È uscito da qualche mese per MIT Press eppure, in Italia, non ha ancora suscitato particolare attenzione, con recensioni, letture, articoli dedicati. È il nuovo libro di Lev Manovich, intitolato Cultural Analytics. Un libro che riprende alcune tematiche già sviluppate in influenti lavori come Il linguaggio dei nuovi media (2002), Software Takes Command (2013), L’estetica dell’intelligenza artificiale (2020): il carattere tran-storico di ciò che comunemente chiamiamo interfacce, l’affermazione di una poetica dell’archivio tanto in ambito artistico quanto nelle pratiche interattive a portata di utente e, più in generale, il rapporto tra tecnologia ed estetica. Ma il nuovo libro di Manovich presenta alcune novità rispetto ai precedenti e, in un certo senso, ci spiazza. Da un lato ci ricorda che gli strumenti e le competenze dell’informatica sono ormai necessarie per occuparsi di arte e cultura visuale. Dall’altro lato – questa la tesi che vorrei sostenere – Cultural Analytics sembra soprattutto costringerci a fare i conti con il potenziale creativo di ogni ricerca e con le tecnologie attraverso le quali osservare e ripensare tanto il patrimonio storico-artistico quanto il flusso di immagini del tempo presente.
Fin dalle prime pagine, Manovich esprime la necessità di superare il logocentrismo che ha caratterizzato buona parte delle digital humanities per sottoporre la cultura visuale e i media digitali stessi a processi meta-conoscitivi, attraverso il ricorso alla computer science, alla data visualization e alla media art. In un’epoca caratterizzata dall’invadenza degli algoritmi e dalla delega ai computer di vastissimi processi percettivi e cognitivi, non è forse possibile ingaggiare tale armamentario per estendere le forme di comprensione di ciò che comunemente chiamiamo arte? In che modo un software o una serie di software possono aiutarci a osservare e comprendere il modo in cui utilizziamo i media? A prospettarsi per questa via non è forse una concezione interattiva e creativa dell’interpretazione e della ricerca?
La partita è complessa, la posta in gioco molto alta. Inutile negare che nella moltiplicazione di progetti scientifici e culturali che utilizzano l’intelligenza artificiale tendono a riaffiorare residui positivistici e concezioni statiche dell’iconologia, intesa come semplice detection di figure e motivi. Come dire che il fatto di delegare a una macchina il riconoscimento e la catalogazione di un’immagine o di una serie di immagini rischia di comportare la rinuncia ai saperi dello sguardo maturati nel corso dei decenni.
Sebbene non si confronti in modo diretto con tali criticità, Manovich prospetta un approccio capace di innestare le competenze umanistiche con gli strumenti tecnologici vecchi e nuovi: «Piuttosto che sostituire il punto di vista umano con gli algoritmi, l’intenzione della cultural analytics è quella di aumentare le nostre capacità fornendo nuove interfacce e tecniche per osservare enormi set di dati e flussi culturali» (Manovich 2020, p. 11). È questa una frase nella quale – non meno che nel titolo stesso del libro – riecheggiano alcuni principi metodologici e teorici della cultural analysis, nella messa a fuoco proposta nei decenni scorsi da Mieke Bal.
Strutturato in dieci capitoli più un’introduzione e una conclusione, il volume sembra dunque prefiggersi tre obiettivi principali. Il primo è identificare le ragioni pratiche e teoriche per investire nel nuovo approccio: il cambio di scala introdotto dal digitale, il ruolo dell’intelligenza artificiale nell’industria culturale, l’affermazione di strumenti analitici per misurare e comprendere processi di fruizione mediatica. Il secondo obiettivo del volume è senza dubbio quello di illustrare alcuni strumenti utilizzati all’interno del Cultural Analytics Lab, diretto da Manovich presso la City University of New York, come ad esempio il software ImageJ, prodotto nel 1997 dall’Università del Wisconsin per applicazioni nel campo della medicina e riconcepito come un software di sampling spaziale e temporale, montaggio e visualizzazione sinottica di enormi quantità di immagini. Il terzo obiettivo è dunque quello di mostrare e descrivere gli esiti sperimentali della ricerca: dal progetto Selfiecity – dove mediante un’applicazione digitale interattiva è stato possibile analizzare tremiladuecento selfie postati su Instagram in diverse metropoli – a Kingdom Hearts, rimontaggio di ventiduemilacinquecento fotogrammi estratti da una partita con l’omonimo videogioco; dalla visualizzazione all’interno di un’unica tavola di settecentosettantasei dipinti di Van Gogh a quella di un milione di pagine di fumetti manga.
A suscitare particolare attenzione, per chi si interessa al cinema e all’analisi del film e delle immagini, sono le ultime pagine del libro. Quelle pagine che riprendono e illustrano un esperimento condotto qualche anno fa e originariamente pubblicato con il titolo Visualizing Vertov. Facendo ricorso alle diverse possibilità di analisi quantitativa dell’immagine, campionamento e montaggio offerte dal software ImageJ, Manovich illustra il lavoro di scomposizione e ricomposizione di due film di Dziga Vertov: L’undicesimo (1928) e L’uomo con la macchina da presa (1929). Tra i criteri adottati per l’elaborazione delle diverse tavole risultanti da tale processo: «Il secondo fotogramma di tutte le inquadrature del film»; «il fotogramma di inizio e quello finale di ogni inquadratura»; «fotogrammi meno luminosi e più luminosi»; «tutti i fotogrammi di una sequenza», ecc.
