Si è – giustamente − molto parlato della sfida che avete intrapreso insieme, la traduzione del “Finnegans Wake” di James Joyce. Una traduzione poderosa e apparentemente impossibile. Voi stessi avete scritto, in passato, che “la pagina di Finnegans Wake è il luogo delle metamorfosi”: come si traduce una lingua perennemente in divenire? E come trovare una strada per orientarsi, quando la creazione e ri-creazione verbale, l’ambiguità semantica, non danno tregua al traduttore?

 

F.P.: Joyce ha scritto il “libro della notte” dopo quel “libro del giorno” che era Ulysses, ma restando sempre fedele all’idea di un “poema eroicomico in prosa”. In questo caso gli eroi sono le parole, il protagonista è il linguaggio stesso, enigmatico ma animato da un’energia comica esplosiva, e immerso in uno stato di traduzione permanente, che convoca decine di idiomi diversi. Abbiamo proseguito il lavoro già iniziato ormai quattro decenni or sono da Luigi Schenoni per gli Oscar Mondadori mirando essenzialmente a restituire (che qui significa anche ricreare) la comicità nascosta negli abissi di ogni idea verbale di Finnegans Wake. In un libro fluttuante, la cui difficoltà nasce non da una carenza ma da un eccesso di senso, in cui nulla rimane mai fermo nella sua identità ma “ciascuno è anche qualcos’altro”, bisogna cogliere lo spunto da cui Joyce è partito per ogni variazione (anche in senso musicale) della scrittura e ripartire da lì, mettendo a frutto tutti i poteri di una lingua italiana resa straniera a sé stessa, pulviscolo di maceria, e materia nuova.

E.T.: Orientarsi può apparire impossibile in un libro che punta tutto sul disorientamento. Ma Joyce non è, come si può pensare – e come i detrattori che però faticano a leggerlo possono affermare – un narcisista col desiderio di mettere in difficoltà i suoi lettori per il solo gusto di farlo. Lui segue coerentemente un percorso già delineato in un suo saggio del 1901 quando, diciannovenne, scriveva evocando Bruno: “Nessuno, disse il Nolano, può essere amante del vero e del bene a meno che non abbia in odio la moltitudine; e l’artista, per quanto possa ricorrere alla folla, è molto attento a isolarsi”. In quel “nessuno” c’è già Odisseo, e nell’idea di moltitudine non c’è il popolo nel senso nobile caro a Joyce, un popolo inteso come essere coeso e pulsante che aspira a migliorarsi, ma il popolino indolente e abituato all’idea che l’arte sia un qualcosa di ancillare, di discosto dalla vita, che possa donare un senso di calma e tranquillità proprio perché della vita non farebbe parte se non in maniera riflessa. Il lettore di romanzi semplici e semplificanti, per dirla tutta. E invece Joyce sa bene che l’esistenza è affare complesso, e se l’arte, e dunque anche il romanzo, deve essere vero e non fallace, non può che aspirare allo stesso livello di complessità della vita che viviamo, costellata di eventi inspiegabili. Compreso questo, il pensiero oscuro di Stephen nell’Ulisse, pensiero anche questo bruniano, ossia che “abbiamo l’oscurità nell’anima”, aiuta sia il traduttore che il lettore ad avvicinare l’oscura notte dell’anima del Wake, perché se lo comprendiamo, sapremo che anche nella più buia delle notti una luce può sempre filtrare, e basta seguirla per fare scoperte sorprendenti.

 

A quest’impresa lavorate insieme. La pratica di tradurre a quattro mani, a volte guardata con sospetto, in questo caso è certamente una scelta e un arricchimento. Come lavorate e quali sono i vantaggi della traduzione a quattro mani in questo o anche in altri casi?

