Panic is spreading,
God know where we’re heading,
Oh, make me wanna holler,
They don’t understand … Dah, dah, dahInner City Blues (Make Me Wanna Holler)
Muhammad Ali sta riaffermando il suo celebre rifiuto alla guerra in Vietnam, “shoot them for what?”, lasciando spazio alle note blues di Marvin Gaye come ideali interpreti di quel sentimento. L’inquadratura stacca ora sul controcampo vietnamita in un altro frammento d’archivio dove due soldati afroamericani ascoltano un vinile, forse proprio Inner City Blues. Parte da qui il montaggio vertiginoso della prima sequenza di Da 5 Bloods, mettendo in dialettica istantanee della sporca guerra e icone identitarie del black power: dall’Apollo 11 che conquista la Luna come “piccolo passo per l’uomo e grande passo per l’umanità”, alla stessa America che “ha dichiarato guerra ai neri” nelle parole di Kwame Ture; dalle tensioni sociali ad Harlem nell’agosto del ‘70 (le stesse cantate da Marvin Gaye nel suo inno generazionale), a una nuova coscienza per l’attivismo politico (“se non si collega cosa sta accadendo in Vietnam a cosa sta succedendo qui rischiamo un periodo di fascismo in piena regola”, dice da un palco la giovane Angela Davies). E poi: dai pugni chiusi di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico nel ’68, agli scontri alla Kent State University del maggio ‘70; dai massacri in Vietnam, Cambogia e Laos, alle parole di Hồ Chí Minh, Lyndon Johnson e Richard Nixon, per finire con i frame dell’orrore immortalati da Eddie Adams e Nick Út che aprono al caos politico e militare nel post caduta di Saigon.
Un montaggio filologico e visionario nello stesso tempo, che apre varchi nelle tracce archiviali impastandone l’originaria tensione documentale con il sempre più forte portato mitopoietico. Perché quelle immagini (ci) raccontano ancora. Spike Lee sa che qualsiasi ragionamento sul nostro presente come figlio delle contraddizioni del secolo breve va operato rifunzionalizzando la piena disponibilità delle immagini del passato tra memoria collettiva e generi codificati del cinema americano, quindi tra formati e supporti che riescono oggi più che mai a storicizzare il nostro sguardo. Il regista di Fa’ la cosa giusta e BlacKkKlansman, del resto, ha sempre tentato di rendere politico l’atto del suo filmare (nell’ostinata ricerca di nuove forme che ragionassero e si interfacciassero attivamente alla realtà contingente), più che renderlo un mero atto di propaganda (e alcuni eccessi calligrafici, che non sono certo mancati nella sua carriera, oggi appaiono come i tratti meno interessanti del suo cinema).
In Da 5 Bloods, pertanto, la guerra del Vietnam diventa uno straordinario spazio simbolico che ragiona criticamente sulle tracce immaginarie che ha seminato (dai reportage tv al grande cinema di Coppola, Cimino e Stone, sino alle riscritture di Sylvester Stallone e Chuck Norris che “hanno voluto vincere la guerra sullo schermo”), articolando un discorso sull’attuale contesto geopolitico e neocoloniale (i McDonalds e i KFC che intasano lo sguardo dei protagonisti a Ho Chi Minh City). Un flusso di input culturali che non può non terminare nel nostro 2020, con le immagini di protesta del Black Lives Matter che dialogano con l’ultimo frammento del cinema di Lee. Ossia il durissimo cortometraggio presentato lo scorso 7 giugno alla CNN con gli scioccanti video della morte di George Floyd a Minneapolis montati in campo-controcampo con la morte di Radio Raheem soffocato da un poliziotto in Fa’ la cosa giusta.
Il fuori campo irrappresentabile e traumatico di questo Da 5 Bloods? Beh, in fondo gli stessi discorsi di Ali, Malcom X o Martin Luther King sono qui riarticolati non tanto per riaffermare la potenza di quei messaggi, quanto per l’audacia di un gesto di libertà: opporre il pensiero come contropotere che sfrutti consapevolmente i media di massa. Il cinema di Spike Lee è sempre stato questo.
