«L’età del ferro sta arrivando, il sipario sta calando» recita tra le altre cose Kiev Calling, la versione guerresca di London Calling diffusa nei giorni scorsi dalla rock band Beton. Il brano, registrato nell’Ucraina invasa dalle truppe russe e mixato a Los Angeles, contiene un esplicito invito all’intervento Nato sul fronte orientale: «Dimenticate che possiamo farcela da soli», sostiene il testo reinterpretato per l’occasione. Pare che gli ex membri dei Clash abbiano dato in qualche modo il loro consenso all’operazione. Nei giorni scorsi il cantautore inglese Billy Bragg, uno di quelli che ha raccolto il testimone dei Clash quanto a consapevolezza artistica e impegno sociale, ha denunciato i Beton per appropriazione indebita. Bragg ha diffuso la foto dei membri della band che indossano una maglietta che inneggia a Stepan Bandera, il capo dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini che nel corso della Seconda guerra mondiale collaborò coi nazisti in funzione anti-sovietica. I Beton hanno a loro volta risposto rivelando di avere le idee quantomeno un po’ confuse e assicurando di essere «antifascisti e antirazzisti».
È una storia di rock’n’roll, cultura popolare e riferimenti iconografici, questa, che è anche l’ennesima conferma della confusione ideologica che aleggia attorno al conflitto ucraino. Bisogna dismettere ogni schematismo e decostruire l’apparato propagandistico e militaresco per capire che su entrambi i fronti di battaglia ci sono combattenti che inneggiano al fascismo. Di più: che entrambi gli eserciti hanno assorbito e riarrangiato alla bisogna ideologie di estrema destra quando non esplicitamente nazifasciste. Lo ha fatto il governo dell’aggredita Ucraina, la cui popolazione civile da un mese subisce una guerra ingiusta e criminale, che negli anni scorsi ha utilizzato formazioni paramilitari esplicitamente naziste e retoriche antisovietiche per alimentare la contrapposizione con la Russia. E lo ha fatto anche l’aggressore russo, visto che dietro l’alibi della «denazificazione», sbandierato da Putin dando inizio alla macelleria ucraina, la macchina ideologica russa si alimenta del mito molto amato dai fascisti dell’Eurasia e si pone l’obiettivo di ristabilire l’Impero russo. Come scrive Guido Caldiron ricostruendo la genealogia di destra della narrazione ideologica putinana, il frame disegnato da Alexander Dugin, il principale agitatore intellettuale del nuovo nazionalismo russo ospitato in Italia da CasaPound, la guerra all’Ucraina serve a combattere il «globalismo» in nome del ritorno al sangue e suolo e della tradizione.
Il fatto che i Clash risuonino in questo contesto è tre volte paradossale. Il primo paradosso è evidente: anche lo sprovveduto che non conosca la band di Joe Strummer, Mick Jones, Topper Headon e Paul Simonon con una rapida ricerca in rete prenderà atto della loro solida cultura antifascista. Se anche, ed eccoci al secondo elemento di cortocircuito ideologico, volessimo intendere la cover di London Calling dei Beton come invito a schierarsi dalla parte degli aggrediti contro l’aggressore e dunque a mettersi dalla parte ucraina, qualcosa non tornerebbe. London Calling, sia la canzone che il doppio album cui dà il nome, non è una dichiarazione di adesione all’Occidente né una bandierina d’appartenenza piantata nella capitale britannica, in Europa, da questa parte della barricata ideologica. Esattamente il contrario. Al loro terzo disco i Clash rivelarono al mondo che il paese dei Beatles e della Regina stava collassando. E che Londra si stava letteralmente inabissando. È una canzone sull’apocalisse (Armagideon Time è il titolo della canzone che esce sul lato b del singolo di London Calling) con la quale i Clash compiono la missione per cui erano nati: provincializzare Londra, la Gran Bretagna e l’Impero.