 

F.P.: Lavoriamo da soli su parti di testo contigue e separate, poi ce le scambiamo e commentiamo i risultati dell’altro. È un processo di revisione continua. Intanto in quello spazio di gioco che si apre fra noi si accende un vivace brulichio di idee, proposte, voli pindarici, calcolati azzardi; ma lì vanno anche a spegnersi, ci auguriamo, le tentazioni idolatriche, mistiche, assolutizzanti che un testo così fuori norma imporrebbe a un traduttore solitario. Il vantaggio del tradurre in modo collaborativo, soprattutto nel caso del Finnegans Wake, è di poter approfittare dello sguardo dell’altro, che dal punto di vista di un’esperienza un po’ distante, di una formazione magari di diverso stampo, sa apportare nuove conoscenze e nuove interpretazioni, cogliendo altri fili del discorso intrecciato di Joyce.

E.T.: La traduzione nasce storicamente collaborativa. L’idea del traduttore che lavora in isolamento da tutto e tutti è relativamente recente. I testi sacri erano tradotti collettivamente, e questa pratica piace pensare fosse soltanto frutto di ragionevolezza. Quando la traduzione collaborativa diviene un modo per fare le cose di fretta e per risparmiare dunque tempo e denaro, ovviamente va stigmatizzata come qualcosa da non perseguire. Ma in via teorica, più menti lavorano a un testo scambiandosi idee e suggestioni, più si avrà la possibilità di risalire attraverso il prisma traduttivo verso la luce dell’originale. Io e Fabio proviamo a mettere in pratica questa teoria e l’esperienza ci conforta. Tanti passi in cui un traduttore si sarebbe arenato (e ci è capitato) sono poi risolti dall’illuminazione dell’altro. Credo che tutti i testi di grande complessità meritino l’apporto di tante teste al lavoro. Se possibile sincronicamente.

Vi definite “straduttori”: perché?

 

F.P.: Le parole del Finnegans Wake sono “atomi” che diventano “etimi”. La lingua della notte ricrea il caos/caso primordiale, in cui tutto è dicibile perché siamo nel buio profondo, il basso corporale e l’aulico si fondono. La “s” può voler dire che per creare bisogna distruggere il “già detto” (anche Finnegans Wake, come Ulysses, lavora sui cliché del linguaggio), mentre “stra” ci indica un oltre, scintille di idee e piroette di parole inusitate nate dal cozzo degli atomi-etimi. Io direi per celia che aspiriamo ad essere anche traduntori, nel senso del contagio, ammesso che il Finnegans sia un libro “contajoyce”.

E.T.: “Stradurre” nel nuovo lessico wakeano che oramai abitiamo significa anche extra-dare, oltre che extra-dire. Ogni traduzione è in bilico tra l’arrendersi e il rendere, e quando non si arrende rende di più, offre qualcosa che magari non ci si aspettava. Il significato, come il demonio, sta nei dettagli, e la traduzione non è il post-mortem del testo, non è la sua vivisezione, e neanche la riesumazione, ma del testo è la vita oltre la morte, come già lasciava a intendere Benjamin. Ma questo vale anche per la lettura. Allora per noi stradurre significa principalmente trasumanare.

Tu, Enrico, in precedenza hai lavorato alla traduzione dell’Ulisse di Joyce, pubblicata nel 2012. Quali le differenze con il Finnegans Wake?

 

E.T.: Come il giorno e la notte, ma nel senso della continuità. Tra le ultime parole di Ulisse scritte da Joyce ce ne sono tantissime di inventate, tra cui l’espressione meravigliosa “Darkinbad the brightdayler”, che modifica nientemeno che “Sinbad the sailor”, Sinbad il marinaio delle Mille e una notte. È un altro Ulisse, ma nell’originale è anche per Joyce il male, il peccato (bad sin), ma al contrario, e quale sarà il contrario del peccato? Si dirà l’agire bene, ma il peccato originale è un tutt’uno con l’umano, come a dire che Dio deve essersi divertito anche lui a giocare con le parole quando, scacciando Adamo dall’Eden, deve aver pensato “Hai errato, quindi ora ti tocca errare”. Bene e male come facce della stessa medaglia, e dunque giorno e notte non più come contrari, ma come aspetti dell’esistente che si compenetrano. Di qui quel bellissimo dark in bad che al mattino porta il chiarore del giorno. Insomma, in Ulisse c’è tutto il Finnegans in nuce, ma anche in miniatura. Una volta tradotto il primo non si può non stradurre anche il secondo.

