasticciere e trasformata in cornetti croccanti. Tutti diversi, tutti da mangiare, come quelli disposti da Teco, il protagonista di Guarda in alto, nelle teglie delle albe sulla Prenestina.
La Parigi cartografata di Reportage bizarre esemplificava già bene l’idea di un cine-gioco in cui lo spettatore è chiamato a tuffarsi negli spazi via via aperti dal dispositivo in questione: nel caso di Reportage (piattaforma interattiva ancora adesso aperta online) l’utente può “animare” i paesaggi della capitale francese zoomando sulla porzione di spazio prescelta e avvicinandosi ai suoi dettagli più nascosti. In Varicella (primo cortometraggio del regista vincitore alla “Semaine de la Critique” a Cannes 2015) lo spazio di una colazione in famiglia diventa quello indefinito e senza confini della previsione ossessiva; gli amanti di Lievito madre (secondo corto vincitore del Cinemaster 2015 e terzo premio a Cannes-Cinéfondation 2013) si muovono nelle stanze di una realtà in trasformazione, ondeggiano intorno ad un perverso “terzo incomodo” che cresce in un barattolo di vetro.
Guarda in alto (primo lungometraggio di Risuleo, premio MIA alla Festa del Cinema di Roma 2017) è un invito al dislocamento già dal titolo; non a caso le prime inquadrature distorcono la visuale di un ipotetico passante/spettatore “schiacciandolo” sulla strada con il naso all’insù verso i cornicioni. Il film racconta un viaggio surreale in cui lo spazio e il tempo della città (di Roma, ma potrebbe essere qualsiasi altra città) vengono messi radicalmente in discussione. Si tratta di un viaggio che non ha una meta precisa incarnando al contrario una forma di esplorazione totalmente aperta. Questa esplorazione è chiamata a gestire uno spazio che, proprio ed esclusivamente nella sua imprevedibilità e nella sua esposizione ad un attraversamento prima di tutto locomotorio, perlustrativo e non tendente ad un fine, è catalizzatore di un atto di reinvenzione del sé del protagonista.
Il fornaio Teco (Giacomo Ferrara) fa una pausa-sigaretta sul terrazzo dell’edificio in cui lavora; uno strano gabbiano che vola in modo diverso dal suo stormo attira la sua attenzione, lo stesso gabbiano precipita qualche terrazzo più in là e Teco decide di scavalcare per andare a cercarlo. Si lascia alle spalle i due ragazzi che sfornano con lui tutte le notti, ma il muro che oltrepassa ha fin dal principio l’aria di essere un confine tracciato su una mappa molto più grande, meno o forse più reale di quella dei tetti della capitale: è lo spazio di un ritorno a qualcosa che si stava perdendo, o forse un progresso verso un ignoto che si riscopre familiare. La labirintica strada della progressione/regressione ci conduce da questo momento in poi in un viaggio dal carattere a tratti “mitico”.
Prima e ultima tappa del percorso ad anello, l’incontro con una banda di piccoli “creativi” mascherati, grazie ai quali Teco scopre che bambino è chi cede la parola in cambio della meraviglia, tessendo le proprie gesta su una linea del tempo disegnata nello spazio di un geroglifico colorato. Teco non è un eroe che scopre se stesso nella distanza che lo separa da una possibile meta; fa fatica a raccontarsi, non ha un preciso scopo, “semplicemente” gioisce nel percorrere quel tappeto aereo che gli si è steso inaspettatamente ai piedi, bruciando le tappe o indugiando nel suo tessuto. Si muove, corre tra le antenne, si accuccia nelle strettoie, si incunea nei condotti delle palazzine: ci si scorda da dove è partito e non ci si chiede, assolutamente mai, dove sia diretto. Del resto anche il regista racconta di aver costruito il film affidandosi completamente al caso e agli incontri spontanei con i volti che compaiono nel suo film: la sua è un’opera già di per sé nata e sviluppata nel corso di un viaggio di anni tra paesi diversi, passeggiate notturne e discorsi tra amici, da un “tetto” all’altro.