Mal Peachy, curatore dell’enciclopedico volume sui Clash uscito qualche anno fa e tradotto in Italia da Isbn, ha scritto: «La stampa musicale britannica in generale non ha apprezzato il fatto che i Clash stessero diffondendo la loro sfera di influenza in tutto il mondo. Ma i Clash hanno sempre avuto un progetto globale». I Clash ebbero l’ambizione di ridefinire i rapporti di forza e ridisegnare le geografie. La testimonianza di questa attitudine sta in un poster che la band decise di inserire nel materiale promozionale di Give’em Enough Rope, il disco che precede London Calling. C’è la mappa del mondo e per ogni continente vi sono segnalati terroristi, gruppi armati, disastri naturali, eserciti di liberazione. L’Atlante dei Clash è confusionario e provocatorio, ma guarda al mondo intero: lo scombina e lo ridefinisce, traccia link inattesi e alleanze improbabili perché gli equilibri dati (all’epoca quelli della Guerra fredda che le rappresentazioni di oggi vorrebbero torni in forma grottesca, postmoderna, senza che nessuno degli schieramenti contrapposti metta in dubbio il capitalismo) non bastano.
Kiev Calling è una canzone profondamente stonata, e qui la questione assume un aspetto persino più stridente, se la si analizza sulla scorta dei cultural studies sul punk di Dick Hebdige o degli studi sulla sottocultura di Dave Laing. Il punk, dunque, sarebbe un genere del tutto inafferrabile se non ne isolassimo le due caratteristiche decisive: l’attitudine a recuperare lo stile diretto e lo spirito primitivo del rock’n’roll delle origini e la tendenza ad assorbire, decostruire e risignificare il segno dei tempi, masticare e risputare le parole che circolano in un dato contesto storico per osservare la realtà in maniera completamente diversa. Questo continuo rimescolamento di immagini, modi di dire, titoli di giornale, marchi commerciali ha bisogno di una robusta capacità di agitare formule retoriche e metaforiche quali l’ironia, la similitudine, l’iperbole e il sarcasmo. «Drop your bombs between the minarets», cantavano i Clash in un’altra canzone, Rock The Casbah. Anche in quel caso, un esercito provò ad appropriarsene per snaturarla: durante la Guerra del Golfo fu la prima canzone della playlist selezionata per i piloti dell’aeronautica statunitense. Nel film documentario di Julian Temple su Joe Strummer The Future is Unwritten un amico di Joe Strummer racconta che il cantante dei Clash scoppiò a piangere di rabbia quando seppe che il titolo del brano era stato scritto su una bomba che poi sarebbe stata sganciata sull’Iraq.
Di immagini e cut-up, ribaltamenti e metonimie il punk è pieno. Nel 1979 i Dead Kennedys con California Über Alles profetizzavano l’ascesa di una forma di autoritarismo new age e fintamente liberale («Zen fascists will control you», cantava Jello Biafra) ma venne da alcuni equivocato come inno parafascista, per cui la band dovette chiarire le proprie posizioni rilasciando il singolo Nazi Punks Fuck Off (questa volta un messaggio senza doppi sensi, rivolto a cervelli semplici). Il gruppo seminale dell’hardcore straight edge Minor Threat scrisse una canzone che si chiama Guilty of Being White, che esprimeva il disagio di vivere a Washington, città con un alto tasso di afroamericani, e di sentirsi in colpa per quello che i bianchi avevano fatto ai non bianchi nel corso della storia. Anche quel brano fu equivocato da alcuni gruppi di destra, che lo considerarono un manifesto del vittimismo sovranisti.
In modo forse ancora più elaborato, i Bad Religion capitanati dall’antropologo e docente alla Ucla Greg Graffin hanno scritto numerosi pezzi che contengono ribaltamenti di senso provocatori per lo stesso senso comune della sottocultura punk. Canzoni come No Control e Do What You Want, riprendono claim tipici dell’antiautoritarismo per capovolgerne il messaggio e seminare dubbi. Per dire che l’uomo non è al centro del mondo e dunque non può illudersi di avere il controllo di tutti i processi in corso o per decostruire il mito nietschiano del super-uomo. Bisogna essere stupidi o fascisti (e come è noto molto spesso le due cose non si escludono) per non capire certi messaggi. Solo che in mezzo a una guerra, o quando si ha a che fare con nazionalisti in diversi modi mascherati, lo spazio di sospensione e creatività tipico delle forme artistiche e comunicative tende a essere appiattito e logorato dalla militarizzazione dei discorsi. Un motivo in più per non dismettere lo spirito critico e non farsi arruolare dalle truppe della propaganda.