Fabio, insieme a Stella Sacchini, hai dato vita e diretto la prima edizione di “BookMarchs – L’altra voce”, primo festival italiano dedicato esclusivamente ai traduttori editoriali e alla traduzione letteraria. Com’è nata quest’idea?

 

F.P.: L’idea è di Stella. È nata la scorsa estate nel seno delle Marche meridionali, in una terra candida, ritrosa, in cui una cultura rurale millenaria ha ancora una sopravvivenza ma sta cedendo il passo a qualcosa di nuovo. Qui ci sono paesi piccoli e grandi sparsi in una estensione notevole di territorio, fra colline intatte, con un retroterra artistico e culturale di tutto rispetto (penso alla pittura di Carlo Crivelli); eppure le prime librerie o biblioteche degne di questo nome sono a decine di km di distanza. Non è più l’umile Italia di cui parlava Pasolini. Trionfa la cultura della sagra, della cucina-spettacolo, dell’ospitalità campagnola (rivolta anche, con timida audacia, agli stranieri) e che però non premia chi cerca esperienze di altro tipo, una socialità meno dispersiva, una condivisione radicata a fondo nella storia di quei paesi. L’altra voce – guardando da una periferia d’Italia alla pratica del tradurre – intende mettere l’accento sull’accoglienza dell’altro: quell’accoglienza che il traduttore sperimenta, vive, difende in prima persona sapendo di non dover prevaricare sul mondo e sulla parola dell’autore che ha fra le mani.

Nella presentazione al festival si legge che questo vuole “spingersi oltre il confine delle parole, per costruire una riflessione in pubblico sull’accoglienza dell’altro”. Possiamo dire che tradurre un libro è accoglierlo, con tutte le sue complessità, sfumature e diversità, da una lingua a un’altra lingua, dove si senta però ugualmente rispettato?

 

F.P.: Mi pare che il sostantivo fondamentale sia proprio “complessità”. La semplificazione fa sempre comodo a chi esercita un potere. Un traduttore non ha potere. Sperimenta l’umiltà e le minuziose sfaccettature di ogni pensiero. Non si è traduttori se non si è lettori in grado di spingersi a fondo nelle pieghe del testo; e per accoglierlo, riacclimatarlo sotto un altro cielo è indispensabile non “alzare la voce”, ma essere sempre in ascolto.

E.T.: Credo che sì, l’accoglienza sia insita nella democraticità del tradurre, ma è paradossalmente preceduta da un moto quasi contrario, che non è di sospetto, ma forse paura, di straniamento, di circospezione verso l’alterità, e che prelude al tentativo di ricognizione del complesso. Questo moto, poi, nella pratica traduttiva è seguito in un primo passaggio da qualcosa di ancor più violento, una sorta di aggressione del testo, un’aggressione benevola, intendiamoci, ma necessaria allo sradicamento che occorre nell’attimo in cui un testo viene cambiato in tutto e per tutto per poi approdare alla lingua di arrivo. Questa aggressione benevola, di cui parla anche Steiner, è la condizione essenziale che consentirà non l’appropriazione, l’omologazione, o l’asservimento, ma il dialogo dato dall’integrazione, e dunque l’accoglienza.

Cosa intendete quando parlate di “traduzione democratica”?

 

F.P.: È l’allegro rifiuto del frame competitivo che ormai vediamo affermarsi in ogni ambito. Le varie traduzioni di un testo letterario si completano, si affiancano, dialogano fra loro, non si fanno la guerra per uccidersi. Abbiamo la coscienza di operare “umanisticamente” in un contesto di scambi, incontri, contatti fra colleghi e studiosi orientati a un progresso nella conoscenza. Poi, va da sé, Finnegans Wake (con il suo perenne volgere l’erudizione in parodia e la parodia in erudizione) è la negazione stessa del principio di autorità applicato a un testo consacrato.