Al di là del fascino suscitato da queste visualizzazioni – che potremmo in prima battuta definire spazializzazioni dell’esperienza temporale del cinema – Manovich accenna ai risvolti analitici e interpretativi dello sguardo iper-ravvicinato: «Vertov è un neologismo inventato dal regista, che lo adottò come nome d’arte. Deriva dal verbo russo vertet, che significa “ruotare”. […] Tuttavia, la nostra visualizzazione suggerisce un’immagine molto diversa di Vertov. Quasi tutte le inquadrature di L’undicesimo iniziano e finiscono praticamente con la stessa composizione e lo stesso soggetto».
Il campionamento dei fotogrammi e la visualizzazione attraverso un software contemporaneo come ImageJ si prestano in questo caso alla messa in rilievo di aspetti compositivi presenti in un film dei primi decenni del Novecento e difficilmente identificabili a occhio nudo. Se nella tradizione della teoria sovietica di Ejzenštejn e Vertov il montaggio costituiva una forma di conoscenza e trasformazione della società e delle forme artistiche del passato, Manovich sembra dirci che anche le applicazioni digitali contemporanee possono dare luogo a configurazioni e visualizzazioni capaci di rinnovare la comprensione e l’uso di forme culturali presenti e passate.
Si diceva in apertura che questo nuovo libro di Manovich si contraddistingue per un approccio pratico. Sembra volerci spingere a fare qualcosa, a leggerlo e studiarlo oltre sé stesso – e proprio in questo senso è un “manuale”. Se è davvero così, Cultural Analytics può funzionare come un prezioso innesco o un propellente per proseguire e rilanciare la pratica delle immagini, indagando il crinale sottile che separa il lavoro d’analisi – quantitativa e qualitativa – dal gesto creativo. Grazie agli strumenti informatici è infatti possibile indagare la dislocazione geografica dei selfie nelle principali città del mondo, ma anche tornare a esercitare uno sguardo ravvicinato sulle forme artistiche e cinematografiche, studiando il lavoro di composizione e regia nei suoi risvolti “micro-compositivi” (variazioni di campo, illuminazione, cromatismi interne alle singole inquadrature) e “macro-compositivi” (durate, numero di inquadrature, elementi ridondanti su larga scala, pattern strutturanti intere macro-sequenze).
Al di là dell’entusiasmo tecnologico, ben prima delle applicazioni digitali o comunque con mezzi ormai superati, sono stati proprio alcuni artisti a dare luogo a forme di remapping di opere precedenti: analisi e visualizzazioni, rimontaggi e installazioni capaci di aumentare la nostra conoscenza del passato e, al contempo, di dire qualcosa sull’oggi. Tra gli esperimenti citati da Manovich, A Movie (1958) di Bruce Conner, 24h Psycho (1993) di Douglas Gordon, The Clock (2011) di Thomas Marclay. La cultural analytics lavora insomma all’interno del paradigma dell’archeologia dei media, dove l’utilizzo di nuovi strumenti per la ricerca può costituire un’occasione d’indagine sui dispositivi sottesi a diverse forme espressive.
Alla fine della lettura, è chiaro: non esistono scorciatoie. Se non conosco e non amo il cinema di Vertov o di altri autori, non saprò mai pilotare le tecnologie digitali per analizzare il loro cinema. Allo stesso modo, se non sono interessato ai fenomeni sociali e alla cultura visuale contemporanea, non saprò dove e che cosa osservare, come disporre sul campo gli strumenti di misurazione. Intraprendere questo percorso di ricerca significa dunque aprire tavoli di confronto nei quali studiosi di arti, di media, scienziati sociali e informatici possano confrontarsi e mettere a punto domande interessanti, strumenti di elaborazione accurati e forme di visualizzazione efficaci.
Al di là degli esperimenti già condotti da Manovich, Cultural Analytics è dunque un invito a sperimentare la forma saggistica oltre i confini del libro, utilizzando tecnologie vecchie o nuove ma comunque capaci di analizzare una serie di immagini o un fenomeno mediatico nel momento stesso in cui ne mostrano i pattern strutturanti, le caratteristiche particolari e d’insieme, le potenzialità. L’analisi quantitativa ha senso solo se concepita come una pratica creativa.
Riferimenti bibliografici
L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, a cura di A. Tibaldi, Olivares, Milano 2011.
Id., Software Takes Command: Extending the Language of New Media, Bloomsbury, New York 2013.
Id., L’estetica dell’intelligenza artificiale. Modelli digitali e analitica culturale, a cura di V. Catricalà, Sossella Editore, Roma 2020.
Lev Manovich, Cultural Analytics, MIT Press, Cambridge 2020.