Veniamo doverosamente ai 5 fratelli di sangue. Quattro ex soldati ultrasessantenni si rincontrano sul campo, nella vecchia Saigon (oggi Ho Chi Minh City), alla ricerca dei resti di un loro compagno caduto in battaglia (Norman, il quinto fratello). Proprio come in The Irishman di Scorsese i fantasmi del passato sono indistinguibili dai sentimenti del presente, (di)segnati dai formati e dai supporti delle immagini, ma privati di ogni digital de-aging che li ricontestualizzi. I quattro protagonisti rimangono infatti corpi anziani del XXI secolo che entrano negli spazi di memoria del XX. Pertanto: il trauma rimosso (il Vietnam resta la frontiera morale di ogni riflessione sull’America contemporanea), il discorso identitario sulla lotta per i diritti civili (“Abbiamo combattuto una guerra immorale che non era la nostra, per difendere diritti che non avevamo”) e l’immaginario condiviso (Apocalypse Now diventa prima un party a tema e poi il testo base per interpretare le varie tappe del viaggio), si coagulano nel plot/macguffin di questo film: la ricerca di un tesoro sotterrato nel lontano 1971. Lingotti d’oro della Cia che i cinque soldati trovano e sotterrano e che Stormin Norman, leader carismatico del gruppo, destina subito alla causa degli afroamericani come risarcimento morale.
Proprio Norman — caduto in circostanze tragiche sul campo di battaglia e ancora vivo nella memoria emotiva dei suoi amici — viene interpretato da Chadwick Boseman, il protagonista di Black Panther della Marvel, forse il punto di fusione più interessante tra le istanze civili afroamericane e le nuove narrazioni transmediali dei blockbuster-franchise globalizzati. Una scelta di casting lucidissima che fa scivolare il film verso gli umori dello spettacolo hollywoodiano (si riconoscono nitidamente i segni de Il tesoro della Sierra Madre di John Huston) rivisitato in chiave black. Da 5 Bloods traccia molte altre deviazioni significanti e relative dimensioni interpretative: dal senso di colpa occidentale della giovane ereditiera francese che investe il suo denaro nello sminamento della giungla, ai fantasmi del colonialismo incarnati da un trafficante francese, sino al radicale personaggio di Paul interpretato non a caso da una delle icone del cinema di Lee (Delroy Lindo, il padre di famiglia di Crooklyn, forse il film più autobiografico del regista). Un reduce tormentato che combatte ancora la propria guerra personale, divenuto nel frattempo un convinto sostenitore di Donald Trump proprio perché dominato dalla rabbia. Paul alza il pugno come Tommie Smith e ci guarda dritti in faccia come un novello Kurz, configurando le incredibili contraddizioni del nostro presente.
Fermiamoci qui. Da 5 Bloods è un film dilatato, disequilibrato, zeppo di vie di fuga lasciate in potenza, ma anche un’esperienza spettatoriale straordinariamente viva e capace di intercettare il caos di forme contemporaneo. Ennesimo tassello della lucida strategia di legittimazione culturale di Netflix che negli ultimi anni sta ingaggiando le grandi firme del cinema internazionale per attirare nuove fasce di pubblico (Fincher, Scorsese, Soderbergh, i Coen, Cuaron, Greengrass, ecc); ma anche ennesimo tassello del personale cinema-militante di Spike Lee che ora abbraccia convintamente la streaming culture. Un impegno, il suo, che non ha mai saputo fare a meno degli strumenti dell’industria culturale instaurando con essa un rapporto necessario e/o ambiguo (a seconda dei punti di vista), ma sempre estremamente fertile. Ecco che nel 2020 diventa coerentissimo il suo approdo su Netflix utilizzando tutti gli interstizi del nuovo intrattenimento on demand per ragionare su istanze che hanno bisogno di denaro e pubblicità per essere ascoltate su scala globale.
Insomma, in queste due ore e mezzo di fluviale film-saggio balenano il viet-movie anni ’70 e la black comedy anni ‘90, le tracce archiviali del pamphlet politico e la caccia al tesoro dell’avventura hollywoodiana, i bivacchi del western classico e le crisi identitarie del cinema d’autore, terminando sulle proverbiali utopie musical(i) che sospendono nuovamente il tempo del racconto nell’insistita frontalità enunciativa. E sì, c’è tanto bel cinema in questo liminale film-in-streaming di Spike Lee.
Da 5 Bloods. Regia: Spike Lee; sceneggiatura: Spike Lee, Danny Bilson, Paul De Meo, Kevin Willmott; fotografia: Newton Thomas Sigel; montaggio: Adam Gough; musiche: Terence Blanchard; interpreti: Delroy Lindo, Jonathan Majors, Clarke Peters, Norm Lewis, Isiah Whitlock Jr.; produzione: Lloyd Levin/Beatriz Levin Productions, 40 Aces & a Mule Filmworks, Rahway Road Productions; distribuzione: Netflix; origine: USA; durata: 154′.