E.T.: Intendiamo che traduzione significa innanzitutto comunicare, e comunicare è mettere in comune, quindi in sostanza vivere non nell’isolamento, ma nello scambio, nell’arricchimento reciproco. È il senso dell’arte, della cultura, e della letteratura, sebbene Joyce evada un po’ dai binari talvolta troppo fissi della letteratura, per fare incontrare all’infinito le linee parallele del letterario. Credo che tradurre – qualunque cosa si traduca – sia sempre un esercizio di democrazia, sia sempre un tendere verso gli altri che non conosciamo, come paventava Amleto.

Viene prima il pensiero sul tradurre o l’atto del tradurre?

 

F.P.: L’atto del tradurre dà indubbiamente molti pensieri, i quali tendono in seconda battuta a organizzarsi in discorso. Ma tradurre è prima di tutto una pratica che trae origine dal confronto con un testo individuale, un incontro calato nel tempo.

E.T.: Giustissimo, e poi è davvero impossibile non tradurre, come è impossibile non pensare, poiché ogni pensiero è un atto traduttivo. Certo, la riflessione traduttologica ha da sempre accompagnato la pratica del tradurre, sebbene oggi sia intesa in senso più professionale. Le riflessioni sul tradurre credo siano fondamentali per capire come funziona la nostra mente nel momento in cui si cimenta con l’impossibile possibilità di interpretare l’ignoto, ossia la mente altrui, sebbene questa, nella testualità, abbia un’apparenza di noto, ossia il nero su bianco della pagina. Ma è l’insondabile della mente a cui anela il traduttore, esattamente come chiunque si disponga, democraticamente, a tentare di capire l’altro.

Oltre che traduttori, siete entrambi anche insegnanti di traduzione. Tu, Enrico, all’Università per Stranieri di Perugia e tu, Fabio, alla Scuola del Libro di Roma. Cosa può essere utile nel percorso di formazione di un traduttore oggi?

 

F.P.: A mio modo di vedere si può forse insegnare una postura, un atteggiamento, si possono offrire risorse e strategie, ma di fondo bisogna essere comunque dotati di quel rovello, di quella “curvatura mentale” che fanno il traduttore. Un traduttore è un lettore scrivente, molto aperto e specializzato, pieno attore nel mondo, che da una posizione di ascolto e servizio (oppure di “estrema oblatività”, per dirla con Renata Colorni) passa poi ad un agire decisivo. Le vie della scrittura dovrà pur conoscerle. Poche e scarne letture, che siano nella lingua di origine o in quella di approdo, non fanno un buon traduttore.

E.T.: Come dicevo, tradurre è leggere, ma anche vivere, se è vero che leggiamo continuamente i segni che ci circondano. Aiutano di certo (oltre ai curricula professionalizzanti e accademici), la curiosità perenne, il sentirsi permanentemente inappagati, il sapere di non potere mai arrivare alla conclusione di un percorso ermeneutico, che nasce dal buio illuminante dell’intuizione e approda a quello illuminato dell’interpretazione.

Siete voi ad aver scelto di tradurre il “Finnegans Wake” o è stato lui ad aver scelto voi come suoi traduttori?

 

E.T.: Fu un esempio di factificazione della transustanziazione nell’appercezione di affini elettività.

F.P.: Bisognerebbe chiederlo direttamente a lui con un esercizio di bibliomanzia! La chiave è comunque la liberazione della lingua, che è ciò che ci vincola più di tutto. “Siamo già parlati”, ma non rinunciamo all’idea di poter alzare la testa mentre il fiume del linguaggio – e della storia – ci travolge; e di trarre un bel respiro, come incontrando una parola nuova.

Riferimenti bibliografici
J. Joyce, Finnegans Wake. Testo inglese a fronte. Vol. 3: I-II, a cura di F. Pedone e E. Terrinoni, Mondadori, 2017.

*Il volume finale (libro III capp. 3 e 4, e libro IV) del Finnegans Wake uscirà il 4 maggio del 2019, ottantesimo dalla pubblicazione, e a quasi quarant’anni dall’inizio dell’opera di Luigi Schenoni.

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