Le figure in cui si imbatte il protagonista sono tutte connesse dall’idea chiave che lo spazio è il migliore amico, come dicevamo, della reinvenzione, intrecciate in questa comune speranza un po’ come i terrazzi sono tra di loro tutti collegati. Non deve saltare mai, Teco: la continuità architettonica gioca a favore della sua avventura, dalla mattina alla notte avanza su una scacchiera di fantasia, scoperchiando ad ogni casella un personaggio che affida la sua esistenza ad una realtà recintata – ma il recinto è sempre aperto e pronto ad essere scavalcato ancora un’altra volta. Tra tutti: un giardiniere dei cieli che ha arredato nei minimi dettagli un sogno da cui ha imparato a non svegliarsi, incantando come un mago se stesso e la sua reggia per inzupparci dentro il suo destino; due gemelli tedeschi che vogliono esportare il “nudismo urbano” in Italia, sdoganando una convenzione a partire da un luogo alto e nascosto in cui piantano una tenda e si concedono ai rari avventori; una mongolfierista francese che lascia il suo uomo gettandosi nel nulla con il paracadute, piuttosto che affrontandolo verbalmente.
Quest’ultimo è l’esempio più radicale. Stella (Aurelia Poirier), per cui Teco vive una momentanea infatuazione – unico possibile ostacolo alla ripresa continua del suo viaggio – prende le sue decisioni muovendosi: fugge nelle nuvole risentita ad una frase del suo amante, lo riconquista danzando come una baccante in un locale improvvisato su una delle terrazze. Sullo sfondo, quasi fil rouge della “toponomastica” del film, una comunità di suore tutte intente ad ordire non si capisce bene quale mistero: figure per eccellenza sfuggenti ad un’identità definita, “antartide di pinguini” che si affaccendano nei loschi sottotetti di un convento. In questo costante e roteante “spostarsi” perde di senso persino l’articolazione linguistica: Teco e Stella da un certo punto in poi del film cominciano a comunicare attraverso un linguaggio di loro invenzione, il “capo” dei bambini che chiude il cerchio degli incontri è soprannominato “il Muto”. Come se il nuovo spazio-tempo divorasse anche le parole in modo da lasciarsi andare ancora più profondamente alla dimensione fisico-materica che scorre impetuosa lungo l’intera pellicola.
Risuleo adora Tintin e disegna fumetti: in un certo senso ricrea nel suo modo di fare cinema il montaggio delle vignette in cui il flusso del tempo è squarciato da spazi che lo delimitano e lo connotano, affondando la visione nelle maglie di ciascuna delle realtà proposte pagina dopo pagina. Un po’ come i “mosaici digitali” dell’artista francese (Space) Invader che tappezzano ormai pareti e pareti di diverse città europee e hanno ispirato il regista per la creazione della sua personale riflessione grafica, Pixel. Come l’esploratore del mondo dal ciuffo rosso, anche l’“esploratore dei tetti” Teco, nell’ultima – se di ultima si può parlare – vignetta del suo fumetto, abbandona la Terra alla volta di un ennesimo, nuovo viaggio.
La banda dei bambini mascherati – in una nuova “isola che non c’è” dirottata agli ultimi piani del centro di Roma – sceglie lui come pilota per il razzo diretto verso la Luna. Il suolo di partenza si fa così sempre più lontano e insensato: non c’è ritorno, o forse il vero ritorno è ormai una freccia che punta in direzione inversa, spostata da tutti gli spazi percorsi come una lancetta dell’orologio che non torna mai al vero punto di inizio. Il razzo ricava l’energia dalle membra mutilate della statua di un santo. Anche Teco, che ha nel nome quella fiducia che i bambini decidono di donargli (il razzo può partire “con te” che lo piloti), guarda definitivamente in alto solo dopo essersi decomposto e riconfigurato. Felice di essere rimasto imbrigliato in un percorso senza fine e consapevole che, conosciuta la meraviglia del girovagare, non c’è ritorno al “prima” che tenga, Teco si lancia nello spazio.